Sentenza n. 444/2002

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SENTENZA N.444

ANNO 2002

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Riccardo CHIEPPA  

- Gustavo ZAGREBELSKY  

- Valerio ONIDA        

- Carlo MEZZANOTTE         

- Fernanda CONTRI   

- Guido NEPPI MODONA    

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI    

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK        

- Francesco AMIRANTE        

- Ugo DE SIERVO     

- Romano VACCARELLA    

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 30- bis del codice di procedura civile, in relazione agli articoli 11 del codice di procedura penale e 1 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 10 agosto 2001 dal tribunale di Bologna nel procedimento civile vertente tra Claudio Cressati e Caterina Brindisi, iscritta al n. 885 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 2001.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 5 giugno 2002 il Giudice relatore Franco Bile.

Ritenuto in fatto

1.- Con l’ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Bologna, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 30-bis del codice di procedura civile, ritenendolo in contrasto con gli articoli 3, 24, 25, 97, 101 e 111 della Costituzione, nella parte in cui assoggetta l’esecuzione forzata, ed in particolare quella per obblighi di fare e non fare ex art. 612 cod. proc. civ., promossa da o contro un magistrato, alla competenza di un giudice diverso da quello di cui all’art. 26 del codice di procedura civile.

La questione è stata sollevata nel corso di due procedimenti riuniti introdotti separatamente, ai sensi dell’art. 612 cod. proc. civ., rispettivamente dal coniuge separato di un magistrato in servizio presso il Tribunale di Gorizia (e, quindi, nell’ambito del distretto di Trieste), e dallo stesso magistrato, per ottenere la determinazione delle modalità di esecuzione di un provvedimento assunto dal Tribunale di Bologna, con ordinanza presidenziale emessa in sede di separazione dei coniugi, con la quale il coniuge del magistrato era stato autorizzato a separare, a proprie spese, un appartamento all’interno della villa costituente la casa coniugale, sita in provincia di Gorizia, per abitarvi dopo l’esecuzione dei lavori. Il coniuge del magistrato, dopo avere intimato con precetto <<l’esecuzione spontanea>> di tale disposizione, non avendo ottenuto l’assenso al suo ingresso nell’immobile per l’inizio dei lavori, aveva proposto ricorso ai sensi del citato art. 612 cod. proc. civ.; dal suo canto, il magistrato aveva richiesto la determinazione delle modalità del prelievo forzoso delle "cose personali", dal coniuge non rimosse spontaneamente in ottemperanza al precetto all’uopo intimatogli.

All’udienza fissata per la trattazione dei due ricorsi, il rimettente, riuniti i procedimenti, prendeva atto che, come era del resto pacifico fra le parti, una di esse era – sia all’atto della proposizione del ricorso, sia in quel momento - magistrato in servizio presso il Tribunale di Gorizia.

1.2. - Il rimettente rileva che il legislatore, nell’introdurre l’art. 30-bis cod. proc. civ., si riferisce alle "cause in cui sono comunque parti magistrati" ed usa una formulazione che induce a ritenere che anche il foro dell’esecuzione forzata sia soggetto alla regola di competenza di cui alla citata norma.

1.3.- Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente osserva che questa Corte ha ritenuto compatibile con gli artt. 3 e 25 Cost. la scelta di spostare il foro territoriale nel processo penale fuori del contesto operativo in cui esercita le funzioni il magistrato imputato o parte offesa (trattandosi di scelta funzionale alla garanzia del prestigio e dell’indipendenza della magistratura e motivata dal rischio di una qualche influenza sulla genuinità dell’accertamento dei fatti, che potrebbe scaturire dall’appartenenza del singolo all’ufficio), mentre <<non incoerente>> è stata considerata <<<l’omessa previsione di una regola omologa altresì per il processo civile>>, per l’esistenza di differenze di fondo fra i due tipi di processo.

Ricorda poi che, con la sentenza n. 51 del 1998, questa Corte ha escluso la necessità sul piano costituzionale di un’automatica estensione del foro dell’art. 11 del codice di procedura penale al processo civile e, nel contempo, ha rilevato che solo il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, può stabilire per quali controversie quell’estensione sia possibile senza sacrificare interessi e valori costituzionalmente rilevanti.

In particolare rileva che con la sentenza citata questa Corte ha affermato: a) che la pluralità dei fori sussistente in genere nel processo civile rinvia ad una "molteplicità di interessi, riguardanti persone e cose, che vengono in considerazione relativamente alle varie liti", e l’esigenza di imparzialità e terzietà del giudice si esprime secondo modalità attuative <<non necessariamente identiche a quelle previste per il processo penale", tenuto conto che nel processo civile la stessa "formazione del convincimento del giudice" appare orientata da un apprezzabile e determinante "impulso paritario delle parti">>; b) che, di regola, nel processo civile, le esigenze di non condizionamento del giudice sono assolte con gli istituti dell’astensione e della ricusazione ex artt. 51 e 52 cod. proc. civ. e che il legislatore, quando ha ritenuto necessario il concorso di altre cautele, ha fissato una deroga alla competenza con apposita legge, come per i giudizi di responsabilità connessa ai danni recati dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni ai sensi della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati).

1.4.- La norma censurata, viceversa, non permetterebbe, in via interpretativa, di rinvenire singole partizioni del processo civile nelle quali l’esigenza di radicare il processo presso il foro naturale codicistico sia prevalente rispetto a quella fissata, in via generale, dall’art. 30-bis ed a sua volta annulla, in un indistinguibile coacervo richiamante tutti i processi civili, di cognizione ordinaria e di esecuzione forzata, le differenze di necessario trattamento già cospicuamente rilevate da questa Corte costituzionale nel 1998.

Correttamente, dunque, i procedimenti a quibus sarebbero stati radicati a Bologna. Né potrebbe ritenersi che il debitore esecutato non sia "parte", riservandosi tale qualificazione solo ai giudizi incidentali di cognizione sull’esecuzione forzata, come le opposizioni esecutive e le controversie ex art. 512 cod. proc. civ. o di divisione ex artt. 599-601 cod. proc. civ. Infatti, se pure può convenirsi sulla attenuazione dello statuto della "parte" nell’esecuzione forzata, tale concetto è comunque evocato da una serie di norme, come l’art. 485, l’art. 495, gli artt. 530 e 569, l’art. 548 e lo stesso art. 612 cod. proc. civ., onde l’art. 30-bis, quando si riferisce alle cause in cui è parte un magistrato, non può non considerare anche il processo esecutivo.

1.5.- L’art. 3 e l’art. 24 Cost. sarebbero rispettivamente violati per la disparità di trattamento e per l’aggravamento delle condizioni di esercizio del diritto di difesa cui sarebbe assoggettato il creditore del facere o non facere che promuove l’esecuzione forzata, in quanto <<distanziandosi l’oggetto dell’attività giurisdizionale da un vero e proprio accertamento in sede contenziosa delle pretese obbligazioni civili (e non derivanti da attività professionale) verso il magistrato o del magistrato-creditore verso un comune debitore, l’espropriazione forzata è processo che, per definizione, presuppone il titolo esecutivo e, con esso, può prescindere, pur senza divenire attività amministrativa, dal rito ordinario o speciale che contrapponga un terzo al magistrato (e viceversa) nella contestazione in ordine alla affermazione del diritto di credito>>. D’altro canto, <<la relazione processuale fra le "parti" del processo esecutivo>> non risulterebbe <<di regola (ed in particolare nel caso de quo) in alcun modo incisa dalla qualità di magistrato della obbligata, chiamata a subire l’eventuale dictum del g.e. in ragione dell’inadempimento di un obbligo fungibile comune, in cui cioè è assente qualunque riflesso della predetta condizione professionale>>, come sarebbe evidente allorché si tratti di prestazioni a contenuto patrimoniale inerenti allo status di coniuge separato.

Sulla premessa che il modo di svolgimento dell’esecuzione forzata - attraverso i poteri ablatori del giudice dell’esecuzione sui beni dell’esecutato, i poteri di intervento coattivo nei luoghi del debitore e la finalizzazione satisfattiva degli atti - comporta il rispetto <<di norme che, nel modo più celere possibile, dunque davanti al giudice naturale precostituito per legge ex art. 25 Cost., consentano al creditore il soddisfacimento della propria pretesa>>, il rimettente sostiene che <<da questo punto di vista>> l’applicazione della norma censurata all’esecuzione forzata <<altererebbe in modo rilevante il corretto e tempestivo incardinamento del processo>>.

1.6. - In base a tali argomentazioni, il rimettente assume che l’applicazione dell’art. 30-bis e lo spostamento della competenza comporterebbe <<un aggravio della condizioni difensive del creditore ed un costo ulteriore, quantomeno da un punto di vista temporale, circa il realizzo del credito stesso (volendo, evidentemente, alludere al creditore non magistrato) con … violazione degli artt. 3, 24 e 25 Cost.>>.

Con riferimento all’esecuzione degli obblighi di fare e non fare questo rilievo apparirebbe ancora più evidente, in quanto il distanziamento del giudice dell’esecuzione dal luogo in cui l’obbligo andrebbe attuato, <<per migrare al luogo legislativamente distante dall’area geografica di operatività del magistrato>> coinvolto, comporterebbe che non si possa assicurare celerità ed economia al processo esecutivo, in quanto governato da un giudice di altro distretto rispetto al luogo di attuazione del titolo esecutivo, con conseguente lesione anche dell’art. 111 della Costituzione.

La lesione degli indicati parametri costituzionali si verificherebbe anche a carico del debitore magistrato, trattato irrazionalmente in modo deteriore rispetto al debitore comune, potendo partecipare al processo ed esercitare le sue difese solo spostandosi in altro distretto, in un luogo diverso da quello in cui si trovano i beni aggrediti o deve essere attuato l’obbligo inevaso, nonché a carico del creditore magistrato, l’esercizio del cui diritto di credito subirebbe una compressione del tutto speculare.

Inoltre, l’applicazione dell’art. 30-bis comporterebbe anche un cattivo funzionamento dell’amministrazione della giustizia, rilevante ex art. 97 Cost., tenuto conto che il giudice dell’esecuzione dovrebbe svolgere la sua funzione in un sito distante da quello al quale sarebbe di norma ancorata la competenza, secondo scelte che, in ragione delle varie specie di esecuzione, sono individuate con riguardo all’attività materiale con la quale dovrà svolgersi l’esecuzione (lex rei sitae per l’espropriazione mobiliare ed immobiliare, luogo di residenza del debitore per l’espropriazione presso terzi). Nel caso dell’esecuzione ex art. 612 cod. proc. civ., l’incaricato del giudice dell’esecuzione, cioè l’ufficiale giudiziario, dovrebbe recarsi a Gorizia per sovrintendere ai lavori di cui trattasi oppure per curare l’asporto di taluni beni mobili, mentre le persone nominabili dal giudice dell’esecuzione quali ausiliari dell’ufficiale giudiziario (tecnici, periti, imprese, depositari) dovrebbero essere coordinati da Bologna per attività materiali da compiersi nel distretto triestino.

Inoltre, le difficoltà cui fa riferimento l’art. 612 cod. proc. civ. spesso esigono, per essere risolte, sopralluoghi dei tecnici o dello stesso giudice dell’esecuzione.

Tutto ciò evidenzierebbe la lesione dell’art. 97 e dell’art. 111 Cost., collidendo con l’efficace e sollecita attuazione del titolo esecutivo e la ragionevole durata del processo, ora recepita anche dalla legge n. 89 del 2001, in ossequio all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e dell’art. 101 Cost.,dovendo il principio di unitarietà della giurisdizione assicurare pari condizioni per la tutela del credito, <<senza ingiustificati allontanamenti dal foro previsto in via generale per una pronta soddisfazione dello stesso in via di esecuzione forzata>>.

Infine, il rimettente osserva che l’esigenza di evitare che il magistrato sia parte in un processo affidato al "collega della porta accanto", per come è stata attuata rivelerebbe una manifesta illogicità, sotto il profilo che il foro di cui alla norma censurata comporta lo spostamento in un altro distretto di corte in ogni caso in cui il magistrato eserciti le funzioni all’interno di esso, pur geograficamente molto vasto. L’applicazione del foro dell’art. 30-bis cod. proc. civ. all’esecuzione forzata sarebbe irragionevole anche per <<la connotazione essenzialmente finalistica e meno (ovvero diversamente e solo sommariamente) accertativa di essa rispetto al comune giudizio civile di cognizione>>, circostanza che sminuirebbe la presunzione di attenuata imparzialità dei giudici del medesimo distretto.

Quanto alla rilevanza della questione, il rimettente assume di non poter proseguire nelle attività di giudice preposto all’esecuzione senza la sua risoluzione.

2. - E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, tramite l’Avvocatura generale dello Stato, che ha depositato memoria, nella quale ha sostenuto che la questione sarebbe inammissibile e comunque infondata.

Dai parametri evocati dal rimettente non sarebbe possibile inferire l’esistenza di un vincolo per il legislatore a limitare la portata della disposizione censurata nel senso voluto dallo stesso rimettente. In particolare, in ordine all’art. 25 Cost., si rileva che la sua osservanza è garantita allorché la legge individui il giudice sulla base di criteri generali fissati in anticipo e non in vista di singoli procedimenti, mentre l’art. 97 Cost. sarebbe totalmente estraneo alla funzione giurisdizionale.

La violazione dell’art. 3 Cost. non sarebbe sussistente, in quanto il rimettente non avrebbe tenuto conto della particolare posizione dei magistrati e del rilievo costituzionale della garanzia della trasparenza della funzione giurisdizionale. La questione atterrebbe a scelte discrezionali del legislatore e non all’attuazione di direttive costituzionali.

La scelta in concreto esercitata - cioè quella di privilegiare su di ogni altra <<l’esigenza di garantire in misura rafforzata il prestigio, la credibilità e l’indipendenza dell’ordine giudiziario e la massima trasparenza della funzione giudiziaria>> - non sarebbe palesemente irragionevole ed arbitraria pur con riguardo ai procedimenti di esecuzione degli obblighi di fare o di non fare, tenuto conto che in essi il giudice è chiamato a determinare le modalità di esecuzione di obblighi che possono presentare (come sarebbe nella specie) aspetti di grande delicatezza sul piano dei rapporti personali e ad emanare disposizioni sulla base di apprezzamenti assolutamente discrezionali. Non verrebbero in considerazione, pertanto, interessi salvaguardati dalla regola ordinaria che potrebbero apparire ingiustamente sacrificati di fronte ai valori di neutralità-imparzialità del giudice.

Considerato in diritto

1. - Il Tribunale di Bologna propone la questione di legittimità costituzionale dell'art. 30-bis del codice di procedura civile, introdotto dall’art. 9 della legge 2 dicembre 1998, n. 420 (Disposizioni per i procedimenti riguardanti i magistrati), secondo cui, per le cause in cui sia comunque parte un magistrato in servizio nel distretto di corte d'appello comprendente l'ufficio giudiziario competente ai sensi del capo I del titolo I del libro I del codice di procedura civile, la competenza territoriale spetta all’ufficio giudiziario, ugualmente competente per materia, avente sede nel capoluogo di altro distretto, individuato ai sensi dell'art. 11 del codice di procedura penale. La norma è impugnata - in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 97, 101 e 111 della Costituzione - nella parte in cui assoggetta l’esecuzione forzata promossa da o contro un magistrato a tale regola di competenza e non a quella di cui all’art. 26 del codice di procedura civile.

Secondo il Giudice rimettente, la deroga alla disciplina generale sul foro dell’esecuzione forzata si porrebbe in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo dell’irragionevolezza, essendo la qualità di magistrato di una delle parti ininfluente nel processo di esecuzione, nel quale la preesistenza del titolo esecutivo rende marginale l’aspetto contenzioso, che nella giurisdizione cognitiva contrappone la parte magistrato all’altra parte; ed essendo inoltre illogico l’automatico spostamento della competenza in altro distretto, indipendentemente dalle dimensioni territoriali di quello competente secondo la regola generale.

L’art. 3 della Costituzione sarebbe violato anche per la disparità di trattamento subita dal magistrato che intenda agire in via esecutiva contro il proprio debitore, rispetto a tutti gli altri creditori.

La norma impugnata violerebbe poi l’art. 24 della Costituzione, per le maggiori difficoltà dell’esercizio del diritto di azione (e di difesa) derivanti dalla necessità per le parti del processo esecutivo, promosso o subito da un magistrato, di rivolgersi al giudice di altro distretto, in un luogo diverso da quello ove si trovano i beni da espropriare o deve essere attuato l’obbligo inevaso.

L’allontanamento del foro dell’esecuzione da quello di cui all’art. 26 cod. proc. civ. violerebbe infine i principi del giudice naturale, del buon andamento dell’amministrazione, dell’unità della giurisdizione e della durata ragionevole del processo, di cui agli artt. 25, 97, 101 e 111 della Costituzione.

2. - La questione è fondata, sotto il profilo del contrasto della norma impugnata con gli artt. 3 e 24 della Costituzione.

3. - L’art. 30-bis cod. proc. civ. è stato introdotto dalla legge n. 420 del 1998 nella prospettiva dell’attuazione del principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione, che ha pieno valore costituzionale in relazione a qualunque tipo di processo, pur nella diversità di disciplina connessa alle peculiarità di ciascun tipo (cfr., da ultimo, sentenze n. 305 e 78 del 2002).

Prima di tale legge, la competenza territoriale per i procedimenti riguardanti magistrati era soggetta ad un regime diverso da quello ordinario solo in materia penale. L’art. 11 cod. proc. pen. infatti – nei casi in cui imputato o parte offesa dal reato fosse un magistrato esercitante le proprie funzioni nel

distretto – prevedeva lo spostamento della competenza territoriale in altro distretto, secondo criteri predeterminati.

Il problema della conformità a Costituzione della mancata estensione di tale disciplina ai processi civili ha dato luogo ad una questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli da 18 a 35 cod. proc. civ., nella parte relativa all’omessa previsione di una competenza per territorio derogatoria, come quella introdotta dall'art. 11 del codice di procedura penale.

Questa Corte (sentenza n. 51 del 1998) ha dichiarato la questione inammissibile, perchè la richiesta pronunzia additiva avrebbe comportato una scelta fra più soluzioni possibili, rimessa esclusivamente al legislatore.

La sentenza ha ribadito che il principio costituzionale di imparzialità-terzietà della giurisdizione - con la correlata esigenza di assicurare che il giudice sia del tutto estraneo agli interessi in gioco - informa qualunque tipo di processo; ma ha tuttavia affermato che le scelte legislative in materia devono tendere, in considerazione della netta distinzione fra processo civile e processo penale, ad un bilanciamento di interessi secondo linee direttive non necessariamente identiche per i due tipi di processo, nei quali del resto la competenza territoriale è soggetta a regole e criteri diversi.

Perciò, secondo la sentenza, spetta al legislatore stabilire quando in materia civile ricorra un'identità di ratio tale da imporre l'estensione pura e semplice del criterio di cui all'art. 11 cod. proc. pen. e quando, invece, questa identità di ratio non ricorra affatto o sia realizzabile con la previsione di un foro derogatorio appropriato, così da evitare il sacrificio di altri interessi o valori costituzionalmente rilevanti, come il diritto di agire e di difendersi in giudizio.

Il legislatore deve quindi procedere (secondo ragionevolezza e nel rispetto dei principi costituzionali) ad una valutazione di bilanciamento fra l’interesse alla imparzialità-terzietà del giudice civile e quello alla pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale, con riguardo non al processo civile in genere ma alle sue singole tipologie.

4. – Successivamente è intervenuta la legge n. 420 del 1998, che ha disciplinato la competenza territoriale per i procedimenti riguardanti i magistrati, sia in materia penale (tra l’altro modificando nell’art. 11 cod. proc. pen. i criteri di individuazione della già prevista competenza derogatoria), sia in materia civile (introducendo l'impugnato art. 30-bis cod. proc. civ.).

Questo intervento si colloca, in linea di massima, nel quadro delineato dalla sentenza, poiché il principio secondo cui il giudice deve essere imparziale - strettamente correlato alla posizione costituzionale della magistratura (artt. 101 e seguenti della Costituzione) e quindi valido anche per il processo civile - è potenzialmente posto in crisi ogni volta che di una controversia civile sia parte un magistrato in servizio nello stesso ufficio giudiziario competente a deciderla, o in un ufficio territorialmente non lontano.

Al riguardo il legislatore, esercitando la discrezionalità che gli compete, ha ritenuto che l’esigenza di tutelare l’imparzialità-terzietà del giudice civile viene in considerazione in tutte le <<cause>> di cui sia comunque parte un magistrato in servizio nel distretto di corte d'appello comprendente l'ufficio giudiziario competente secondo le regole ordinarie.

E per tali casi ha previsto la competenza territoriale dell’ufficio giudiziario, ugualmente competente per materia, avente sede nel capoluogo di altro distretto, individuato ai sensi dell'art. 11 del codice di procedura penale.

La norma impugnata, avendo carattere generale e non distinguendo in base al tipo di funzione esercitata, si applica (secondo la non implausibile interpretazione del rimettente) anche ai processi di esecuzione, in deroga al foro di cui all’art. 26 del codice di procedura civile.

Senonchè - trattando il processo esecutivo alla stregua di tutti gli altri - il legislatore del 1998 si è discostato dai principi richiamati dalla sentenza citata.

5. - Il processo esecutivo si caratterizza rispetto ad altri tipi di processo civile in quanto in esso il soggetto procedente si trova istituzionalmente in una posizione di vantaggio rispetto alla soggezione in cui versa chi è sottoposto all’azione. Si tratta infatti di un processo totalmente funzionale all’attuazione forzata del diritto consacrato nel titolo esecutivo, in cui tutti i provvedimenti del giudice dell’esecuzione (e tutti gli atti delle parti e dei soggetti operanti sotto il suo controllo) tendono alla realizzazione coattiva di quanto - vincolativamente per quel giudice – è statuito nel titolo. Ed è in evidente correlazione a tali caratteristiche che l’art. 26 cod. proc. civ. radica la competenza territoriale in tema di esecuzione forzata nel luogo in cui la pretesa del creditore procedente può in concreto essere attuata, ossia nel luogo ove si trova il bene (o risiede il terzo debitore) da espropriare o deve avvenire il rilascio o la consegna o essere adempiuto l’obbligo di fare o di non fare.

6. - La norma impugnata - regolando l’esecuzione forzata promossa da o contro un magistrato in servizio nel distretto allo stesso modo di tutti gli altri procedimenti civili in cui sia comunque parte un magistrato in quella situazione - non attribuisce alcun rilievo alla specifica posizione del giudice nel processo esecutivo e si muove quindi in una prospettiva diversa da quella delineata dalla sentenza n. 51 del 1998.

La norma infatti irragionevolmente svaluta in una indifferenziata disciplina uniforme i connotati tipici di quel processo, e conseguentemente intacca in misura rilevante il peculiare contenuto che in esso assume il diritto di agire e di difendersi in giudizio, tanto del creditore che del debitore, tanto della parte magistrato che delle altre parti.

7. – Invero, la norma recide di netto la relazione di prossimità cui coerentemente si ispirano le regole di competenza territoriale poste dall’art. 26 cod. proc. civ., e così allontana il luogo ove ha sede il giudice dell’esecuzione (individuato ai sensi dell’art. 11 cod. proc. pen. e rilevante, tra l’altro, per la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio previste dall’art. 480, comma 3, cod. proc. civ.) da quello ove la pretesa esecutiva deve essere coattivamente realizzata.

La distanza fra i due luoghi - considerando anche la loro ubicazione in due diversi distretti di corte di appello - rende più difficili e gravosi i rapporti fra le parti ed il giudice e fra il giudice e l’ufficiale giudiziario preposto all’esecuzione, che invece il codice di procedura suppone di facile e immediata attuazione, come dimostrano, ad esempio, gli artt. 610 e 613 cod. proc. civ. in tema di provvedimenti urgenti adottati dal giudice, anche verbalmente, per eliminare le difficoltà che sorgano nel corso dell’esecuzione e non ammettano dilazione.

Inoltre, in tale contesto, l’allontanamento della sede del giudice dal luogo dell’esecuzione necessariamente comporta, per gli evidenti riflessi sulle modalità di esercizio delle facoltà delle parti, un aumento del costo del processo, che incide sia sul creditore tenuto ad anticipare le spese, sia sul debitore sul quale esse alla fine graveranno.

8. – Ne consegue la violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione, per difetto di un congruo bilanciamento tra i due interessi di rilievo costituzionale prima ricordati.

La norma impugnata - nella parte in cui si applica al processo esecutivo - assume come preminente un’esigenza (quella di tutelare l’imparzialità-terzietà del giudice dell’esecuzione civile) concepita in termini del tutto astratti e generali, non correlati ai connotati tipici di quel processo, e trascura l’esigenza di garantire piena ed effettiva tutela giurisdizionale alle pretese azionate in via esecutiva.

Le altre censure restano assorbite.

Deve quindi essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 30-bis cod. proc. civ., nella parte in cui si applica ai processi di esecuzione forzata promossi da o contro magistrati in servizio nel distretto di corte d'appello comprendente l'ufficio giudiziario competente ai sensi dell’art. 26 del codice di procedura civile.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 30-bis del codice di procedura civile, nella parte in cui si applica ai processi di esecuzione forzata promossi da o contro magistrati in servizio nel distretto di corte d'appello comprendente l'ufficio giudiziario competente ai sensi dell’art. 26 del codice di procedura civile.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 ottobre 2002.

Cesare RUPERTO, Presidente

Franco BILE, Redattore

Depositata in Cancelleria il 12 novembre 2002.