SENTENZA N.329
ANNO 2003
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Riccardo CHIEPPA Presidente
- Gustavo ZAGREBELSKY Giudice
- Valerio ONIDA "
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi per conflitti di attribuzione sorti a seguito del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 24 maggio 2001, recante <<Linee guida concernenti i protocolli di intesa da stipulare tra regioni e università per lo svolgimento delle attività assistenziali delle università nel quadro della programmazione nazionale e regionale ai sensi dell’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 21 dicembre 1999, n. 517. Intesa ai sensi dell’art. 8 della legge 15 marzo 1997, n. 59>>, promossi con ricorsi delle Regioni Lombardia e Lazio, notificati l’8 ottobre 2001, depositati in cancelleria il 18 successivo ed iscritti ai nn. 35 e 36 del registro conflitti 2001.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 1° luglio 2003 il Giudice relatore Ugo De Siervo;
udito l’avvocato Beniamino Caravita di Toritto per le Regioni Lombardia e Lazio.
Ritenuto in fatto
1. - La Regione Lombardia, con ricorso depositato il 18 ottobre 2001, e la Regione Lazio, con ricorso di identico contenuto, depositato nella medesima data, hanno sollevato conflitto di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 24 maggio 2001 (Linee guida concernenti i protocolli di intesa da stipulare tra Regioni e Università per lo svolgimento delle attività assistenziali delle Università nel quadro della programmazione nazionale e regionale ai sensi dell'art. 1, comma 2, del d.lgs. 21 dicembre 1999, n. 517. Intesa, ai sensi dell'art. 8 della legge 15 marzo 1997, n. 59), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, serie generale, 9 agosto 2001, n. 184.
2. – Le ricorrenti evidenziano preliminarmente che il Governo, nel deliberare in data 17 maggio 2001 il d.P.C.m. emanato il successivo 24 maggio, avrebbe violato - "non concedendo concretamente alle Regioni la possibilità di pervenire ad un accordo" - il principio di leale collaborazione tra lo Stato e le Regioni.
Per l’adozione di tale d.P.C.m., sarebbe stata seguita la procedura prevista dall’art. 8, comma 2, della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa), che disciplina le ipotesi nelle quali non venga raggiunta la previa intesa con la Conferenza Stato–Regioni. L’art. 8, comma 2, della citata legge stabilisce, infatti, che per gli atti di indirizzo e coordinamento (art. 8, comma 1) "qualora nel termine di quarantacinque giorni dalla prima consultazione l’intesa non sia stata raggiunta, gli atti sono adottati con deliberazione del Consiglio dei ministri, previo parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali da esprimere entro trenta giorni dalla richiesta".
Con ciò, ad avviso delle ricorrenti, il Governo sarebbe venuto meno ad una prassi in base alla quale il termine previsto dall’art. 8 della legge n. 59 del 1997 decorrerebbe dalla seduta in cui è stata constatata la mancata intesa (nel caso, il 19 aprile 2001), e non già da quella in cui è stato intrapreso l’esame del provvedimento (nel caso, l’8 marzo 2001). La procedura adottata dall’esecutivo, ad avviso delle Regioni Lombardia e Lazio, denoterebbe chiaramente "l’assenza del minimo intento di quest’ultimo di esplorare la possibilità di un accordo"; e ciò contrasterebbe con il principio di leale collaborazione, ai sensi del quale – come più volte affermato da questa stessa Corte – il Governo non potrebbe utilizzare la facoltà di decidere unilateralmente al fine di svuotare di senso la prescrizione dell’intesa, senza verificare effettivamente la possibilità che quest’ultima venga raggiunta.
La stessa Commissione parlamentare per le questioni regionali, nel parere reso in data 17 maggio 2001, avrebbe manifestato perplessità proprio su alcune delle norme che non avevano ricevuto il consenso delle Regioni.
3. - Le ricorrenti rappresentano, peraltro, che in data 8 agosto 2001, prima quindi della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del d.P.C.m. oggetto di ricorso, sarebbe intervenuto l’"Accordo tra Governo, regioni e le province autonome di Trento e Bolzano recante integrazioni e modifiche agli accordi sanciti il 3 agosto 2000 (repertorio atti 1004) e il 22 marzo 2001 (repertorio atti 1210) in materia sanitaria", pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, serie generale, del 6 settembre 2001, n. 207, i cui contenuti sarebbero stati recepiti dal decreto-legge 18 settembre 2001, n. 347 (Interventi urgenti in materia di spesa sanitaria), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, serie generale del 19 settembre 2001, n. 218 e successivamente convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 16 novembre 2001, n. 405. Le ricorrenti sostengono che sia l’Accordo che il decreto-legge interverrebbero su aspetti disciplinati dal d.P.C.m. 24 maggio 2001 "operando, tuttavia, in una direzione opposta". Il d.P.C.m., inoltre, sarebbe una fonte di grado inferiore e, dal punto di vista sostanziale, sarebbe superata dai contenuti del decreto-legge" n. 347 del 2001.
4. - Nell’Accordo dell’8 agosto 2001 il Governo avrebbe assunto l’impegno ad emanare, entro il 31 dicembre 2001, "tutti i provvedimenti necessari a confermare la piena riconduzione delle attività assistenziali svolte dalle aziende ospedaliere universitarie (miste e/o policlinici) alla programmazione regionale prevedendo una adeguata corresponsabilizzazione finanziaria delle Università per la loro parte".
In attuazione di tale Accordo, il decreto-legge n. 347 del 2001 avrebbe, tra l’altro, previsto sia un intervento dello Stato nel finanziamento del Servizio sanitario nazionale per l’anno 2001, sia un impegno delle Regioni ad assumere, "per le ipotesi di disavanzi, a proprio carico la copertura dei relativi oneri", sia una definizione del quadro finanziario complessivo ed esaustivo delle risorse statali da utilizzare per il triennio 2002–2004.
5. - Nei ricorsi si sottolinea, inoltre, che le modifiche apportate dal decreto-legge n. 347 del 2001 all’art.19 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria a norma dell’art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), nella parte in cui si stabilisce che "non costituiscono principi fondamentali, ai sensi dell’art. 117 della Costituzione, le materie di cui agli articoli 4, comma 1-bis, e 9-bis" avrebbero prodotto un "considerevole ampliamento della potestà organizzativa delle Regioni anche con riguardo all’organizzazione delle aziende ospedaliero-universitarie".
Le Regioni Lombardia e Lazio, pur non volendo disconoscere la necessità che vi sia coerenza e funzionalità tra le attività assistenziali e quelle di ricerca e di didattica svolte presso le aziende ospedaliero–universitarie, contestano, tuttavia, "la rigidità con la quale viene configurato il rapporto tra i due tipi di attività e la totale estromissione delle Regioni, vere titolari della programmazione e della organizzazione dell’assistenza ospedaliera regionale nonché responsabili dei costi della stessa".
6. - Le ricorrenti evidenziano ancora come vi sarebbe stato in più casi un contrasto con i principi espressi dalla Corte costituzionale, la quale, in numerose decisioni, avrebbe ribadito la competenza delle Regioni in ordine alla organizzazione del servizio sanitario, precisando, in particolare, che "ferma la possibilità per lo Stato di delineare il modello organizzativo con disposizioni di principio, deve residuare alla Regione uno spazio di libera scelta in ordine alla disciplina dell’organizzazione, che non può essere compresso senza pregiudicare lo statuto costituzionale di autonomia" (sentenza n. 74 del 2001).
7. - Quanto alle singole disposizioni del d.P.C.m. impugnato, le Regioni ricorrenti lamentano innanzi tutto la previsione, nell’art. 1, comma 2, della obbligatorietà del parere delle Università sedi di facoltà di medicina e chirurgia in ordine all’adozione o all’adeguamento del piano sanitario regionale, nonché la previsione, contenuta nella medesima disposizione, secondo la quale "il parere si intende espresso in senso favorevole qualora non pervenga entro sessanta giorni dal ricevimento della richiesta". Sempre a proposito della partecipazione delle Università alla programmazione sanitaria, l’art. 1, comma 4, stabilisce che "per materie che implicano l’integrazione tra attività assistenziali, didattiche e di ricerca, i protocolli di intesa tra la regione o la provincia autonoma e le Università prevedono forme di collaborazione nell’elaborazione e nella stesura di proposte per la formulazione del piano sanitario regionale o di altri documenti o progetti concernenti la programmazione attuativa regionale e locale, tenendo conto dei programmi di sviluppo delle facoltà di medicina e chirurgia, deliberati dalle stesse e approvati dagli organi dell’ateneo".
Tali disposizioni sarebbero "chiaramente lesive dell’autonomia regionale in materia di programmazione e indirizzo" relativamente all’assistenza sanitaria, ai sensi degli artt. 117 e 118 della Costituzione, dal momento che lo Stato non potrebbe imporre specifiche forme di collaborazione, né tanto meno dettare i termini entro i quali esse devono essere attuate. La compressione delle prerogative regionali sarebbe provata, del resto, dal contrasto delle disposizioni impugnate con il d.lgs. 21 dicembre 1999, n. 517 (Disciplina dei rapporti fra Servizio sanitario nazionale ed Università, a norma dell’art. 6 della legge 30 novembre 1998, n. 419), ed in particolare con il suo art. 1, comma 2, il quale prevede che l’atto governativo di indirizzo e coordinamento deve curare la definizione "delle linee generali della partecipazione delle Università alla programmazione sanitaria regionale". Determinante sarebbe, inoltre, l’impegno assunto dal Governo con il citato Accordo dell’8 agosto 2001, a ricondurre interamente le attività assistenziali delle aziende ospedaliere alla programmazione regionale.
8. - Anche gli artt. 2, comma 3, lett. b) e 3, comma 1, primo e terzo periodo, determinerebbero una illegittima compressione della autonomia regionale in relazione alle competenze concernenti l’assistenza sanitaria e ospedaliera. La prima delle due disposizioni citate sarebbe lesiva delle competenze regionali "in quanto subordina l’individuazione, da parte dei protocolli d’intesa, delle attività assistenziali e dei relativi parametri alle esigenze delle attività istituzionali delle facoltà di medicina e chirurgia", mentre la seconda sarebbe costituzionalmente illegittima, in quanto individuerebbe, in modo diretto e dettagliato, il numero di posti letto messi a disposizione delle facoltà di medicina e chirurgia da parte delle strutture di degenza. Gli artt. 2 e 3, comma 1, citati, contrasterebbero con l’art. 1 del d.lgs. n. 517 del 1999, di cui costituiscono attuazione, dal momento che la disposizione appena menzionata si limiterebbe ad indicare al Governo di "promuovere e disciplinare l’integrazione dell’attività assistenziale, formativa e di ricerca del S.S.N. e Università". Viceversa, il d.P.C.m. impugnato non integrerebbe tra loro i due tipi di attività, ma subordinerebbe la prima alle seconde. Da ultimo, le ricorrenti notano come le modifiche apportate dal decreto-legge n. 347 del 2001 all’art. 19 del d.lgs. n. 502 del 1992 avrebbero consistentemente ampliato i poteri delle Regioni in ordine all’organizzazione delle aziende ospedaliero-universitarie.
9. - Vengono prospettate censure anche avverso l’art. 3, comma 8, e l’articolo 4, comma 3, e comma 7, lett. f). In particolare, l’art. 3 comma 8, a giudizio delle due ricorrenti, lederebbe le attribuzioni costituzionali delle Regioni, nella parte in cui individua "direttamente e dettagliatamente i livelli minimi di attività, sia con riguardo alle strutture assistenziali complesse funzionali alle esigenze di didattica e di ricerca, sia con riguardo alle esigenze di didattica e di ricerca"; l’art. 4, comma 3, sarebbe lesivo delle competenze regionali, in quanto imporrebbe l’individuazione, da parte dei protocolli d’intesa, delle strutture assistenziali complesse essenziali alle esigenze di didattica e di ricerca dei corsi di laurea di medicina e chirurgia, definendo criteri molto dettagliati. L’art. 4, comma 7, lett. f), invece, violerebbe la potestà legislativa regionale, nella parte in cui prevede l’intesa con il Rettore per la nomina, da parte del Direttore generale, del Direttore del dipartimento ad attività integrata; inoltre il direttore dei dipartimenti individuati come essenziali per l’espletamento delle funzioni assistenziali della facoltà di medicina, dovrebbe essere scelto tra i professori universitari.
Tali norme determinerebbero una incostituzionale compressione delle prerogative regionali, in quanto definirebbero un rigido modello organizzativo, unico su tutto il territorio nazionale, non lasciando spazio alle scelte proprie delle Regioni, né a quelle delle stesse aziende ospedaliere; ciò, peraltro, in asserito contrasto con le previsioni del d.lgs. n. 502 del 1992, come modificato dal d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell'articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419). Nel ricorso si osserva, inoltre, come le prescrizioni delle disposizioni in questione violerebbero l’Accordo dell’8 agosto 2001 già citato, nell’ambito del quale lo Stato si era impegnato a ricondurre le attività delle aziende ospedaliero-universitarie alla programmazione regionale.
Ancora, le Regioni ricorrenti evidenziano come in relazione ai profili concernenti l’art. 4, comma 7, lett. f), la stessa Commissione parlamentare per le questioni regionali aveva manifestato perplessità non dissimili da quelle illustrate nel ricorso.
10. - Da ultimo, ad essere ritenuto lesivo delle prerogative regionali è anche l’art. 10 del d.P.C.m. impugnato, in particolare nei suoi commi 2 e 6, concernenti la compartecipazione delle Regioni e delle Università ai risultati di gestione delle aziende ospedaliero-universitarie. Le disposizioni citate, prevedendo che il contributo delle Università sia limitato al personale e a beni mobili e immobili, nonché l’obbligo delle Regioni di concordare con le Università, in caso di disavanzo, il piano poliennale di rientro, definirebbero una partecipazione delle Università ai costi decisamente inadeguata, a fronte peraltro di una eccessiva compressione della autonomia organizzativa regionale.
Ancora una volta, si ritiene che le disposizioni censurate si pongano in contrasto con l’Accordo dell’8 agosto 2001, ed in particolare con l’impegno assunto dallo Stato a prevedere, previa intesa con le Regioni, adeguate forme di compartecipazione finanziaria delle Università. Sarebbe inoltre ravvisabile un contrasto puntuale dell’art. 10, commi 2 e 6, con l’art. 3, comma 2, del decreto-legge n. 347 del 2001, ai sensi del quale alle regioni sarebbe attribuito il potere di adottare tutte le disposizioni necessarie: "a) per stabilire l’obbligo delle aziende sanitarie ed ospedaliere di garantire l’equilibrio economico dei singoli presidi ospedalieri; b) per individuare le tipologie degli eventuali provvedimenti di riequilibrio; c) per determinare le misure a carico dei direttori generali nell’ipotesi di mancato raggiungimento dell’equilibrio economico".
Anche il disposto del comma 3 dell’art. 4 del decreto-legge citato sarebbe particolarmente probante sul punto.
Tale disposizione infatti attribuirebbe alle Regioni l’onere di coprire i disavanzi di gestione, nonché il potere di dettare norme volte a regolare le modalità tramite le quali effettuare la copertura, eventualmente anche mediante la previsione di misure di compartecipazione alla spesa sanitaria dei principali soggetti che concorrono alla determinazione di quest’ultima.
11. - Si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o comunque infondato, poiché il d.P.C.m. oggetto dei ricorsi non violerebbe le norme e i principi costituzionali.
12. - Il 18 giugno 2003 la Regione Lombardia ha depositato una memoria nella quale evidenzia, preliminarmente, come l’atto di costituzione della difesa erariale, datato 28 ottobre 2001, dovrebbe considerarsi tardivo, e quindi inammissibile.
13. - Nel merito, la ricorrente ribadisce come successivamente alla pubblicazione del d.P.C.m. impugnato sarebbe intervenuto il decreto-legge n. 347 del 2001, col quale sarebbe stato recepito l’Accordo intervenuto tra Stato e Regioni l’8 agosto 2001.
La Regione Lombardia illustra peraltro la propria normativa in tema di rapporti con le istituzioni universitarie, evidenziando come, già precedentemente all’entrata in vigore dell’atto impugnato, aveva proceduto all’adozione di proprie linee guida per la stipula di convenzioni con le Università nel campo della formazione pre-laurea, post-laurea e del diploma per il personale dell’area sanitaria. Sulla base di tali linee guida – afferma la ricorrente – sono state stipulate diverse convenzioni tra la stessa Regione e le Università, "prescindendo pertanto dalle linee guida statali, nel frattempo dettate dal d.P.C.m. 24 maggio 2001".
Tale circostanza sarebbe estremamente significativa ai fini del presente giudizio, dal momento che "l’auspicata pronuncia di annullamento" dell’atto impugnato "scongiurerebbe (…) il rischio di eventuali declaratorie di illegittimità, per violazione del d.P.C.m. medesimo, delle convenzioni stipulate dalla Regione Lombardia con le Università lombarde non in conformità alle linee guida dettate dal d.P.C.m. 24 maggio del 2001". Da tali argomenti sarebbe desumibile la perduranza dell’interesse al ricorso, potendo l’atto impugnato infatti – in virtù del principio di continuità – "essere considerato operante nei confronti delle Regioni, anche dopo la riforma del Titolo V, fino a quando le stesse Regioni non detteranno criteri diversi da quelli ivi contenuti".
Sostiene inoltre la ricorrente che, se la Corte non si pronunciasse sull’atto impugnato, il Governo, fino alla introduzione della disciplina regionale in materia, potrebbe esercitare i poteri sostitutivi che l’art. 9 del d.P.C.m. gli riconosce per il caso di mancata stipulazione dei protocolli d’intesa. Il Governo infatti potrebbe sentirsi legittimato ad esercitare tali poteri "anche nell’ipotesi in cui, come nel caso di specie, la Regione non avesse stipulato i protocolli d’intesa secondo le modalità stabilite dal d.P.C.m. 24 maggio 2001", considerando, cioè, equivalente alla mancata stipula delle intese la sottoscrizione di convenzioni non conformi alle linee guida contenute nell’atto impugnato.
14. - Da ultimo, la Regione Lombardia evidenzia come, nel contesto del nuovo Titolo V della Costituzione, il d.P.C.m. oggetto di contestazione intervenga in materie nell’ambito delle quali la competenza regionale è stata accresciuta rispetto al previgente sistema. Così sarebbe, ad esempio, per la "tutela della salute", a fronte della "assistenza sanitaria ed ospedaliera", o per la materia della "ricerca scientifica". A ciò si aggiunga che – secondo la ricorrente – gli atti di indirizzo e coordinamento, quale è l’atto impugnato, "nel mutato quadro costituzionale (…) non dovrebbero trovare più alcuna giustificazione nell’ambito delle materie di competenza concorrente".
15. - Nelle more dell’udienza pubblica, è entrata in vigore la legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), che, all’art. 9, comma 6, dispone che "nei ricorsi per conflitto di attribuzione tra Stato e Regione e tra Regione e Regione, (…) proposti anteriormente alla data dell’8 novembre 2001, il ricorrente deve chiedere la trattazione del ricorso, con istanza diretta alla Corte costituzionale e notificata alle parti costituite, entro quattro mesi dal ricevimento della comunicazione di pendenza del procedimento effettuata a cura della cancelleria della Corte costituzionale; in difetto di tale istanza, il ricorso si considera abbandonato ed è dichiarato estinto con decreto del Presidente".
La Regione Lombardia e la Regione Lazio, successivamente alla comunicazione della Corte effettuata in data 18 giugno 2003 ai sensi della disposizione sopra riportata, hanno depositato istanza di trattazione del ricorso, chiedendo di mantenere a tal fine l’udienza già fissata per il 1° luglio 2003.
Considerato in diritto
1. - Preliminarmente, deve essere disposta la riunione dei giudizi promossi dalla Regione Lombardia e dalla Regione Lazio, in considerazione dell’identità, tanto del contenuto dei ricorsi, quanto della posizione costituzionale delle due ricorrenti.
2. - Le Regioni Lombardia e Lazio impugnano il d.P.C.m. 24 maggio 2001 (Linee guida concernenti i protocolli di intesa da stipulare tra Regioni e Università per lo svolgimento delle attività assistenziali delle Università nel quadro della programmazione nazionale e regionale ai sensi dell'art. 1, comma 2, del d.lgs. 21 dicembre 1999, n. 517. Intesa, ai sensi dell'art. 8 della legge 15 marzo 1997, n. 59), lamentando la violazione del principio di leale collaborazione, nonché, più specificamente, la lesione delle proprie competenze costituzionalmente garantite, in materia di assistenza sanitaria e ospedaliera, da parte degli articoli 1, commi 2 e 4; 2, comma 3, lett. b); 3, commi 1 e 8; 4, commi 3 e 7, lett. f); 10, commi 2 e 6, del medesimo d.P.C.m..
3. - La soluzione dei due conflitti oggetto del presente giudizio può prescindere dalla valutazione delle censure di merito proposte dalle ricorrenti. Né appare necessaria una specifica valutazione in ordine al rapporto tra l’atto impugnato e il d.lgs. 21 dicembre 1999, n. 517 (Disciplina dei rapporti fra Servizio sanitario nazionale ed Università, a norma dell’art. 6 della legge 30 novembre 1998, n. 419), che ne costituisce il fondamento.
I ricorsi, infatti, devono essere dichiarati inammissibili, per sopravvenuta carenza di interesse.
Le stesse ricorrenti danno conto che successivamente alla adozione del d.P.C.m. in questa sede impugnato, è stato adottato il decreto-legge 18 settembre 2001, n. 347 (Interventi urgenti in materia di spesa sanitaria), convertito con modificazioni dall’art. 1 della legge 16 novembre 2001, n. 405. L’art. 3, comma 1, di tale decreto, aggiunge il comma 2 bis all’art. 19 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n.502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria a norma dell’art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), il quale stabilisce che "non costituiscono principi fondamentali, ai sensi dell’art. 117 della Costituzione, le materie di cui agli articoli 4, comma 1-bis, e 9-bis" dello stesso d.lgs. n. 502 del 1992. La prima di tali disposizioni individua i requisiti cui viene subordinata la costituzione o la conferma in azienda ospedaliera dei presidi ospedalieri da parte delle Regioni, mentre la seconda disposizione concerne i poteri delle Regioni in materia di sperimentazioni gestionali. Dunque, l’effetto dell’art. 3, comma 1, del decreto-legge più sopra richiamato è innegabilmente quello di una espansione delle potestà organizzative riconosciute alle Regioni nella suddetta materia.
Nelle more del giudizio è inoltre intervenuta la legge costituzionale n. 3 del 2001, che ha profondamente modificato il riparto delle competenze costituzionali tra lo Stato e le Regioni.
4. - Il nuovo articolo 117, terzo comma, della Costituzione, affida alla potestà legislativa concorrente delle Regioni la materia della tutela della salute, nell’ambito della quale si colloca senz’altro la disciplina dettata dal decreto in questa sede impugnato. Pertanto, in tale materia le Regioni possono esercitare le proprie competenze legislative approvando una propria disciplina - anche sostitutiva di quella statale – sia pure nel rispetto del limite dei principi fondamentali posti dalle leggi dello Stato. D’altra parte, deve escludersi la possibilità per lo Stato di intervenire in tale materia con atti normativi di rango sublegislativo, in considerazione di quanto disposto dall’art. 117, sesto comma, della Costituzione; e parimenti, è da escludere la permanenza in capo allo Stato del potere di emanare atti di indirizzo e coordinamento in relazione alla materia de qua, anche alla luce di quanto espressamente disposto dall’art. 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), il quale stabilisce che "nelle materie di cui all’art. 117, terzo e quarto comma, della Costituzione, non possono essere adottati gli atti di indirizzo e di coordinamento di cui all’art. 8 della legge 15 marzo 1997, n. 59, e all’art. 4 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112". E’ pertanto evidente che lo Stato non ha più il potere di emanare un atto quale quello oggetto del presente giudizio.
5. - In definitiva, nella vicenda in esame – come del resto questa Corte ha già riconosciuto nei casi analoghi decisi con le sentenze n. 197 del 2003 e n. 510 del 2002, sia pure rese in occasione di giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale – risulta manifesta la sopravvenuta carenza di interesse delle ricorrenti, poiché, da un lato, fino alla data di entrata in vigore della legge di modifica del Titolo V della Costituzione, le norme statali impugnate non risultano aver alcun effetto concretamente invasivo della sfera di attribuzioni regionali, stante la mancata attuazione della disciplina posta dall’atto in contestazione, mentre, dall’altro lato, almeno a partire da tale data le medesime norme possono essere sostituite, nei limiti delle competenze regionali, da una apposita normazione regionale.
Né, d’altronde, risultano addotti dalle ricorrenti – che pure riconoscono esplicitamente gli effetti di ampliamento delle loro prerogative dovuti al mutamento del quadro costituzionale delle competenze – argomenti decisivi a sostegno dell’attualità della lesione delle loro attribuzioni costituzionali a seguito della richiamata riforma del Titolo V.
E’ proprio la possibilità per le Regioni di sostituire la disciplina dettata dall’atto impugnato, infatti, a determinare il venir meno dell’interesse a ricorrere, pur dovendosi riconoscere che in forza del principio di continuità tale atto mantiene la propria vigenza nell’ordinamento, sia pure con carattere di cedevolezza rispetto all’eventuale intervento normativo regionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara inammissibili i conflitti di attribuzione promossi dalla Regione Lombardia e dalla Regione Lazio nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 24 maggio 2001 (Linee guida concernenti i protocolli di intesa da stipulare tra Regioni e Università per lo svolgimento delle attività assistenziali delle Università nel quadro della programmazione nazionale e regionale ai sensi dell'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 21 dicembre 1999, n. 517. Intesa, ai sensi dell'art. 8 della legge 15 marzo 1997, n. 59) con i ricorsi indicati in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 ottobre 2003.
Riccardo CHIEPPA, Presidente
Ugo DE SIERVO, Redattore
Depositata in Cancelleria il 4 novembre 2003.