Ordinanza n. 519/2002

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ORDINANZA N. 519

ANNO 2002

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Cesare                         RUPERTO                      Presidente

- Riccardo                     CHIEPPA                        Giudice

- Gustavo                      ZAGREBELSKY                 "

- Valerio                        ONIDA                                  "

- Carlo                           MEZZANOTTE                    "

- Fernanda                     CONTRI                                "

- Guido                          NEPPI MODONA                "

- Piero Alberto              CAPOTOSTI                         "

- Annibale                     MARINI                                "

- Franco                         BILE                                      "

- Giovanni Maria          FLICK                                               "

- Francesco                    AMIRANTE                          "         

- Ugo                             DE SIERVO                          "         

- Romano                      VACCARELLA                   "         

- Paolo                           MADDALENA                     "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 181, 307 e 309 del codice di procedura civile, promossi con ordinanze emesse il 5 febbraio 2002 (n. 6 ordinanze) ed il 12 febbraio 2002 (n. 4 ordinanze) dal Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, iscritte rispettivamente ai nn. 179, da 184 a 187 e 252 ed ai nn. da 180 a 183 del registro ordinanze 2002 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica del 2 maggio 2002 edizione straordinaria e n. 22, prima serie speciale, dell’anno 2002.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 novembre 2002 il Giudice relatore Fernanda Contri.

Ritenuto che il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, con dieci ordinanze di identico contenuto, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 181, 307 e 309 del codice di procedura civile, per violazione dell'art. 111, secondo comma, della Costituzione;

che il giudice a quo premette di essere investito della trattazione di cause civili nelle quali "vi è stata diserzione" all’udienza fissata di tutte le parti costituite, con la conseguente necessità, in applicazione degli artt. 309 e 181 cod. proc. civ., di fissare un’udienza successiva, della quale il cancelliere deve dare comunicazione alle parti;

che, come osserva il rimettente, solo se alla nuova udienza le parti restano nuovamente assenti il giudice deve ordinare la cancellazione della causa dal ruolo, ed il processo resta quiescente per un anno, estinguendosi, a norma dell’art. 307 cod. proc. civ., qualora non venga riassunto entro detto termine;

che, secondo il giudice a quo, tale disciplina determina notevoli inconvenienti, e precisamente l’onere di fissare una nuova udienza, la comunicazione da parte del cancelliere, la conservazione della documentazione dell’avvenuta comunicazione, e, nella migliore delle ipotesi, la cancellazione della causa dal ruolo solo dopo alcuni mesi e l’estinzione del giudizio solo dopo un anno dalla avvenuta cancellazione;

che tale procedura comporta, secondo il rimettente, una prolungata, ingiustificata e non fisiologica durata del processo, aggravando la pendenza dei giudizi, in particolare di quelli iscritti anteriormente al 30 aprile 1995, per un più sollecito esaurimento dei quali il legislatore ha anche introdotto la figura del giudice onorario aggregato;

che in tal modo, ad avviso del giudice a quo, si crea un disservizio che si ripercuote sull’organizzazione degli uffici giudiziari, rimanendo "ad occupare scaffali" molte cause che potrebbero essere eliminate se non si dovessero applicare le disposizioni impugnate;

che il rimettente, dopo aver ricordato che la Corte, con le sentenze n. 190 del 1985, n. 62 del 1998 e n. 388 del 1999, ha affermato che la durata del processo non può andare a danno della parte che ha ragione e che un sistema processuale non può rendere estremamente difficile la tutela giurisdizionale, ritenendo illegittime le norme che prevedono termini dilatori senza una giustificazione costituzionalmente rilevante, osserva che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte ribadito che il délai raisonnable di un processo, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (ora richiamato dall’art. 6 del Trattato dell’Unione europea), deve essere valutato tenuto conto: a) della complessità del caso; b) della condotta del ricorrente; c) del comportamento dell’autorità giudiziaria; principi ora affermati dalla legge costituzionale n. 2 del 1999, a seguito della quale il principio della ragionevole durata "deve ormai essere preso in considerazione per scrutinare la legittimità di qualsiasi norma in grado di influire sulla durata del processo";

che, rileva ancora il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, la legge 24 marzo 2001, n. 89, al fine di porre un argine alle condanne subite dall’Italia in sede europea, ha dettato una disciplina interna per il caso di violazione della ragionevole durata del processo, prevedendo un equo indennizzo quale "soluzione fisiologica" del problema, ma senza incidere sull’obbligo di rendere una prestazione giudiziaria effettiva, inondando in tal modo le corti di appello di una gran quantità di ricorsi;

che, dopo aver definito "una grida di manzoniana memoria" l’art. 5 della legge n. 89 del 2001, che prescrive la comunicazione al Procuratore generale della Corte dei conti dei decreti di condanna dell’erario, ed aver dubitato, in linea generale, dell’efficacia delle disposizioni introdotte dal legislatore, il ricorrente ritiene che "non sarà facile applicare il citato art. 5 fino a quando rimarranno in vita gli artt. 309, 181, primo comma, e 307 cod. proc. civ.", richiamando al proposito le considerazioni dell’ordinanza del Tribunale di Napoli del 2 febbraio 2000, con la quale un’analoga questione di legittimità costituzionale è stata rimessa alla Corte;

che ad avviso del rimettente, per dare piena attuazione all’art. 111 Cost., non basta che sia dichiarata l’illegittimità dell’art. 181 e dell’art. 309 cod. proc. civ., ma occorre che sia dichiarato illegittimo anche l’art. 307 dello stesso codice, nella parte in cui prevede che, in caso di cancellazione della causa dal ruolo, il processo debba restare inutilmente "ibernato" per un anno e più;

che, una volta dichiarata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate, il giudice potrà fissare alla prima udienza la precisazione delle conclusioni e trattenere la causa in decisione, assegnando alle parti i termini per il deposito e lo scambio delle memorie difensive, in modo da non violare i diritti costituzionalmente garantiti e da attuare il principio della ragionevole durata del processo;

che in nove dei dieci giudizi di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo alla Corte di dichiarare la questione infondata;

che l'Avvocatura, dopo aver ricordato che la disposizione impugnata ha la finalità di evitare che assenze casuali alle udienze implichino l’adozione di provvedimenti (la cancellazione della causa dal ruolo) forieri di gravosi oneri per le parti, osserva che la disciplina in essere non confligge, di per sé, col principio della ragionevole durata, anche perché la nuova udienza dovrebbe, di regola, importare un prolungamento della durata del processo di soli quindici giorni, secondo l’art. 81 disp. att. cod. proc. civ.;

che rileva ancora l'Avvocatura come il rimettente abbia posto a base delle ordinanze di rimessione considerazioni attinenti alla gestione delle risorse umane e materiali della giustizia, profili che la difesa erariale ritiene essere di ordine organizzativo e perciò rimessi alla discrezionalità del legislatore e comunque estranei alla garanzia di cui all'art. 111 Cost.

Considerato che il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi dubita della legittimità costituzionale degli artt. 181, 307 e 309 del codice di procedura civile - nella parte in cui prevedono che, se nessuna delle parti compare all’udienza, il giudice fissa una udienza successiva di cui il cancelliere dà comunicazione alle parti costituite, che se nessuna delle parti compare alla nuova udienza, il giudice dispone la cancellazione della causa dal ruolo, e che l’estinzione della causa avviene trascorso un anno dal provvedimento che dispone la cancellazione - per violazione dell’art. 111, secondo comma, della Costituzione, poiché tali disposizioni danno luogo ad adempimenti che non assicurano la ragionevole durata del singolo processo e dei processi civili in genere;

che le questioni sollevate dalle ordinanze di rimessione sono identiche e che i relativi giudizi vanno quindi riuniti per essere decisi con unico provvedimento;

che le questioni concernenti l’art. 307 cod. proc. civ. sono manifestamente inammissibili per difetto di rilevanza nei giudizi a quibus, poiché dalle stesse ordinanze di rimessione risulta che nei processi davanti al giudice rimettente non vengono in rilievo né il termine di riassunzione della causa dopo la sua cancellazione dal ruolo, né l’estinzione del processo per inattività delle parti, ma esclusivamente la necessità di fissare una nuova udienza a seguito della mancata comparizione delle stesse davanti al giudice;

che, riguardo alle questioni sollevate in relazione agli artt. 181 e 309 cod. proc. civ., questa Corte, con le ordinanze n. 32 del 2001 e n. 137 del 2002, ha già affermato che il legislatore, anche dopo l’introduzione in Costituzione del nuovo testo dell’art. 111, continua a disporre di un’ampia discrezionalità in materia processuale, e che "l’esigenza di garantire la maggior celerità possibile dei processi deve tendere ad una durata degli stessi che sia, appunto, "ragionevole" in considerazione anche delle altre tutele costituzionali in materia, primo fra tutti il diritto delle parti di agire e difendersi in giudizio garantito dall’art. 24 Cost." (cfr. anche le ordinanze n. 204 del 2001 e n. 309 del 2001);

che questa Corte ha altresì ripetutamente affermato che doglianze, quali quelle prospettate dal giudice a quo con le ordinanze in esame, che si appuntano su inconvenienti che concernono aspetti organizzativi della giustizia, non toccano profili di legittimità costituzionale (ordinanze n. 7 del 1997, n. 32 del 2001, n. 408 del 2001);

che le questioni sollevate riguardo agli artt. 181 e 309 cod. proc. civ. sono quindi manifestamente infondate sotto ogni profilo.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 307 del codice di procedura civile sollevate, in riferimento all’art. 111, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi con le ordinanze in epigrafe;

dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 181 e 309 del codice di procedura civile, sollevate, in riferimento all’art. 111, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 novembre 2002.

Cesare RUPERTO, Presidente

Fernanda CONTRI, Redattore

Depositata in Cancelleria il 4 dicembre 2002.