Sentenza n. 283/2002

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SENTENZA N.283

ANNO 2002

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Massimo VARI

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

- Francesco AMIRANTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

  nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della delibera della Camera dei deputati del 23 marzo 1999 relativa alla insindacabilità delle opinioni espresse dal deputato Vittorio Sgarbi nei confronti del dott. Giancarlo Caselli, promosso con ricorso della Corte di appello di Roma notificato il 15 gennaio 2001, depositato in Cancelleria il 29 successivo ed iscritto al n. 6 del registro conflitti 2001.

  Visto l’atto di costituzione della Camera dei deputati;

udito nell’udienza pubblica del 23 aprile 2002 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick;

  udito l’avvocato Roberto Nania per la Camera dei deputati.

Ritenuto in fatto

1.                       - Nel corso del giudizio di appello proposto avverso la sentenza del Tribunale di Roma in data 28 ottobre 1998 - con la quale il deputato Vittorio Sgarbi era stato condannato alla pena di mesi due di reclusione per il reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa ai danni del dott. Giancarlo Caselli, con riferimento ad alcune espressioni ("Soltanto la mente perversa di alcuni magistrati può pensare di attribuire a Berlusconi l’associazione mafiosa 416 bis. Loro sì mafiosi, che sequestrano la Sicilia, arrivano dal Piemonte per inquisire i siciliani, corrompere la loro dignità!"), pronunciate in occasione di un comizio tenutosi il 27 marzo 1996 e riportate dalla stampa - la Corte di appello di Roma ha sollevato conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato in relazione alla deliberazione della Camera dei deputati assunta il 23 marzo 1999. Con tale deliberazione l’Assemblea, in accoglimento del parere espresso dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere (doc. IV-quater n. 65), ha dichiarato che i fatti per i quali il suddetto parlamentare era sottoposto al procedimento penale in questione concernevano opinioni espresse dal deputato Sgarbi nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi del primo comma dell’art. 68 della Costituzione.

La Corte di appello - dopo aver richiamato la giurisprudenza costituzionale relativa all’oggetto del conflitto di attribuzione ed al nesso funzionale, che deve intercorrere tra le opinioni e l’attività parlamentare - ha rilevato come, nel caso di specie, non possa ravvisarsi alcun nesso di tal genere, "stante la non riscontrabilità di connessione con atti tipici della funzione parlamentare, in quanto non é possibile individuare ...un intento divulgativo di una scelta o, più in generale, di una attività politico-parlamentare". Al contrario, le dichiarazioni incriminate avrebbero "natura di insulto personale" e sarebbero scollegate ed estranee rispetto a qualunque valutazione politica, come sarebbe dimostrato "dalla loro genericità e dalla carenza di riferimenti a fatti concreti, specifici, determinati". La Giunta per le autorizzazioni a procedere e la Camera – ad avviso delle quali le opinioni sarebbero da ricondurre ad un contesto prettamente politico ed al legittimo diritto di critica del parlamentare, sia pure espresso "in forma paradossale e forse non conveniente" - avrebbero omesso di considerare che "non si può ricondurre nella funzione parlamentare l’intera attività politica svolta dal deputato, perchè tale interpretazione vanificherebbe il nesso funzionale di cui all’art. 68, primo comma, della Costituzione e comporterebbe il rischio di trasformare la prerogativa in un privilegio personale". Invece, "il fatto che si tratti di argomento politicamente rilevante e trattato in più occasioni da un deputato, non comporta di per sè che ci si trovi in presenza di esercizio della funzione parlamentare, da ravvisare solo quando tale attività sia correlabile ad uno specifico atto tipico". Pertanto, secondo la Corte di appello ricorrente, la deliberazione della Camera esorbiterebbe dall’ambito derogatorio consentito dall’art. 68 della Costituzione: con la conseguente violazione degli artt. 101, secondo comma, 102, primo comma, e 104, primo comma, Cost., che assegnano la titolarità della funzione giurisdizionale alla magistratura e tutelano la legalità e l’indipendenza del suo esercizio; nonchè degli artt. 3, primo comma, per la disparità di trattamento che verrebbe introdotta tra cittadini e parlamentari, e 24, primo comma, della medesima Carta, per l’impossibilità della parte lesa di fruire della tutela giurisdizionale, solo perchè é stata offesa da un parlamentare.

2. - Il conflitto é stato dichiarato ammissibile con ordinanza n. 9 del 2001 (depositata il 4 gennaio 2001). Le notificazioni di rito sono state eseguite il 15 gennaio 2001 ed il conseguente deposito é stato effettuato il 29 gennaio 2001.

3. - Nel giudizio si é costituita la Camera dei deputati, depositando documenti e svolgendo deduzioni, a conclusione delle quali ha chiesto dichiararsi che spetta ad essa Camera affermare la insindacabilità, a norma dell’art. 68, primo comma, Cost., delle opinioni espresse dal deputato Vittorio Sgarbi in data 27 marzo 1996, come deliberato dalla Assemblea della Camera medesima in data 23 marzo 1999.

Viene anzitutto ritenuta erronea la tesi della Corte ricorrente, secondo la quale la sede "extraparlamentare e politica" in cui le dichiarazioni sono state rese renderebbe inoperante la prerogativa sancita dall’art. 68 Cost.: tesi in contrasto con la giurisprudenza costituzionale e con il diverso testo che compariva nell’art. 51 dello Statuto. Altro assunto reputato erroneo é quello secondo il quale non sarebbe dato di ravvisare nella specie un collegamento tra un pur minimo intento divulgativo e un "comportamento" del parlamentare, giacchè – osserva la Camera resistente – una "indagine che pretendesse di sindacare le motivazioni soggettive che abbiano mosso il parlamentare a rendere le proprie dichiarazioni, resta del tutto ininfluente ai fini della applicazione della garanzia costituzionale della insindacabilità", come d’altra parte é possibile desumere dalla stessa giurisprudenza costituzionale. E’ al contrario corretta – sottolinea la Camera – l’osservazione svolta dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere, laddove segnala come il deputato Sgarbi abbia rivolto una costante attenzione, nell’esercizio del sindacato ispettivo proprio della carica, sull’operato della Procura della Repubblica di Palermo; sicchè le dichiarazioni sub iudice vengono a porsi "con tale attività in rapporto di conseguenzialità logica e contenutistica", come d’altra parte testimoniano "le svariate interrogazioni avanzate dal medesimo deputato", che la stessa Camera ha depositato ed illustrato. Come emergerebbe dalla rassegna delle interrogazioni riportata nell’atto di costituzione, tra le dichiarazioni di cui alla impugnata delibera di insindacabilità e le prese di posizione formalizzate in sede ispettiva, non intercorrerebbe soltanto – ad avviso della Camera – un "più che trasparente rapporto di comunanza tematica, ma una vera e propria identità di impostazione e di svolgimento dei medesimi contenuti critici". Ciò anche in riferimento alla "perifrasi provocatoria, ossia quella che ricorre all’appellativo "mafiosi", che peraltro non é di uso infrequente nella tecnica argomentativa del parlamentare, tant’é che figura negli stessi atti ispettivi". Che poi non vi sia perfetta coincidenza testuale tra gli atti parlamentari tipici e le dichiarazioni, é circostanza non dirimente, avendo la giurisprudenza costituzionale già chiarito come sia sufficiente – ai fini della garanzia della immunità – la "sostanziale corrispondenza di significati". Nè viene reputata convincente la deduzione della Corte ricorrente, secondo la quale le dichiarazioni in questione si porrebbero al di fuori della menzionata garanzia, perchè avrebbero "natura di insulto personale": ove una siffatta impostazione fosse condivisa, sarebbero introdotte nel conflitto "valutazioni di merito, relative cioé alla fondatezza o meno delle accuse rivolte al parlamentare, che devono restarvi rigorosamente estranee". In ogni caso, osserva la Camera, non può ritenersi che la forma attraverso la quale il parlamentare ha espresso la propria opinione possa precludere la garanzia costituzionale, ove ne ricorrano i presupposti, giacchè ciò aprirebbe il varco a valutazioni del tutto soggettive ed opinabili. Nè può convenirsi, infine, con la tesi secondo la quale la estraneità delle dichiarazioni dalla sfera di protezione costituzionale, sarebbe dimostrata "dalla loro genericità e dalla carenza di riferimenti a fatti concreti, specifici, determinati": sia perchè il rinvio alle denunce operate in sede ispettiva deve ritenersi implicito; sia perchè é proprio la prospettata "genericità" delle opinioni espresse – conclude la Camera – a "comprovarne, ictu oculi, il carattere della insindacabilità".

Con successiva memoria, depositata in prossimità della udienza, la Camera dei deputati ha riassunto e ribadito le argomentazioni già svolte nell’atto di costituzione.

Considerato in diritto

1. - La Corte di appello di Roma ha sollevato conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati, in relazione alla delibera assunta il 23 marzo 1999, con la quale l’Assemblea, in accoglimento del parere espresso dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere (doc. IV-quater, n. 65), ha dichiarato che i fatti per i quali pendevano alcuni procedimenti penali, promossi nei confronti del deputato Vittorio Sgarbi a seguito di querela proposta dal dott. Giancarlo Caselli – fra i quali anche il procedimento sottoposto al giudizio della Corte ricorrente – concernevano opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione. Come emerge dalla relazione della Giunta per le autorizzazioni a procedere, la deliberazione oggetto di impugnativa si riferisce ad una complessa vicenda processuale, originata da alcune frasi – riportate nell’esposizione in fatto - proferite dal deputato Sgarbi nel corso di una manifestazione politica svoltasi il 27 marzo 1996 in Milano: frasi che, diffuse da agenzie di stampa, vennero pubblicate da alcuni quotidiani, dando origine – a seguito di querela proposta dal dott. Caselli, procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo - a vari procedimenti penali per il reato di diffamazione, pendenti anche in gradi diversi. La stessa Giunta non mancò di sottolineare, al riguardo, come, pur nella varietà delle singole vicende processuali, le stesse si riferissero al medesimo accadimento storico, costituito dal comizio tenuto dal deputato Sgarbi il 27 marzo 1996; sicchè - indipendentemente dalle conseguenze di natura processuale o sostanziale che a tale "fatto storico" erano ricollegate, in base alla normativa vigente, da parte della autorità giudiziaria - la proposta formulata dalla stessa Giunta (poi approvata dall’Assemblea) doveva "intendersi attinente a tutti i procedimenti pendenti", che da quel fatto avevano tratto origine. Fatto, dunque, che restava enucleato dalle espressioni riprodotte sulla stampa e recepite nelle imputazioni elevate a carico del deputato Sgarbi nel procedimento pendente dinnanzi alla Corte ricorrente, investita a seguito di gravame interposto avverso la sentenza di condanna in primo grado, allegata agli atti qui trasmessi dalla stessa Corte.

Nel merito delle doglianze, la ricorrente sottolinea in particolare come - al lume tanto della giurisprudenza costituzionale che di quella di legittimità - non possano essere attratte nell’alveo della prerogativa della insindacabilità quelle manifestazioni del pensiero che, espresse "in comizi, cortei, trasmissioni radiotelevisive o durante lo svolgimento di scioperi", non presentino alcun collegamento funzionale con l’attività parlamentare, se non sul piano "meramente soggettivo" rappresentato dal fatto di provenire da persona fisica che é anche membro del Parlamento. Nella specie – afferma la ricorrente – le espressioni contestate al deputato Sgarbi come diffamatorie non potrebbero ritenersi collegate funzionalmente alla sua attività di parlamentare: sia per l’occasione ed il luogo in cui furono pronunciate; sia perchè non sarebbe possibile individuare in tale comportamento "un sia pur minimo intento divulgativo di una scelta o di un’attività politico-parlamentare, quale una proposta di legge o un’interrogazione o interpellanza, eccetera". La Camera dei deputati, dunque, accogliendo la proposta della Giunta avrebbe omesso di considerare che non si può ricondurre alla funzione parlamentare l’intera attività politica, giacchè, altrimenti, la prerogativa costituzionale rischierebbe di trasformarsi in un "privilegio personale". Le dichiarazioni del deputato Sgarbi, quindi, resterebbero estranee alla sfera della insindacabilità, avendo natura di "insulto personale" scollegato all’esercizio di funzioni parlamentari, come sarebbe dimostrato "dalla loro genericità e dalla carenza di riferimenti a fatti concreti, specifici, determinati".

2. - La Camera resistente reputa, al contrario, che dalle varie interrogazioni parlamentari formulate dal deputato Sgarbi e depositate in sede di costituzione, emerga la fondatezza di quanto già osservato dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere, a proposito della "costante attenzione" manifestata dal parlamentare per le vicende relative alla procura della Repubblica di Palermo; sicchè, tra le dichiarazioni oggetto della impugnata delibera di insindacabilità e le prese di posizione formalizzate in sede ispettiva, non sarebbe ravvisabile soltanto un rapporto di comunanza tematica, ma sarebbe possibile cogliere una identica impostazione e lo svolgimento "dei medesimi contenuti critici". Nè – sottolinea ancora la Camera – potrebbe farsi leva, come argomenta la Corte ricorrente, sulla pretesa genericità delle affermazioni per dedurne la non riferibilità all’esercizio della funzione parlamentare, giacchè, per un verso, ciò riproporrebbe l’esigenza di una inaccettabile "identità burocraticamente testuale tra dichiarazioni esterne ed atti parlamentari interni"; mentre, sotto altro profilo, vi sarebbe da chiedersi se non sia proprio la pretesa "genericità" delle opinioni espresse a dimostrare, di per sè, il carattere della loro insindacabilità, perchè intese a manifestare "il significato essenziale dell’impegno svolto in sede di esercizio del mandato parlamentare".

3. - Il ricorso é fondato.

Come questa Corte ha avuto modo di affermare più volte – nella ormai consolidata giurisprudenza formatasi sul tema dei conflitti di attribuzione fra autorità giudiziaria e Camere, in ordine alla applicazione dell’ art. 68, primo comma, della Costituzione – allorchè le dichiarazioni, per le quali il parlamentare é chiamato a rispondere in sede giurisdizionale, siano state rese, come nella specie, "del tutto al di fuori di un’attività funzionale riconducibile alla qualità di membro della Camera, e del tutto al di fuori delle possibilità di controllo e di intervento offerte dall’ordinamento parlamentare, l’unico punto da verificare riguarda l’eventualità che la dichiarazione medesima non rappresenti altro se non la divulgazione all’esterno...di un’opinione già espressa, o contestualmente espressa, nell’esercizio della funzione parlamentare" (v., fra le tante, la sentenza n. 289 del 2001). Per poter dunque ricondurre le dichiarazioni extra moenia al panorama delle "opinioni" per le quali opera la garanzia costituzionale della irresponsabilità, non bastano – ha sottolineato questa Corte – nè la semplice comunanza di argomenti, nè l’identità del "contesto" politico tra quelle dichiarazioni ed atti tipici della funzione parlamentare. "Occorre, invece, che la dichiarazione possa essere qualificata come espressione di attività parlamentare; il che normalmente accade se ed in quanto sussista una sostanziale corrispondenza di significati tra le dichiarazioni rese al di fuori dell’esercizio delle attività parlamentari tipiche svolte in Parlamento e le opinioni già espresse nell’ambito di queste ultime" (v., tra le altre, la sentenza n. 76 del 2001).

Nella specie deve escludersi che alle dichiarazioni, per le quali pende il procedimento penale davanti all’organo giurisdizionale che ha sollevato il conflitto, possa attribuirsi siffatto carattere divulgativo di una opinione parlamentare insindacabile. Gli atti di sindacato ispettivo evocati e prodotti dalla difesa della Camera, non evidenziano, infatti, profili di sostanziale corrispondenza rispetto alle espressioni che formano oggetto delle imputazioni, per le quali é stata pronunciata condanna in primo grado nei confronti del deputato Sgarbi ed é in corso di celebrazione il giudizio di appello davanti alla Corte ricorrente; essi esprimono – come ha sottolineato la relazione della Giunta per le autorizzazioni a procedere – null’altro che "il sintomo di una costante attenzione manifestata dal deputato Sgarbi, nell’esercizio dell’attività ispettiva propria di un parlamentare, sull’operato della Procura di Palermo", restando invece esclusa qualsiasi diretta attinenza con le "esternazioni" per le quali pende il procedimento in questione. Tali esternazioni, dunque, sono riconducibili ad un "contesto prettamente politico", come la Giunta riconosce; ma sono prive di un intimo raccordo, contenutistico e funzionale, con l’esercizio delle attribuzioni parlamentari, le quali sole legittimano e giustificano, sul piano costituzionale, la garanzia della insindacabilità che, erroneamente, la Camera resistente ha nella specie ritenuto di affermare.

Deve dunque concludersi che la Camera dei deputati, nel votare per la insindacabilità delle dichiarazioni di cui qui si tratta, ha violato l’art. 68, primo comma, della Costituzione, e leso in tal modo le attribuzioni della autorità giudiziaria ricorrente.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

  dichiara che non spetta alla Camera dei deputati deliberare che i fatti per i quali é in corso davanti alla Corte di appello di Roma il procedimento penale a carico del deputato Vittorio Sgarbi, di cui al ricorso in epigrafe, concernono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione; conseguentemente

  annulla la deliberazione in tal senso adottata dalla Camera dei deputati nella seduta del 23 marzo 1999.

  Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 giugno 2002.

Cesare RUPERTO, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria il 26 giugno 2002.