Ordinanza n. 273/2002

 CONSULTA ONLINE 

ORDINANZA N. 273

ANNO 2002

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Massimo VARI                     

- Riccardo CHIEPPA             

- Gustavo ZAGREBELSKY              

- Valerio ONIDA                    

- Carlo MEZZANOTTE                     

- Fernanda CONTRI               

- Guido NEPPI MODONA                

- Piero Alberto CAPOTOSTI             

- Annibale MARINI               

- Franco BILE             

- Francesco AMIRANTE                   

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale del combinato disposto di cui agli articoli 2, terzo comma, del codice penale e 673 del codice di procedura penale, e dell’articolo 341 del codice penale, promossi con ordinanze emesse il 29 maggio (n. due ordinanze) e il 13 luglio 2001 dal Tribunale di Rovereto, rispettivamente iscritte al n. 668, n. 669 e n. 897 del registro ordinanze 2001 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37 e n. 44, prima serie speciale, dell’anno 2001.

Udito nella camera di consiglio del 13 febbraio 2002 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.

Ritenuto che, nel corso di un procedimento di esecuzione avente ad oggetto la richiesta di revoca parziale di una sentenza penale di condanna per vari reati, tra i quali quello di oltraggio a pubblico ufficiale, e la conseguente rideterminazione della pena sulla base dell’intervenuta abrogazione dell’articolo 341 del codice penale disposta dall’articolo 18 della legge 25 giugno 1999, n. 205 (Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario), il Tribunale di Rovereto, in composizione monocratica, con ordinanza in data 29 maggio 2001 (r.o. n. 668 del 2001), ha sollevato due questioni di legittimità costituzionale: l’una, avente ad oggetto il combinato disposto degli artt. 2, terzo comma, del codice penale e 673 del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione; l’altra, relativa all’art. 341 del codice penale, in riferimento agli artt. 1, secondo comma, 2, 3, primo e secondo comma, 13, 25, secondo comma, 27, terzo comma, 28, 49, 54 e 97, primo comma, della Costituzione;

che il remittente – preso atto della ordinanza n. 107 del 2001, con la quale questa Corte ha dichiarato la manifesta inammissibilità di analoghe questioni di legittimità costituzionale allora prospettate in un legame irrisolto di alternatività - ripropone le medesime questioni, attribuendo valore principale a quella relativa al combinato disposto di cui all’art. 2, terzo comma, cod. pen. e all’art. 673 cod. proc. pen., in quanto tale questione verrebbe in considerazione "in via più immediata e diretta nel procedimento di esecuzione" e coinvolgerebbe "tutti i casi di successione di leggi penali nel tempo in cui la legge successiva più favorevole modifica il regime di procedibilità del reato o la stessa specie di pena, sicchè il suo accoglimento avrebbe effetti di più ampia e generale portata";

che, in particolare, secondo il giudice a quo, una volta riconosciuto che nel caso di specie ricorre un’ipotesi di successione di leggi penali nel tempo e non una abolitio criminis, non sarebbero applicabili gli artt. 2, secondo comma, cod. pen. e 673 cod. proc. pen., ma l’art. 2, terzo comma, cod. pen., nella parte in cui fa salvi in tali casi gli effetti del giudicato anche se la disciplina successiva sia più favorevole, e, conseguentemente, nel procedimento di esecuzione sarebbero queste le disposizioni che verrebbero immediatamente in considerazione, essendo in prima battuta ed in linea di principio irrilevante la norma incriminatrice che aveva trovato applicazione nel processo di cognizione;

che, pertanto, la questione riguardante l’art. 341 cod. pen. assumerebbe rilievo solo a condizione che la prima questione sia dichiarata infondata o inammissibile e sarebbe, perciò, logicamente subordinata ad essa;

che, con la prima questione, il remittente - muovendo dalla premessa che l’art. 18 della legge n. 205 del 1999 non avrebbe comportato una vera e propria abolitio criminis, ma una semplice successione nel tempo di leggi penali incriminatrici, poichè tutti i comportamenti previsti dall’art. 341 cod. pen. dovrebbero ormai essere ricondotti alla più generale fattispecie dell’ingiuria di cui all’art. 594 dello stesso codice, eventualmente aggravata ai sensi dell’art. 61, numero 10 - dubita della legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 2, terzo comma, cod. pen. e 673 cod. proc. pen., nella parte in cui non consente la modifica del giudicato, in sede di procedimento di esecuzione, nel caso di successione di leggi penali nel tempo con effetto meramente modificativo e conseguente abrogazione di una norma incriminatrice, per lo meno nei casi in cui l’intervento legislativo viene a porre in discussione l’an della sanzione, mediante la modifica del regime di procedibilità del reato, ovvero il quantum o la species della pena, prevedendo la nuova disciplina la pena pecuniaria (sia pure in alternativa) in luogo di quella detentiva;

che ad avviso del Tribunale di Rovereto, la ratio sottesa al limite del giudicato posto dall’art. 2, terzo comma, cod. pen. sarebbe "eminentemente pratica", cioé connessa all’esigenza di evitare un nuovo giudizio ad ogni sopravvenire di modifiche normative; si tratterebbe, quindi, di un fondamento certamente meno "alto" ed importante rispetto a quello a base della regola della retroattività della norma favorevole, consistente nel principio di eguaglianza sotto il profilo della parità di trattamento;

che, rileva il giudice a quo, il limite del giudicato posto dal terzo comma dell’art. 2 cod. pen. sarebbe intrinsecamente irragionevole sia in rapporto alla diversa regola di cui al secondo comma del medesimo art. 2, sia "all’interno dei casi di mero intervento modificativo, in senso favorevole, da parte del legislatore";

che, prosegue il remittente, la mancanza di ragionevolezza della disciplina censurata sarebbe evidente almeno nel caso in cui la modifica legislativa non incidesse solo su aspetti secondari o solo sui limiti edittali di pena, ma comportasse, come nel caso di specie, una modifica del regime di procedibilità e della stessa specie di pena irrogabile, determinando il passaggio da una pena obbligatoriamente detentiva ad una pena pecuniaria, sia pure in via alternativa: in simili casi, infatti, verrebbero in considerazione anche altri parametri costituzionali, quali l’art. 13 Cost., in riferimento al bene supremo della libertà personale, l’art. 25, secondo comma, Cost., in riferimento al principio di offensività, e l’art. 27, terzo comma, Cost., dal quale sarebbe desumibile il principio di proporzione tra fatto e pena;

che, rileva ancora il Tribunale di Rovereto, l’accoglimento della prospettata questione di costituzionalità consentirebbe di applicare l’art. 673 cod. proc. pen. tutte le volte in cui la successiva legge più favorevole escludesse la punibilità del fatto per qualsiasi ragione (anche attinente al regime di procedibilità) ovvero l’applicazione di una pena detentiva;

che, con la seconda questione, il giudice a quo osserva che se "in tutti i giudizi di cognizione in corso per effetto dell’intervenuta abrogazione dell’art. 341 cod. pen. dovrà trovare applicazione la più mite disciplina di cui all’art. 594 cod. pen., ai sensi dell’art. 2, terzo comma, cod. pen.", al contrario, nei procedimenti di esecuzione, relativi a sentenze di condanna passate in giudicato, un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 341 cod. pen. comporterebbe l’applicazione, in luogo della disciplina di cui all’art. 2 cod. pen., dell’art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87;

che, prosegue il remittente precisando la sua tesi, mentre gli effetti del sopravvenire di un atto legislativo andrebbero distinti a seconda che si tratti di abolitio criminis o di mera successione nel tempo di leggi penali, riconducibili rispettivamente al secondo e al terzo comma dell’art. 2 cod. pen., nel caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale di una disposizione di legge l’art. 30 della legge n. 87 del 1953 non consentirebbe distinzione alcuna, poichè si imporrebbe sempre e comunque l’efficacia retroattiva della pronuncia di incostituzionalità senza alcun limite di carattere processuale;

che sarebbe appunto questa la ragione per la quale l’art. 341 cod. pen., anche se abrogato, potrebbe formare oggetto di una questione dotata del requisito della rilevanza: l’eventuale accoglimento di tale questione comporterebbe l’applicabilità, non più dell’art. 2 cod. pen., ma dell’art. 30 della legge n. 87 del 1953 e, quindi, sul piano processuale, dell’art. 673 cod. proc. pen., con la conseguente revoca, nel giudizio principale, della sentenza di condanna;

che, quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il remittente dubita, in riferimento ai suindicati parametri, della legittimità costituzionale: a) della configurazione dell’oltraggio a un pubblico ufficiale come autonomo reato, anzichè quale aggravante del reato di ingiuria; b) in subordine, del tipo e della entità delle pene stabilite per tale reato, a causa della mancata previsione della pena pecuniaria in alternativa a quella detentiva, e del regime di procedibilità d’ufficio anzichè a querela di parte;

che, nel corso di altro procedimento di esecuzione avente ad oggetto la richiesta di revoca di una sentenza pronunciata ex art. 444 cod. proc. pen. per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale a seguito dell’intervenuta abrogazione dell’art. 341 cod. pen., il Tribunale di Rovereto, in composizione monocratica, con ordinanza in data 29 maggio 2001 (r.o. n. 669 del 2001), ha sollevato, sulla base delle medesime argomentazioni, identiche questioni di legittimità costituzionale sia dell’art. 341 cod. pen., sia del combinato disposto di cui agli artt. 2, terzo comma, cod. pen. e 673 cod. proc. pen.;

che, nel corso di un terzo procedimento di esecuzione concernente la revoca di una sentenza penale di condanna per il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale a seguito dell’intervenuta abrogazione dell’art. 341 cod. pen., il Tribunale di Rovereto, in composizione collegiale, con ordinanza in data 13 luglio 2001 (r.o. n. 897 del 2001), ha sollevato identiche questioni di legittimità costituzionale delle medesime disposizioni sopra indicate.

Considerato che, poichè le ordinanze di rimessione sollevano analoghe questioni di legittimità costituzionale, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia;

che il giudice a quo, muovendo dal presupposto che l’abrogazione dell’articolo 341 del codice penale, che puniva il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, disposta dall’articolo 18 della legge 25 giugno 1999, n. 205 non avrebbe comportato una vera e propria abolitio criminis, ma avrebbe dato luogo ad una semplice successione nel tempo di leggi penali incriminatrici, dovendosi, a suo avviso, applicare ai fatti di oltraggio le disposizioni penalistiche che prevedono il reato di ingiuria aggravata per la qualità della persona offesa, solleva due questioni di legittimità costituzionale subordinate l’una all’altra, così da consentire di prendere in esame la seconda questione solo in caso di rigetto o di inammissibilità di quella posta in via principale;

che, in particolare, in via principale il remittente denuncia il combinato disposto degli artt. 2, terzo comma, cod. pen. e 673 cod. proc. pen., nella parte in cui non consentirebbe la modifica del giudicato, in sede di procedimento di esecuzione, nel caso di successione di leggi penali nel tempo, perlomeno nelle ipotesi in cui l’intervento legislativo si limita a incidere sul regime di procedibilità del reato (a querela anzichè di ufficio), ovvero sul quantum o sulla species della pena (pecuniaria, sia pure in via alternativa, anzichè esclusivamente detentiva);

che in via subordinata il medesimo remittente, pur nella consapevolezza della sua intervenuta abrogazione, sottopone al giudizio di questa Corte l’art. 341 cod. pen., ritenendo che una eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale di tale disposizione comporterebbe l’applicazione, in luogo dell’art. 2, terzo comma, cod. pen., dell’art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87, che non distinguerebbe l’ipotesi della abolitio criminis da quella della successione nel tempo di leggi penali, con la conseguenza che la sentenza di condanna per il reato di oltraggio potrebbe essere revocata ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen.;

che, ponendo le due questioni in rapporto di subordinazione, il giudice a quo supera indubbiamente quel profilo preliminare di inammissibilità, consistente nel carattere alternativo delle prospettazioni, che aveva inficiato le sue precedenti ordinanze di rimessione sulle quali questa Corte si é pronunciata con l’ordinanza n. 107 del 2001;

che nello scrutinio di merito al quale si deve oggi attendere emerge tuttavia un profilo di manifesta infondatezza che consegue proprio alla premessa interpretativa dalla quale il remittente procede e che accomuna le due distinte questioni: che cioé l’abrogazione dell’art. 341 cod. pen. ad opera dell’art. 18 della legge n. 205 del 1999 configuri una successione nel tempo di leggi penali anzichè una vera e propria abolitio criminis;

che tale presupposto interpretativo sia erroneo é stato affermato dalle sezioni unite della Corte di cassazione nella recente pronunzia del 17 luglio 2001;

che la soluzione adottata dal giudice di legittimità, che ha risolto un contrasto interpretativo che era insorto sul punto, ruota attorno a due argomenti centrali: l’assenza di una disciplina transitoria che abbia ad oggetto i reati di oltraggio commessi prima dell’abrogazione della norma incriminatrice, da un lato, e la limitatezza dei poteri del giudice dell’esecuzione in sede di revoca ex art. 673 cod. proc. pen. della sentenza di condanna, dall’altro;

che il primo argomento poggia sulla ineccepibile constatazione che l’art. 19 della legge di delegazione n. 205 del 1999, che prevede nuovi termini per la proposizione della querela, non riguarda il reato di oltraggio a pubblico ufficiale di cui all’abrogato art. 341 del codice penale, ma alcuni altri reati, che in precedenza erano perseguibili d’ufficio e che solo in forza di tale legge e dei successivi decreti legislativi sono divenuti perseguibili a querela;

che l’ulteriore rilievo che questa disposizione non é suscettibile di estensione analogica non può non essere condiviso, tanto più se si considera che, nella specie, si tratterebbe di una estensione in malam partem, intesa cioé a far sopravvivere la punibilità di un fatto al di fuori di una esplicita e specifica previsione legislativa: questa Corte del resto, già nell’ordinanza n. 175 del 2001, nel respingere l’ipotesi di estendere con una propria pronuncia l’operatività dell’art. 19 della legge n. 205 del 1999 alle fattispecie di oltraggio, non ha mancato di rilevare che, nel caso di pura e semplice abrogazione di una norma che prevede un reato perseguibile di ufficio, l’introduzione di condizioni di procedibilità e di punibilità non esplicitamente previste dal legislatore si risolverebbe in un aggravamento della posizione sostanziale dell’imputato, precluso al giudice delle leggi non meno che al giudice comune;

che l’assenza di una disciplina transitoria e il divieto di estendere in via analogica quella dettata dall’art. 19 della legge n. 205 del 1999 per reati diversi dall’oltraggio impongono di ritenere che si versi in un’ipotesi di abolitio criminis, regolata dall’art. 2, secondo comma, del codice penale, e non di successione nel tempo di norme penali incriminatrici: se il legislatore del 1999 avesse soltanto inteso rendere sanzionabili a titolo di ingiuria anche per il passato fatti di oltraggio, non si sarebbe potuto esimere dal regolare i modi e i tempi per la proposizione della querela, pena, altrimenti, la violazione del canone di ragionevolezza delle classificazioni legislative;

che infatti l’interpretazione propugnata dal remittente finisce con l’imputare al legislatore scelte tra loro inconciliabili: la persistente punibilità a titolo di ingiuria dei pregressi reati di oltraggio e l’ineluttabile improcedibilità per mancanza di querela dei giudizi pendenti;

che anche l’ulteriore argomento che, insieme alla constatata assenza di una disciplina transitoria, ha indotto il giudice di legittimità a interpretare la vicenda abrogativa dell’art. 341 del codice penale come abolitio criminis, argomento che fa leva sui limitati poteri dei quali é investito il giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 673 del codice di procedura penale, non risponde soltanto alla dogmatica processualpenalistica in tema di rapporti tra giudizio di cognizione e giudizio di esecuzione, ma assume il valore dell’interpretazione costituzionalmente conforme, che non potrebbe essere disattesa se non violando principî costituzionali;

che al giudice dell’esecuzione penale non é in effetti consentito modificare l’originaria imputazione nè accertare il fatto in modo difforme da quello ritenuto dalla sentenza passata in giudicato, e non gli é quindi neppure permesso estendere il suo giudizio a istituti, che, secondo l’orientamento delle sezioni unite, opererebbero come esimenti solo nell’ingiuria, quali la ritorsione o la provocazione;

che la soluzione che postulasse la titolarità in capo al giudice dell’esecuzione di poteri pieni in ordine alla rivalutazione del fatto contrasterebbe con i criteri direttivi di cui ai numeri 96 e 97 dell’art. 2 della legge di delega per il nuovo codice di procedura penale (legge 16 febbraio 1987, n. 81), che simili poteri riconoscono, in sede di esecuzione penale, solo ai fini dell’applicazione della disciplina del concorso formale e della continuazione di reati, e comporterebbe quindi a carico dell’art. 673 cod. proc. pen. un vizio di eccesso di delega;

che il vincolo all’interpretazione costituzionalmente conforme, come questa Corte ha già affermato (cfr. da ultimo sentenza n. 292 del 2000), si impone tutte le volte in cui una disposizione di un decreto legislativo, diversamente interpretata, eccederebbe i limiti fissati nella legge di delegazione, con violazione dell’art. 76 della Costituzione;

che l’ulteriore canone interpretativo, che depone nel senso dell’abolitio criminis, si trae dall’art. 24 della Costituzione, che proclama inviolabile il diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento e che verrebbe leso dall’applicazione dell’art. 2, comma terzo, del codice penale, nei casi in cui al condannato per oltraggio non sia stata offerta, nel corso del giudizio di cognizione, l’opportunità di provare l’esistenza delle eventuali esimenti proprie del delitto di ingiuria, che non potrebbe certo essere provata di fronte al giudice dell’esecuzione, il quale é sfornito di pieni poteri valutativi;

che non può essere condivisa neppure l’osservazione del remittente, secondo cui la soluzione dell’abolitio criminis lascerebbe senza tutela i pubblici ufficiali che siano stati offesi da pregressi fatti di oltraggio, poichè in relazione a tali fatti essi vengono soltanto privati del sostegno della pretesa punitiva dello Stato, ma non vengono spogliati del loro diritto di ottenere il risarcimento del danno;

che invero, nel caso di condanna passata in giudicato, l’abolitio criminis comporta sì la revoca della sentenza da parte del giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen., ma solo relativamente ai suoi capi penali (in questa logica si é mossa questa Corte nell’ordinanza n. 57 del 2001), non anche a quelli civili, la cui esecuzione ha luogo secondo le norme del codice di procedura civile, con la conseguenza che, se vi é stata costituzione di parte civile e condanna al risarcimento dei danni, quest’ultima resta ferma, mentre, in ogni altro caso, permane per la persona che abbia subito un ingiusto pregiudizio la possibilità di esercitare l’azione civile nella sede sua propria fino al termine di prescrizione, giacchè la formula assolutoria per l’ipotesi di sopravvenuta abrogazione della norma incriminatrice ("il fatto non é previsto dalla legge come reato") non é fra quelle alle quali l’art. 652 cod. proc. pen. attribuisce efficacia nel giudizio civile;

che, in conclusione, una volta accertato che la vicenda legislativa della abrogazione dell’art. 341 cod. pen. integra un’ipotesi di abolitio criminis, disciplinata dall’art. 2, secondo comma, del codice penale, é erroneo il presupposto interpretativo sul quale il giudice remittente ha basato entrambe le questioni di legittimità costituzionale;

che, pertanto, le questioni stesse devono essere dichiarate manifestamente infondate.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto di cui agli articoli 2, terzo comma, del codice penale e 673 del codice di procedura penale, e dell’articolo 341 del codice penale, sollevate in riferimento, rispettivamente, agli articoli 3, primo comma, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, e agli articoli 1, secondo comma, 2, 3, primo e secondo comma, 13, 25, secondo comma, 27, terzo comma, 28, 49, 54 e 97, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Rovereto, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 giugno 2002.

Cesare RUPERTO, Presidente

Carlo MEZZANOTTE, Redattore

Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2002.