ORDINANZA N. 57
ANNO 2001
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Fernando SANTOSUOSSO, Presidente
- Massimo VARI
- Cesare RUPERTO
- Riccardo CHIEPPA
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 2, secondo comma, del codice penale, promosso con ordinanza emessa l’11 novembre 1999 dal Tribunale di Palermo, iscritta al n. 40 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2000.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’11 ottobre 2000 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.
Ritenuto che, con ordinanza in data 11 novembre 1999, il Tribunale di Palermo, in composizione monocratica – chiamato a provvedere, quale giudice dell’esecuzione, su un’istanza di revoca, ai sensi dell’articolo 673 del codice di procedura penale, di una sentenza di condanna per il reato di oltraggio a un pubblico ufficiale – ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2, secondo comma, del codice penale, "nella parte in cui non prevede che il debito di rimborso delle spese processuali cessi, in quanto effetto penale, nel caso di revoca della condanna, ex articolo 673 cod. proc. pen., per un fatto che secondo la legge posteriore non costituisca reato";
che, avendo l’articolo 18 della legge 25 giugno 1999, n. 205 (Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario) espressamente abrogato l’articolo 341 cod. pen., che prevedeva il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, il remittente argomenta le ragioni per le quali nella concreta fattispecie sottoposta al suo giudizio ricorrerebbe un’ipotesi di abolitio criminis, riconducibile al secondo comma dell’articolo 2 del codice penale, e, dovendo procedere alla revoca della sentenza ai sensi dell’articolo 673 cod. proc. pen., ritiene rilevante la prospettata questione di legittimità costituzionale, non avendo il condannato ancora pagato le spese processuali;
che il remittente richiama la sentenza n. 98 del 1998, con la quale questa Corte ha affermato che il debito di rimborso delle spese del processo penale gravante sul condannato non è più qualificabile come obbligazione civile retta dai comuni principî della responsabilità patrimoniale, ma come sanzione economica accessoria alla pena, in qualche modo partecipe del regime giuridico e delle finalità di questa;
che tale nuova qualificazione giuridica farebbe sorgere dubbi di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione, in relazione all’articolo 2, secondo comma, del codice penale, poiché – sembra ragionare il remittente – in questa disposizione le spese del processo non sarebbero configurate come effetto penale della condanna, sicché il condannato sarebbe obbligato a pagarle, nonostante la revoca della sentenza ex articolo 673 cod. proc. pen.;
che, in particolare, nel caso della abolitio criminis, mantenere in vita la condanna alle spese processuali pur in presenza di un così radicale mutamento di valutazione circa il disvalore penale della condotta, significherebbe da un lato violare il canone della ragionevolezza delle classificazioni legislative, e dall’altro introdurre una ingiustificata disparità di trattamento tra soggetti che, pur avendo commesso, in ipotesi, il reato di oltraggio lo stesso giorno, sarebbero o meno sottoposti all’obbligo di pagare le spese processuali a seconda che abbiano riportato condanna irrevocabile prima della abrogazione dell’articolo 341 cod. pen. ovvero si trovino assoggettati ad un procedimento penale ancora in corso;
che in giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, secondo la quale, dopo la sentenza n. 98 del 1998 di questa Corte, la sopravvivenza dell’obbligo di rimborso delle spese processuali nel caso della abolitio criminis sarebbe difficilmente conciliabile con gli invocati parametri costituzionali, e la prospettata questione di costituzionalità andrebbe risolta con una sentenza interpretativa di rigetto, che adegui la disposizione censurata al dettato della Costituzione, sulla base di una diversa lettura dell’articolo 2, secondo comma, del codice penale, non preclusa dalla sua formulazione testuale.
Considerato che il Tribunale di Palermo, nel sollecitare, alla luce degli articoli 3 e 27 della Costituzione, una pronuncia additiva sull’articolo 2, secondo comma, del codice penale, "nella parte in cui non prevede che il debito di rimborso delle spese processuali cessi, in quanto effetto penale, nel caso di revoca della condanna, ex articolo 673 del codice di procedura penale, per un fatto che secondo la legge posteriore non costituisca reato", pone in termini di questione di legittimità costituzionale un semplice problema interpretativo che deve risolvere autonomamente non trovando alcun ostacolo nella disposizione censurata;
che a ritenere plausibile la tesi del remittente secondo cui la concreta fattispecie sottoposta al suo esame integrerebbe una ipotesi di abolitio criminis, la disposizione da applicare, come egli stesso ritiene pacifico, è l’articolo 673 cod. proc. pen., che prevede in simili ipotesi la revoca della sentenza;
che questa Corte ha già rilevato nella sentenza n. 96 del 1996 come la disciplina processuale della abolitio criminis abbia subito modificazioni profonde a seguito dell’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988, il quale, all’articolo 673, sotto la rubrica "Revoca della sentenza per abolizione del reato", ha previsto, al comma 1, che nel caso di abrogazione o dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato, e adotta i provvedimenti conseguenti;
che alla citata sentenza non è sfuggita l’evidente innovazione rispetto alla disciplina posta dall’articolo 2, secondo comma, del codice penale e dall’articolo 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87, poiché, mentre queste due disposizioni, per l’ipotesi di abolitio criminis o, rispettivamente, di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, prevedevano la cessazione dell’esecuzione e degli effetti penali della condanna senza che fosse intaccato il giudicato penale, l’articolo 673 del codice di procedura penale, nel prevedere in questi casi la revoca della sentenza da parte del giudice dell’esecuzione, attribuisce a questo il potere di incidere direttamente, cancellandola, sulla sentenza del giudice della cognizione;
che è anche chiaro che sia nell’articolo 2 del codice penale, sia nell’articolo 673 del codice di procedura penale, si disciplina la sorte non della sola pena ma di tutti gli effetti penali della condanna;
che è d’altra parte nota al remittente la portata della sentenza n. 98 del 1998, con la quale questa Corte ha ricondotto la condanna al rimborso delle spese del processo penale, che tradizionalmente era inquadrata tra le obbligazioni civili verso lo Stato poste a carico dell’autore del reato, ad un genere di sanzioni partecipi del regime giuridico e delle finalità della pena e quindi accessorie a questa;
che lo stabilire se il rimborso delle spese del processo penale sia obbligazione civile ovvero sanzione economica assimilabile a una pena accessoria non comporta la soluzione di questioni di legittimità costituzionale ulteriori rispetto a quelle già affrontate da questa Corte con la sentenza n. 98 del 1998;
che il giudice a quo dispone, quindi, di tutte le coordinate normative per risolvere il problema di fronte al quale si trova, senza che sia all’uopo necessario un intervento manipolativo sull’articolo 2 del codice penale, inteso a inserire in esso norme già presenti nel sistema;
che, pertanto, la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2, secondo comma, del codice penale, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione, dal Tribunale di Palermo, in composizione monocratica, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 marzo 2001.
Fernando SANTOSUOSSO, Presidente
Carlo MEZZANOTTE, Redattore
Depositata in cancelleria il 13 marzo 2001.