Sentenza n. 270/2002

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N.270

ANNO 2002

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Massimo VARI         

- Riccardo CHIEPPA  

- Gustavo ZAGREBELSKY  

- Valerio ONIDA        

- Fernanda CONTRI   

- Guido NEPPI MODONA    

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI    

- Franco BILE 

- Francesco AMIRANTE        

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della delibera del Senato della Repubblica del 29 luglio 1999 relativa alla insindacabilità delle opinioni espresse dal senatore Angelo Giorgianni, promosso con ricorso della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, notificato il 27 novembre 2000, depositato in cancelleria il 1° dicembre 2000 ed iscritto al n. 55 del registro conflitti 2000.

Visto l’atto di costituzione del Senato della Repubblica;

udito nell’udienza pubblica del 9 aprile 2002 il Giudice relatore Valerio Onida;

uditi l’avvocato Alessandro Pace per la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura e l’avvocato Stefano Grassi per il Senato della Repubblica.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza-ricorso del 20 maggio 2000, depositata presso la cancelleria della Corte costituzionale il 25 maggio 2000, la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha sollevato conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato, chiedendo che la Corte, previo riconoscimento dell’ammissibilità del conflitto, dichiari che non spetta al Senato della Repubblica ritenere insindacabili ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, i fatti di cui ai punti 2, lettere a e b, e 4 dell’incolpazione disciplinare (proc. n. 33/2000 R.G, stralcio dal proc. n. 71/99 R.G.) nei confronti del senatore Angelo Giorgianni, al momento della sollevazione del conflitto magistrato collocato fuori dal ruolo organico della magistratura, in aspettativa per mandato parlamentare, e di conseguenza annulli in parte qua la deliberazione del Senato del 29 luglio 1999.

L’ordinanza-ricorso dà conto dei sei punti dell’incolpazione per cui la Sezione disciplinare procede nei confronti di Angelo Giorgianni, su azione del Ministro della giustizia, dei quali qui interessano, in particolare: il punto 2, con il quale gli viene contestata "la violazione del dovere di diligenza di cui all’art. 18 del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511, in relazione alla gestione del procedimento n. 1238/93/21 (cd. "procedimento contenitore") per avere: a) omesso di informare i colleghi che lo avrebbero sostituito sullo stato del procedimento, particolarmente complesso e con proprie caratteristiche strutturali, con indagini informatizzate in corso e con un inizio di informatizzazione del procedimento, con la predisposizione di collegamenti fra vari documenti e dati, con possibilità di più chiavi di lettura; b) disposto la cancellazione da tutti i computers, utilizzati personalmente e da parte dei suoi collaboratori, del programma fornito dal consulente Genchi e di quello predisposto dal M.llo Pavone, nonchè di tutti i dati immagazzinati, restituendo solo (dopo varie richieste) singoli files di documenti istruttori, così creando un oggettivo danno alla futura gestione del procedimento"; il punto 4, con cui si contesta al dott. Giorgianni l’incolpazione di cui allo stesso art. 18 del r.d.lgs. n. 511 del 1946, "per avere il medesimo, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Messina, frequentato con carattere di continuità o comunque di non occasionalità Mòllica Antonio, personaggio che, in considerazione dei suoi precedenti penali e giudiziari (in passato anche al vaglio dello stesso Giorgianni) é da ritenersi di dubbia fama, con conseguente grave compromissione del proprio prestigio e di quello dell’Ordine Giudiziario, anche per eventuali possibili sospetti di precedente parzialità nell’espletamento dell’attività giudiziaria"; il punto 5, con cui gli si contesta l’incolpazione di cui al medesimo art. 18, "per avere violato il principio del dovere di piena e leale collaborazione del Magistrato, con riferimento alle prospettazioni dal medesimo rappresentate alla Commissione parlamentare antimafia, in sede di inchiesta relativa ai rapporti intercorsi con il Mòllica. Segnatamente, per avere, nel corso dell’audizione nei giorni 23/24 febbraio 1998 dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia riunitasi presso la Prefettura di Messina fornito dichiarazioni non corrispondenti alla effettiva realtà" (seguono, nell’ordinanza-ricorso, le dichiarazioni del dott. Giorgianni).

La Sezione disciplinare ricorda poi che il 2 agosto 1999, a seguito della fissazione e dello svolgimento della discussione orale, tenutasi nelle date del 10 giugno e 1° luglio 1999, il Procuratore generale della Corte di cassazione ha rimesso alla stessa Sezione una nota, con allegati, del Presidente del Senato della Repubblica, la quale informa che il Senato, nella seduta del 29 luglio 1999, ha deliberato di approvare la proposta della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, con cui si riteneva che i fatti attinenti al punto 2, lett. a e b, al punto 4 e al punto 5 dell’incolpazione concernessero opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni e ricadessero, pertanto, nell’ipotesi di cui all’art. 68, primo comma, della Costituzione.

La Sezione disciplinare ricorrente considera che le si deve riconoscere la legittimazione a sollevare conflitto fra poteri, in quanto organo giurisdizionale in posizione di indipendenza costituzionalmente garantita, competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere a cui appartiene; e che al Senato della Repubblica deve parimenti essere riconosciuta la legittimazione ad essere parte del conflitto in ordine all’applicabilità dell’art. 68, primo comma, della Costituzione; e lamenta la lesione della propria sfera di attribuzione, costituzionalmente garantita a norma dell’art. 105 della Costituzione, in conseguenza dell’illegittimo esercizio da parte del Senato del potere di dichiarare l’insindacabilità ai sensi dell’art. 68 stesso.

Dopo avere escluso l’addebito relativamente al capo 1 dell’incolpazione, per esercizio tardivo dell’azione disciplinare, e osservato che il dott. Giorgianni, anche a seguito della delibera di insindacabilità relativa ai punti 2, lett. a e b, 4 e 5 dell’incolpazione stessa, va comunque sottoposto a giudizio per ciò che riguarda i capi 3 e 6, seconda parte, dell’incolpazione, la Sezione, ricordando il costante insegnamento della Corte costituzionale, ritiene di dover verificare l’esistenza del "nesso funzionale" fra l’attività, su cui deve svolgersi il giudizio della Sezione medesima, e l’esercizio del mandato del parlamentare, e conclude che questo nesso sussiste soltanto relativamente al punto 5 dell’incolpazione, in relazione al quale si pronuncia quindi con decisione di non doversi procedere.

Il nesso funzionale non sussisterebbe, invece, con riguardo agli altri capi di incolpazione, e cioé ai punti 2, lett. a e b, e 4 dell’incolpazione medesima.

In punto di fatto, si considera che in sede disciplinare al dott. Giorgianni é contestata una condotta non collaborativa, concretantesi in un ostacolo alla normale conduzione delle indagini, mentre la deliberazione del Senato prenderebbe in considerazione una mera mancata consegna (dei files con i documenti istruttori); e che le frequentazioni con il Mòllica risalirebbero, secondo il capo di incolpazione, ad epoca anteriore alla elezione del medesimo dott. Giorgianni.

In punto di diritto, si afferma che spetterebbe alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, a norma dell’art. 105 Cost., stabilire se il dott. Giorgianni, prima della sua elezione a senatore, non avesse alcun obbligo di collaborazione con i colleghi dell’ufficio e se abbia ostacolato di fatto il normale svolgimento delle indagini, e accertare se sia censurabile la ipotizzata frequentazione con un personaggio, che nel capo di incolpazione é definito "di dubbia fama", risalente all’epoca anteriore alla elezione al Senato dello stesso magistrato. La Sezione aggiunge, relativamente al punto 2, che la motivazione del Senato apparirebbe contraddittoria, ed evidenzierebbe la confusione, operata dal Senato stesso, fra il dovere di collaborare con i colleghi, mettendo a disposizione il proprio patrimonio di conoscenze, e il dovere di non interferire, astenendosi dal compiere ulteriore attività positiva di indagine: il Senato avrebbe infatti affermato che fin quando il dott. Giorgianni era magistrato in attesa di essere eletto non avrebbe avuto alcun obbligo di collaborare con l’ufficio, e che dopo l’elezione avrebbe avuto addirittura l’obbligo di non collaborare, per non interferire in attività giudiziarie a cui era divenuto estraneo.

2.– Il conflitto é stato dichiarato ammissibile con l’ordinanza n. 530 del 2000. L’ordinanza-ricorso introduttiva del presente giudizio é stata notificata al Senato della Repubblica, unitamente all’ordinanza di ammissibilità, il 27 novembre 2000 e depositata presso la cancelleria della Corte costituzionale il 1° dicembre 2000.

3.– Si é costituito nel giudizio davanti alla Corte il Senato della Repubblica, chiedendo che il conflitto sia dichiarato inammissibile o comunque infondato, e depositando numerosi documenti.

Sulla notifica dell’ordinanza-ricorso, il Senato nota che essa risulta "richiesta come in atti", senza che si possa ricavare con certezza quale organo abbia formalizzato la richiesta di notificazione, la quale – ai sensi della lettera b del dispositivo dell’ordinanza n. 530 del 2000 – doveva essere effettuata a cura della ricorrente: sicchè si potrebbe dubitare che il ricorso sia stato formalmente instaurato dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura.

Quanto alla ammissibilità del conflitto, il Senato sostiene l’assenza della legittimazione soggettiva dell’organo ricorrente a essere parte nel conflitto di attribuzione tra poteri. La Sezione disciplinare, infatti, sul piano oggettivo, contesta la menomazione, da parte della delibera del Senato, del potere di adottare provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati. Ma tale potere sarebbe attribuito dall’art. 105 della Costituzione al Consiglio superiore della magistratura nel suo complesso, e non alla Sezione disciplinare.

Il riconoscimento dei caratteri giurisdizionali del procedimento disciplinare, effettuato dal legislatore e dalla giurisprudenza costituzionale, non implicherebbe la spettanza alla sola Sezione disciplinare della formale titolarità del potere nè della legittimazione processuale a far valere la titolarità del potere in sede di conflitto di attribuzione davanti alla Corte: tale riconoscimento, infatti, sarebbe stato effettuato ai soli fini della garanzia dell’interesse pubblico al corretto e regolare svolgimento delle funzioni giurisdizionali, del prestigio dell’ordine giudiziario nonchè della tutela del diritto di difesa della persona incolpata. L’assimilazione del procedimento disciplinare ad un procedimento di tipo giurisdizionale sarebbe stata effettuata dalla Corte "ai limitati fini" della legittimazione a sollevare il giudizio in via incidentale sulla legittimità costituzionale delle norme che la Sezione disciplinare é tenuta ad applicare nel corso del procedimento. Le norme che attribuiscono carattere giurisdizionale al procedimento disciplinare non configurerebbero una violazione delle norme costituzionali relative al divieto di istituzione di giudici speciali, proprio perchè non introdurrebbero con legge ordinaria un organo ad hoc, ma si limiterebbero a trasferire al Consiglio superiore della magistratura lo svolgimento di un’attività già prevista con dettagliata disciplina dall’ordinamento giudiziario previgente alla norma costituzionale.

In definitiva, il riconoscimento della legittimazione a proporre conflitto di attribuzione alla Sezione disciplinare implicherebbe l’individuazione, accanto al plenum del Consiglio superiore della magistratura, di un ulteriore organo autonomo, che invece i Costituenti non hanno introdotto ed al quale non hanno espressamente attribuito la competenza.

Il difetto di legittimazione soggettiva della Sezione disciplinare si manifesterebbe in particolare sul piano processuale: nel caso, la decisione di proporre il conflitto sarebbe spettata al collegio, e questo avrebbe dovuto essere rappresentato, nel processo costituzionale, dal suo Presidente che – quale espressione di unità dell’organo – avrebbe dovuto presentare, in tale veste, anche formalmente, il ricorso.

Quanto al merito del conflitto, il Senato nota che la deliberazione dell’Assemblea ha recepito in modo completo e senza alcuna voce di dissenso la proposta della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari. La dichiarazione di insindacabilità si collegherebbe in modo implicito, ma chiaramente ricavabile dalla relazione della Giunta, alla tutela della posizione di indipendenza che il parlamentare deve acquisire rispetto agli organi con i quali, prima dell’assunzione delle funzioni di parlamentare, ha stabilito e mantenuto un rapporto di servizio. Nel caso di specie la dichiarazione di insindacabilità implicherebbe il riconoscimento di un diritto del parlamentare, strettamente connesso con il suo status, e cioé quello di interpretare liberamente il suo ruolo di rappresentante del corpo elettorale, scindendo in modo totale questa sua attività – in applicazione del principio di libertà del mandato di cui all’art. 67 della Costituzione ed in attuazione del diritto di cui all’art. 51, terzo comma, della Costituzione – dal permanere formale dell’appartenenza all’ordine giudiziario ed all’ufficio rispetto al quale si é verificata la situazione di aspettativa. L’interpretazione della irresponsabilità parlamentare dovrebbe essere in altri termini estesa – nel caso di specie – alla tutela della posizione del parlamentare e dei suoi comportamenti, come espressione dell’autonomia delle Camere nei confronti dei poteri o degli organi dai quali eventualmente il parlamentare possa dipendere.

4.– Nell’imminenza dell’udienza pubblica del 9 aprile 2002, la ricorrente Sezione disciplinare ha presentato una memoria illustrativa, depositando alcuni documenti e insistendo per l’accoglimento delle conclusioni formulate nell’ordinanza-ricorso introduttiva del conflitto.

In rito, la memoria sottolinea, da una parte, la configurabilità della Sezione disciplinare come organo giurisdizionale a tutti gli effetti (preesistendo tale organo alla Costituzione ed essendo stato sottoposto a revisione dalla legge n. 195 del 1958), e la conseguente spettanza ad esso del potere di difendere le proprie attribuzioni in sede di conflitto tra poteri dello Stato; dall’altra, la legittimazione processuale della stessa Sezione a proporre ricorso per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato.

Nel merito, la memoria afferma la sindacabilità in sede disciplinare dei comportamenti del senatore Giorgianni oggetto della delibera di insindacabilità, in quanto non sarebbero opinioni espresse nell’esercizio di funzioni parlamentari quelli che, in fatto e in diritto, sono soltanto inadempimenti di elementari doveri di un magistrato che il collocamento in aspettativa (prima, ma anche dopo l’elezione) non fa venire meno.

Infatti, tali comportamenti commissivi ed omissivi sarebbero stati posti in essere dal dott. Giorgianni prima della sua elezione a senatore della Repubblica; ed anche quando fossero stati posti in essere in epoca posteriore, ad essi non si applicherebbe comunque l’art. 68, primo comma, della Costituzione, poichè il collocamento in aspettativa del magistrato non recide il legame con l’amministrazione di appartenenza, nè fa venire meno l’obbligo di informare i colleghi succeduti nell’incarico e di consegnare loro tutti i files contenenti documenti istruttori. Inoltre, secondo la recente giurisprudenza costituzionale, ai fini dell’affermazione dell’insindacabilità parlamentare non sarebbe sufficiente che i fatti contestati costituiscano genericamente "attività politica", e quindi cadrebbero, anche sotto questo profilo, gli argomenti del Senato.

5.– Ha depositato memoria anche il Senato della Repubblica, insistendo affinchè la Corte dichiari inammissibile il ricorso e comunque accerti che spetta al Senato dichiarare che le opinioni espresse dal senatore Giorgianni, oggetto del procedimento disciplinare, sono assistite dalla garanzia dell’insindacabilità.

In punto di ammissibilità del conflitto, secondo il resistente non si può ritenere nè che la Sezione disciplinare sia assimilabile ad un organo giurisdizionale, anche alla luce della pregressa giurisprudenza costituzionale; nè che la stessa sia configurabile come articolazione funzionalmente autonoma del Consiglio superiore della magistratura, titolare dell’attribuzione costituzionale relativa all’adozione dei provvedimenti disciplinari, a causa del profilo unitario e complessivo dell’organo, che solo in quanto tale potrebbe porsi in diretta relazione con gli altri organi previsti o presupposti dalla Costituzione; nè, infine, che la Sezione sia in grado di rappresentare il Consiglio superiore nel giudizio costituzionale.

Nel merito, il Senato nota che la teoria del "nesso funzionale" non escluderebbe aprioristicamente nè che si possa prescindere dalla "sede" parlamentare, nè che le funzioni del parlamentare possano essere valutate nel complesso del sistema democratico-rappresentativo. I comportamenti del senatore Giorgianni, di chiaro significato politico, in definitiva, sarebbero espressione di una puntuale e legittima opinione sul rapporto che sussiste tra mandato parlamentare, da un lato, e aspettativa dal servizio di magistrato, dall’altro.

Considerato in diritto

1.– La Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, investita di un procedimento disciplinare nei confronti di un magistrato della Procura della Repubblica di Messina, all’epoca in aspettativa perchè candidato e poi eletto al Parlamento, ha sollevato conflitto di attribuzioni nei confronti del Senato della Repubblica chiedendo l’annullamento della deliberazione del 29 luglio 1999 con la quale l’assemblea ha dichiarato che i fatti, oggetto di alcuni dei capi di incolpazione a carico di detto magistrato, concernono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni, e ricadono pertanto nell’ambito della insindacabilità di cui all’articolo 68, primo comma, della Costituzione.

La deliberazione del Senato si riferisce a tre dei capi di incolpazione a carico del magistrato, concernenti, rispettivamente, l’addebito di avere omesso di informare i colleghi che lo avrebbero sostituito nella conduzione di un processo sullo stato del procedimento medesimo e di avere disposto la cancellazione dai computer di dati relativi a detto processo; l’addebito di avere frequentato con carattere di continuità una persona da ritenersi di dubbia fama in considerazione dei suoi precedenti penali e giudiziari; e quello di avere reso alla Commissione parlamentare antimafia, in sede di inchiesta relativa ai predetti rapporti, dichiarazioni non corrispondenti alla effettiva realtà.

La Sezione ritiene che il nesso funzionale fra l’attività oggetto del giudizio disciplinare e l’esercizio del mandato parlamentare sussista solo per il terzo dei ricordati addebiti (dichiarazioni alla Commissione antimafia) e non sussista invece riguardo ai fatti oggetto degli altri due addebiti, affermando che spetta all’organo disciplinare stabilire se il magistrato incolpato non avesse alcun obbligo di collaborazione con i colleghi dell’ufficio prima della sua elezione a senatore, e se egli abbia ostacolato di fatto il normale svolgimento delle indagini, come pure accertare se sia censurabile la ipotizzata frequentazione, risalente ad epoca anteriore all’elezione in Parlamento, di un personaggio definito "di dubbia fama". Essa dunque solleva conflitto di attribuzioni impugnando la deliberazione del Senato limitatamente ai due capi concernenti tali addebiti.

2.– Deve essere in primo luogo esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla difesa del Senato per carenza di legittimazione attiva della Sezione ricorrente: eccezione basata sull’assunto che, spettando il potere disciplinare sui magistrati al Consiglio superiore della magistratura, il ricorso per conflitto avrebbe dovuto essere deliberato non dalla Sezione disciplinare, ma dal plenum del Consiglio, e avrebbe dovuto essere sottoscritto dal Presidente, o per sua delega dal vice presidente di questo, anzichè dal presidente della Sezione.

L’eccezione non merita accoglimento.

L’articolo 105 della Costituzione attribuisce i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati alla competenza del Consiglio superiore della magistratura, ed é quindi effettivamente in capo a questo organo che si colloca l’attribuzione in contestazione.

Questa Corte ha però da tempo affermato che la Costituzione, regolando solo parzialmente la composizione del Consiglio superiore della magistratura (di cui indica i tre membri di diritto, mentre per i membri elettivi si limita a stabilire la proporzione fra componenti "togati" e "laici": articolo 104, secondo, terzo e quarto comma) ed il suo funzionamento (a cui riguardo prevede solo l’elezione di un vicepresidente fra i componenti eletti dal Parlamento: articolo 104, quinto comma), lascia al legislatore ordinario ampi spazi di discrezionalità nella disciplina dell’organizzazione interna del Consiglio, e non esclude che esso possa operare, nell’esercizio delle attribuzioni disciplinari, anzichè in assemblea plenaria, in una composizione più ristretta, pur sempre rispettosa dei criteri e degli equilibri sanciti dall’articolo 104 (sentenza n. 12 del 1971; e cfr. anche sentenza n. 52 del 1998).

La legge dunque, nel prevedere la Sezione disciplinare e nel regolarne la composizione ed il funzionamento (artt. 4, 5 e 6 della legge 24 marzo 1958, n. 195, e successive modificazioni), non ha dato vita ad un organo autonomo dal Consiglio superiore della magistratura, nè ha frazionato il "potere" di cui il Consiglio é titolare ed espressione, ma si é limitata a disciplinarne l’organizzazione interna, ferma restando l’unicità del potere medesimo.

L’esercizio della potestà disciplinare attribuita al Consiglio superiore é stato poi configurato – per le ragioni più volte messe in luce da questa stessa Corte (cfr. sentenze n. 145 del 1976, n. 289 del 1992, n. 71 del 1995 e n. 497 del 2000) – con caratteri formalmente giurisdizionali, il che si riflette, fra l’altro, sulle modalità di funzionamento della Sezione disciplinare (composizione fissa, con sostituzione dei componenti assenti o impediti ad opera dei supplenti: articolo 6, primo, secondo, terzo e quarto comma, della legge n. 195 del 1958 e succ. modif.), e sui caratteri ed il regime delle relative decisioni (qualificate come sentenze, impugnabili davanti alle sezioni unite della Corte di cassazione: art. 37 del r.d.lgs. n. 511 del 1946 e art. 17, terzo comma, della legge n. 195 del 1958).

Per ritenere sussistente la legittimazione a proporre conflitto di attribuzione, é dunque sufficiente constatare, da un lato, che l’attribuzione che si suppone lesa dalla delibera del Senato é una di quelle spettanti al Consiglio superiore della magistratura in base all’articolo 105 della Costituzione; e, dall’altro lato, che la Sezione disciplinare é competente a "dichiarare definitivamente la volontà" del potere cui appartiene – vale a dire del Consiglio superiore – in quanto le sue determinazioni in materia disciplinare sono insuscettibili di qualsiasi revisione o avocazione da parte del plenum, e costituiscono piena e definitiva espressione della potestà disciplinare attribuita dalla Costituzione.

Nè può porsi un problema di legittimazione a sottoscrivere il ricorso, posto che, nella specie, questo é sottoscritto da chi, nello stesso tempo, era vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura e presidente del collegio giudicante che ha deliberato di sollevare il conflitto.

3.– Nel merito, il ricorso é fondato.

I comportamenti addebitati al magistrato incolpato, e oggetto del conflitto, non sono qualificabili come "opinioni" (nè tanto meno come "voti") espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari, e non possono dunque essere ricondotti in alcun modo alla sfera della insindacabilità garantita dall’articolo 68, primo comma, della Costituzione.

Ciò vale, anzitutto, per le condotte omissive e commissive descritte nel capo 2, lett. a e b, dell’incolpazione, consistenti rispettivamente nell’avere omesso di informare i colleghi, chiamati a sostituire il magistrato incolpato nella conduzione di un procedimento, sullo stato del procedimento medesimo, e nell’avere disposto la cancellazione di dati da computer utilizzati dal magistrato e dai suoi collaboratori, creando così un oggettivo danno alla futura conduzione di detto procedimento.

Stabilire se e in che limiti la cessazione dell’attività, conseguente al collocamento del magistrato in aspettativa, prima in vista della presentazione della candidatura al Parlamento, poi a seguito dell’elezione, e il conseguente dovere di astensione da ogni interferenza del candidato e dell’eletto nelle attività giudiziarie dell’ufficio di provenienza, possano condurre ad escludere in concreto la violazione di un dovere di diligenza e di collaborazione, é questione di merito da risolversi nell’ambito del procedimento disciplinare.

Quale che fosse l’eventuale convinzione del magistrato eletto in Parlamento circa la sussistenza o i limiti di tale dovere di collaborazione, e quindi quali che fossero le ragioni che hanno determinato le condotte a lui addebitate in sede disciplinare, queste ultime sono, in ipotesi, contrarie ad un dovere di collaborazione collegato esclusivamente allo status di magistrato, sia pure in aspettativa, e non potrebbero certo qualificarsi come esercizio, in forma di espressione di opinione, della funzione parlamentare. Tanto meno ciò potrebbe dirsi per condotte tenute dal magistrato – come, almeno in parte, si ipotizza nella specie – prima dell’elezione, sia pure nel periodo in cui egli era collocato in aspettativa per la candidatura all’elezione parlamentare, e quindi quando non rivestiva ancora lo status di parlamentare.

4.– Alla medesima conclusione deve giungersi anche con riguardo all’altro addebito in contestazione, relativo alla frequentazione non occasionale – risalente, secondo la Sezione ricorrente e secondo il capo di incolpazione, ad epoca anteriore alla elezione del magistrato al Senato della Repubblica – di persona da ritenersi di dubbia fama in considerazione dei suoi precedenti penali e giudiziari. Si tratta, ancora una volta, di condotta – già di per sè non agevolmente qualificabile come espressione di un’opinione – addebitata e addebitabile esclusivamente in relazione allo status di magistrato e ai connessi doveri, e in nessun modo riconducibile, invece, alle funzioni di membro del Parlamento successivamente assunte dal magistrato medesimo.

Non viene nemmeno qui in considerazione il quesito, se in capo al magistrato eletto in Parlamento possa ipotizzarsi la permanenza di qualcuno dei doveri collegati allo status di magistrato tuttora rivestito: nella specie, infatti, ciò di cui si discute é l’ipotesi di una violazione di tali doveri nel periodo in cui l’interessato non aveva ancora assunto la qualità di membro del Parlamento.

In ogni caso, dunque, sia per i caratteri materiali della condotta addebitata, sia – decisivamente – per la sua inerenza ad un periodo anteriore all’assunzione dello status di parlamentare, essa non può ricondursi all’ambito della insindacabilità garantita dall’articolo 68, primo comma, della Costituzione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara che non spetta al Senato della Repubblica dichiarare che i fatti, oggetto di addebito disciplinare, di cui ai capi di incolpazione n. 2, lettere a e b, e n. 4, nel procedimento disciplinare pendente nei confronti del magistrato dott. Angelo Giorgianni davanti alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, concernono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’articolo 68, primo comma, della Costituzione; e conseguentemente

b) annulla la deliberazione del Senato della Repubblica, in data 29 luglio 1999, con cui si dichiara che i fatti addebitati al senatore Giorgianni concernono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni, limitatamente alla parte in cui si riferisce ai fatti di cui al precedente capo a).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 giugno 2002.

Cesare RUPERTO, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2002.