ORDINANZA N.186
ANNO 2001
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare RUPERTO, Presidente
- Fernando SANTOSUOSSO
- Massimo VARI
- Riccardo CHIEPPA
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 226 e 229 del codice penale militare di pace, in relazione all’art. 260 dello stesso codice, promosso con ordinanza emessa il 19 luglio 2000 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Torino nel procedimento penale a carico di M. M., iscritta al n. 720 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2000.
Udito nella camera di consiglio del 4 aprile 2001 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che, con ordinanza emessa il 19 luglio 2000 (r.o. n. 720 del 2000), il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 52, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 226 e 229 del codice penale militare di pace, in riferimento all’art. 260 dello stesso codice, nella parte in cui non prevedono che i reati, rispettivamente, di ingiuria e di minaccia commessi da un militare in danno di altro militare siano puniti, oltre che a richiesta del comandante del corpo o di altro ente superiore da cui dipende il militare colpevole, anche a querela della persona offesa;
che il rimettente premette di essere investito della richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero in rapporto ai reati di ingiuria e di minaccia (artt. 226 e 229 del codice penale militare di pace) ascritti ad un militare a seguito di denuncia-querela di altro militare: richiesta basata esclusivamente sulla mancanza della richiesta di procedimento del comandante di corpo della persona sottoposta alle indagini, prevista dall’art. 260 del codice penale militare di pace come condizione di procedibilità relativamente ai reati per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione militare non superiore nel massimo a sei mesi (quali quelli indicati);
che, ad avviso del rimettente, la previsione della punibilità dei fatti criminosi in esame esclusivamente a richiesta del comandante di corpo, e non anche a querela della persona offesa, comprometterebbe il principio di "permeabilizzazione" dell’ordinamento delle Forze armate allo spirito e ai valori democratici dello Stato, sancito dall’art. 52, terzo comma, della Costituzione, essendo le valutazioni del comandante ispirate ad una logica "istituzionalistica" di tutela dell’"immagine del reparto", intesa quale valore comunque prevalente sui diritti della persona tutelati dalle norme incriminatici dell’ingiuria e della minaccia;
che le disposizioni impugnate si porrebbero altresì in contrasto con l’art. 24 della Costituzione, in quanto la scelta del comandante di corpo di mantenere "segretato" l’illecito nell’ambito della caserma, astenendosi dal proporre la richiesta di procedimento, impedirebbe alla parte offesa di esercitare il proprio diritto al risarcimento del danno nel processo penale mediante la costituzione di parte civile, consentita anche davanti ai tribunali militari a seguito della declaratoria di incostituzionalità, con sentenza di questa Corte n. 60 del 1996, dell’art. 270, primo comma, del codice penale militare di pace;
che risulterebbe violato, infine, l’art. 3 della Costituzione, a fronte della irragionevole disparità di trattamento tra la persona offesa dai reati militari di ingiuria e minaccia e quella offesa dai corrispondenti reati comuni (artt. 594 e 612 cod. pen.), la quale, mediante la proposizione della querela, può dar corso all’azione penale senza preclusioni di sorta.
Considerato che questa Corte ha di recente ritenuto manifestamente infondate questioni di legittimità costituzionale coincidenti nella sostanza con quella odierna, ancorchè aventi ad oggetto norme incriminatrici in parte diverse (cfr. ordinanze nn. 410 e 562 del 2000);
che, nell’occasione, la Corte — confermando la propria costante giurisprudenza — ha in particolare ribadito come l’istituto della querela, non previsto attualmente in rapporto ad alcuno fra i reati militari, debba ritenersi con essi incompatibile, stante l’offesa alla disciplina e al servizio, e dunque ad un interesse eminentemente pubblico, che caratterizza tali fattispecie criminose (v. anche, da ultimo, ordinanze nn. 415, 563, 588 del 2000);
che, in questa prospettiva, l’attribuzione al comandante di corpo, tramite l’istituto della richiesta di procedimento, della facoltà di scelta tra l’adozione di provvedimenti di natura disciplinare e il ricorso all’ordinaria azione penale, non può ritenersi in contrasto con il principio informatore dell’ordinamento delle Forze armate — identificato dall’art. 52, terzo comma, della Costituzione nello spirito democratico della Repubblica — trattandosi di scelta che mira ad adeguare al caso concreto la risposta dell’ordinamento militare, stante l’esistenza di casi nei quali, per la scarsa gravità del reato, l’esercizio incondizionato dell’azione penale rischierebbe di causare un pregiudizio proporzionalmente maggiore di quello prodotto dal reato stesso;
che va escluso, altresì, che l’impedimento alla costituzione di parte civile nel processo relativo al reato militare, conseguente alla mancata proposizione della richiesta da parte del comandante, comporti una violazione del diritto di difesa, giacchè il soggetto danneggiato dispone di mezzi di tutela giudiziaria alternativi, e segnatamente della facoltà di esercitare, senza alcun ostacolo, l’azione risarcitoria nella sua sede naturale, ossia davanti al giudice civile;
che neppure, da ultimo, é ravvisabile una lesione del principio di uguaglianza, in quanto la diversità di trattamento rilevata dal giudice a quo trova giustificazione nella peculiare posizione del cittadino inserito nell’ordinamento militare — caratterizzato da specifiche regole di natura cogente — rispetto a quella della generalità dei cittadini.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 226 e 229 del codice penale militare di pace, in relazione all’art. 260 del medesimo codice, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 52, terzo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Torino con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 giugno 2001.
Cesare RUPERTO, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Depositata in Cancelleria l'8 giugno 2001.