ORDINANZA N. 415
ANNO 2000
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare MIRABELLI, Presidente
- Francesco GUIZZI
- Massimo VARI
- Cesare RUPERTO
- Riccardo CHIEPPA
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 230, primo comma, del codice penale militare di pace promossi con ordinanze emesse il 10 novembre 1999 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Torino, l’8 ottobre 1999 dal Tribunale militare di La Spezia, il 13 gennaio 2000 dal Tribunale militare di Roma e l’11 novembre 1999 dal Tribunale militare di La Spezia, rispettivamente iscritte al n. 737 del registro ordinanze 1999 ed ai nn. 2, 51 e 127 del registro ordinanze 2000 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 3, 5, 9 e 15, prima serie speciale, dell’anno 2000.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 5 luglio 2000 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Torino, il Tribunale militare di La Spezia ed il Tribunale militare di Roma, con le ordinanze in epigrafe, hanno sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 230, primo comma, del codice penale militare di pace, nella parte in cui non prevede che il delitto di furto militare commesso in danno di militare sia punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra una o più delle circostanze previste dall’art. 61 numero 7 del codice penale o dall’art. 231 del codice penale militare di pace;
che i rimettenti pongono, a base della sollevata questione, il rilievo della disparità di trattamento venutasi a creare tra il furto comune ed il furto militare in conseguenza della modifica apportata all’art. 624 cod. pen. dall’art. 12 della legge 25 giugno 1999, n. 205 (Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario), per effetto della quale il furto comune, non aggravato ai sensi degli artt. 61 numero 7 e 625 cod. pen., é divenuto perseguibile a querela;
che, ad avviso dei giudici a quibus, la mancata estensione del medesimo regime al furto militare comporterebbe una violazione del principio di uguaglianza, attesa la sostanziale identità strutturale tra le due fattispecie criminose e l’inidoneità degli elementi specializzanti, propri del reato militare — qualità di militare dell’agente e della persona offesa, natura parimenti militare del luogo di commissione dell’illecito — a giustificare una divergenza di disciplina sul piano della perseguibilità;
che il riequilibrio del sistema non implicherebbe, d’altro canto, scelte "creative", rientranti nella discrezionalità del legislatore, in quanto l’art. 61 numero 7 cod. pen. é direttamente applicabile al furto militare in virtù dell’art. 16 cod. pen., mentre l’art. 625 cod. pen. trova nella legislazione penale militare un puntuale pendant nell’art. 231 del codice penale militare di pace;
che in tre dei quattro giudizi é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la declaratoria di inammissibilità o infondatezza della questione.
Considerato che questa Corte ha da tempo chiarito come il regime della perseguibilità a querela — non previsto attualmente in rapporto ad alcuno fra i reati militari — debba ritenersi con essi incompatibile: e ciò in quanto "nei reati militari é sempre insita un’offesa alla disciplina e al servizio, una lesione quindi di un interesse eminentemente pubblico che non tollera subordinazione all’interesse privato caratteristico della querela" (cfr. sentenze nn. 449 del 1991, 189 del 1976 e 42 del 1975, nonchè ordinanze nn. 229 e 467 del 1988);
che ad una revisione di tale orientamento non induce l’argomento — svolto nelle due ordinanze di rimessione del Tribunale militare di La Spezia — secondo cui l’istituto della querela sarebbe, in realtà, contemplato dall’art. 269 del codice penale militare di pace, il quale, nel sancire il principio dell’officialità dell’azione penale per i reati soggetti alla giurisdizione militare, fa espressamente salvi i casi in cui sia "necessaria la querela";
che, infatti, l’accennato riferimento alla querela si giustificava — secondo quanto inequivocamente emerge dai lavori preparatori e come lo stesso giudice a quo del resto riconosce — esclusivamente in contemplazione dell’eventualità (configurabile all’epoca dell’emanazione del codice penale militare di pace) che un reato comune venisse sottoposto alla giurisdizione militare per ragioni di connessione con un reato militare; nè, per la considerazione che precede, può ipotizzarsi una diversa interpretazione "di tipo oggettivo" dell’inciso, svincolata dalla sua ratio storica, quale quella prospettata dal rimettente;
che l’estraneità della querela al diritto penale militare impedisce pertanto di ravvisare profili di irragionevolezza nella disparità di trattamento fra le due ipotesi poste a confronto.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale;
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 230, primo comma, del codice penale militare di pace, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Torino, dal Tribunale militare di La Spezia e dal Tribunale militare di Roma con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso, in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 luglio 2000.
Cesare MIRABELLI, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Depositata in cancelleria il 31 luglio 2000.