ORDINANZA N.141
ANNO 2001
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Cesare RUPERTO Presidente
- Fernando SANTOSUOSSO Giudice
- Massimo VARI "
- Riccardo CHIEPPA "
- Gustavo ZAGREBELSKY "
- Valerio ONIDA "
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 151 del codice penale militare di pace, promosso con ordinanza emessa il 6 ottobre 1999 dal Tribunale militare di Torino nel procedimento penale a carico di L. C., iscritta al n. 42 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2000.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 7 febbraio 2001 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.
Ritenuto che, con ordinanza del 6 ottobre 1999, il Tribunale militare di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 151 del codice penale militare di pace (Mancanza alla chiamata), "nella parte in cui non prevede che sia punibile solo il militare che, chiamato alle armi per adempiere il servizio di leva, mediante cartolina precetto, non si presenta senza giusto motivo nei cinque giorni successivi a quello prefissato";
che, in fatto, il rimettente riferisce che nel giudizio di merito si procede per il reato di cui all’art. 151 citato nei confronti di un soggetto che, essendo stato chiamato alle armi mediante pubblici manifesti, non si é presentato, senza giusto motivo, all’autorità militare entro i cinque giorni successivi a quello prefissato; si precisa inoltre nell’ordinanza di rinvio che l’interessato, il quale non é mai stato raggiunto da cartolina-precetto, una volta informato personalmente della chiamata, pochi giorni dopo la scadenza del termine anzidetto, si é presentato ed é stato incorporato;
che - osserva il Tribunale – la fattispecie del reato per il quale é in corso il procedimento penale deve dunque, nella specie, ritenersi perfezionata in base alla vigente disciplina: essa richiede la chiamata, atto amministrativo ricettizio che deve essere portato a conoscenza dell’interessato, attraverso uno dei due possibili mezzi previsti dall’ordinamento, cioé la precettazione mediante cartolina, o la pubblicazione attraverso manifesto; ma la funzione della cartolina, anche secondo l’interpretazione della giurisprudenza, non é quella di realizzare l’effetto giuridico della conoscenza della chiamata, bensì quella più limitata di agevolare l’effettiva conoscenza della chiamata medesima, che é giuridicamente efficace, nei confronti dei destinatari, in conseguenza della semplice pubblicazione del relativo manifesto, secondo quanto dispone l’art. 543, secondo comma, del regio decreto 3 aprile 1942, n. 1133 (Parte seconda del regolamento per la esecuzione del Testo Unico delle disposizioni legislative sul reclutamento del regio esercito, approvato con r.d. 24 febbraio 1938, n. 329);
che la suddetta disciplina - prosegue il giudice a quo - si riconnette alla previsione contenuta nell’art. 39 cod. pen. mil. pace, secondo cui "il militare non può invocare a propria scusa l’ignoranza dei doveri inerenti al suo stato militare": norma di sfavore per il militare, rispetto a quanto stabilito in genere dal codice penale in tema di errore su legge diversa dalla legge penale (art. 47 cod. pen.), finalizzata a evitare incertezze nell’applicazione delle norme incriminatrici proprio in ipotesi come quella in esame, in modo da rendere irrilevante ai fini penali ogni accertamento sulla concreta conoscibilità del manifesto;
che, ad avviso del rimettente, l’eccessivo rigore derivante dall’applicazione congiunta degli artt. 151 e 39 cod. pen. mil. pace ha determinato un duplice intervento della Corte costituzionale: a) una prima volta, con la sentenza - interpretativa di rigetto - n. 325 del 1989, l’ignoranza del soggetto circa il dovere di presentarsi in forza del solo manifesto di chiamata, alla luce del principio costituzionale della natura personale della responsabilità penale, é stata ricondotta all’area dell’errore di fatto, ex art. 47 cod. pen., errore che ha efficacia scusante; b) una seconda volta, stanti le resistenze della giurisprudenza a recepire e svolgere l’indirizzo della prima decisione, con la sentenza n. 61 del 1995 - originata da una vicenda del tutto analoga alla presente - l’art. 39 citato é stato dichiarato incostituzionale "nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza dei doveri inerenti allo stato militare l’ignoranza inevitabile" e, in tal modo, con una prescrizione di carattere generale, é stato posto un criterio che consente, se del caso, di rendere scusabile l’ignoranza dei doveri derivanti dalla pubblicazione del manifesto di chiamata alla leva;
che però - osserva il Tribunale militare - neppure questa seconda pronuncia ha portato a un mutamento negli orientamenti della giurisprudenza comune, che ha continuato a pronunciare condanne nei riguardi chi non si fosse presentato alla chiamata avvenuta mediante pubblici manifesti, e ciò in conseguenza di una lettura riduttiva del principio enunciato dalla Corte, relegato nell’area delle più variegate e meno conoscibili disposizioni regolamentari che variamente fondano i doveri propri dello status militare; si sarebbe dunque perpetuata, nella applicazione corrente, un’interpretazione della disciplina vigente secondo la quale il dolo sarebbe in generale presunto e ogni contrario accertamento sarebbe reso pressochè impossibile;
che, in tale contesto, il Tribunale militare di Torino ritiene che sia necessario un ulteriore intervento della Corte costituzionale, ma non più sull’art. 39 cod. pen. mil. pace, nè sul citato art. 543 del r.d. n. 1133 del 1942 che ha natura di norma regolamentare, bensì direttamente sulla disposizione incriminatrice dell’art. 151 cod. pen. mil. pace, attraverso un intervento additivo che includa, nella struttura oggettiva del fatto di reato, la necessità della chiamata alla leva "mediante cartolina precetto": solo attraverso una pronuncia in tal senso, ad avviso del rimettente, sarebbe possibile pervenire all’eliminazione dei plurimi profili di incostituzionalità che la disciplina in argomento tuttora presenterebbe, consistenti: a) nella violazione del principio di uguaglianza, a sfavore di talune categorie di militari (gli arruolati nell’esercito o nell’aeronautica) nel raffronto con quanto previsto per gli arruolati nella marina, per i quali l’art. 63 del d.P.R. 14 febbraio 1964, n. 237 [recte: l’art. 15 della legge 31 maggio 1975, n. 191, che lo ha sostituito], prevede l’obbligo di presentazione secondo le indicazioni contenute nel precetto personale di chiamata alla leva; b) nella violazione del canone di ragionevolezza, giacchè, a fronte della pretesa statuale di una prestazione così gravosa e "totalizzante" come il servizio militare, tale da sospendere rapporti lavorativi e legami personali, non solo l’amministrazione non assume l’onere di informare personalmente l’interessato, ma addirittura l’ordinamento prevede una sanzione penale, giustificabile solo qualora il soggetto venisse concretamente ed effettivamente edotto dell’obbligo; c) nella violazione dell’art. 27, primo comma, della Costituzione, che delinea, anche alla luce della sentenza n. 364 del 1988 della Corte costituzionale, il principio della responsabilità "personale" e "colpevole";
che per tale ultimo profilo, in particolare, il rimettente sottolinea in punto di fatto la prassi costante di consegnare all’arruolato inviato in congedo illimitato provvisorio un foglio recante una serie di avvertenze, tra le quali una recita: "i militari in congedo illimitato provvisorio quando riceveranno la cartolina precetto di chiamata alle armi dovranno presentarsi muniti del presente foglio di congedo illimitato provvisorio ... all’ente indicato nell’ordine stesso"; una simile avvertenza sarebbe tale da ingenerare nel destinatario la ragionevole convinzione di doversi presentare solo a seguito della consegna della cartolina precetto, e non a seguito della pubblicazione del manifesto di chiamata alle armi, e ciò potrebbe condurre a ritenere "inevitabile" l’ignoranza del disposto dell’art. 543 del citato r.d. n. 1133 del 1942, posto che é la stessa amministrazione militare, con simile "avvertenza", a determinare negli interessati l’erronea convinzione di doversi presentare solo a seguito della ricezione della cartolina precetto, ciò che potrebbe condurre nei casi concreti a una pronuncia di assoluzione per difetto dell’elemento psicologico del reato;
che però - conclude il rimettente - é pur sempre necessario chiedere, per via di una sentenza additiva di incostituzionalità, la delimitazione obiettiva della punibilità per il reato di mancanza alla chiamata, da ravvisare nelle sole ipotesi in cui il militare abbia avuto effettiva conoscenza della cartolina precetto, ed é in tale richiesta che il rimettente individua altresì la rilevanza della questione sollevata: dall’accoglimento di essa, infatti, a) si perverrebbe, nella specie, a una assoluzione dell’imputato per insussistenza del fatto (per mancanza di un elemento del reato) anzichè a una assoluzione per mancanza dell’elemento psicologico, e b) "in astratto", si ricondurrebbe l’interpretazione e l’applicazione dell’art. 151 impugnato ai principi fondativi del sistema penale, contro le persistenti resistenze giurisprudenziali a svolgere le indicazioni della giurisprudenza costituzionale;
che é intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, tramite l’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo una pronuncia di inammissibilità o di infondatezza della questione.
Considerato che il Tribunale militare di Torino chiede a questa Corte un intervento di carattere additivo sull’art. 151 cod. pen. mil. pace, consistente nell’inserimento, nella descrizione tipica del fatto di reato, dell’elemento secondo cui la chiamata alle armi per adempiere il servizio di leva deve avvenire "mediante cartolina precetto"; un intervento, quello richiesto, per effetto del quale la mancanza di tale specifica forma di comunicazione degli obblighi di leva ai destinatari renderebbe obiettivamente irrilevanti sul piano penale casi - come quello che nella specie é devoluto al giudizio dello stesso rimettente - in cui la chiamata per adempiere l’obbligo della prestazione militare é effettuata solo tramite manifesto, a norma del tuttora vigente art. 543 del regio decreto 3 aprile 1942, n. 1133, che - dopo la regola di genere contenuta nel suo primo comma, secondo cui "a ciascuna recluta che deve presentarsi alle armi i comandi trasmettono per posta, qualche giorno prima di quello stabilito per la presentazione, apposita cartolina precetto" - dispone, nel secondo comma, che gli arruolati "che non ricevessero tale cartolina precetto o che la ricevessero in ritardo, devono ugualmente presentarsi nei giorni stabiliti dal manifesto, la cui pubblicazione vale per essi come precetto personale";
che la necessità di un siffatto intervento sulla disposizione incriminatrice é sostenuta dal giudice rimettente essenzialmente in base al rilievo della posizione assunta dai giudici militari di merito i quali, dopo la prima pronuncia interpretativa in materia della Corte costituzionale (sentenza n. 325 del 1989) e anche dopo la dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 39 cod. pen. mil. pace in quanto non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza dei doveri militari l’ignoranza inevitabile (sentenza n. 61 del 1995), avrebbero assegnato alle suddette decisioni costituzionali una portata riduttiva, riferita all’ignoranza dei doveri derivanti dalle più svariate disposizioni regolamentari ma non a quella del dovere di prestazione derivante dal manifesto di chiamata alla leva, perpetuandosi così la condanna di soggetti non presentatisi alla chiamata avvenuta – solo – per pubblici manifesti;
che, secondo questa impostazione, la rilevanza della questione sollevata é argomentata dal Tribunale militare a) sia facendo valere l’esigenza di una causa idonea a escludere la punibilità sul piano oggettivo, per non dovere più svolgere un accertamento circa le conseguenze sull’elemento soggettivo dell’ignoranza della chiamata tramite manifesto, e b) sia per ricondurre l’interpretazione della giurisprudenza nel suo complesso a coerenza con gli enunciati della giurisprudenza costituzionale;
che con la sentenza n. 61 del 1995 questa Corte ha statuito riguardo all’allora perdurante (nonostante la precedente pronuncia interpretativa di rigetto n. 325 del 1989) problema del rilievo da darsi all’errore dell’agente circa la prescrizione (art. 543 del r.d. n. 1133 del 1942) relativa al dovere di presentazione alle armi sulla base del manifesto di leva, dunque riguardo all’ignoranza della norma da cui deriva nei singoli casi l’obbligo di prestazione del servizio;
che nella citata decisione si é affermato che, indipendentemente dalla disamina sul "tipo" di errore in questione, una volta venuto meno il dogma della presunzione assoluta di conoscenza della legge penale in senso stretto (sentenza n. 364 del 1988, relativa all’art. 5 cod. pen.), a maggior ragione l’ignoranza o l’errore sul presupposto normativo delle fattispecie incriminatrici non possono non assumere efficacia scusante ogni volta che siano dipesi da cause che li hanno resi inevitabili e, su questa premessa, é stata dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 39 cod. pen. mil. pace in quanto tramite esso veniva posta una preclusione assoluta al rilievo dell’ignoranza – o dell’errore – circa la fonte normativa secondaria che fonda il dovere di presentazione, cioé proprio l’art. 543 più volte richiamato;
che con la suddetta decisione costituzionale questa Corte ha esplicitamente inteso risolvere definitivamente "un problema di fondo cui la giurisprudenza di questa Corte non [aveva sino ad allora] offerto adeguata soluzione", il problema del "rilievo che può assumere l’ignoranza della norma da cui promana il "dovere in astratto"", e ciò in risposta a una questione di costituzionalità sostanzialmente coincidente con quella ora all’esame di questa Corte, perchè sollevata – in riferimento ai medesimi parametri costituzionali - in sede di applicazione della norma incriminatrice del fatto di mancanza alla chiamata di cui all’art. 151 cod. pen. mil. pace e, appunto, originata da un caso nel quale l’errore (o l’ignoranza) circa la norma regolamentare concernente la "sufficienza" del manifesto ai fini del dovere di presentazione (art. 543 del r.d. n. 1133 del 1942) era reso incondizionatamente irrilevante dalla disposizione dell’art. 39 citato;
che la dichiarazione di incostituzionalità sopra indicata é dunque idonea a dare soluzione al problema - che il rimettente ripropone - dell’incidenza dell’errore o dell’ignoranza circa la chiamata tramite manifesto rispetto all’elemento psicologico del reato, come del resto lo stesso giudice a quo afferma allorchè argomenta la rilevanza del dubbio di costituzionalità sull’esigenza di passare da una pronuncia di assoluzione per difetto dell’elemento soggettivo (che potrebbe adottare) a una pronuncia omologa ma per difetto di un elemento oggettivo (che vorrebbe adottare); e ciò tanto più ove si ricolleghi il disposto della sentenza n. 61 del 1995 agli enunciati contenuti nella pronuncia n. 364 del 1988 relativamente ai criteri di giudizio circa l’"inevitabilità" dell’ignoranza o dell’errore sulla norma (qui, la norma presupposta), criteri certamente idonei a ricomprendere lo specifico caso dell’induzione in errore determinato da informazioni fuorvianti della stessa amministrazione militare, secondo un profilo in fatto valorizzato del resto anche dall’ordinanza di rimessione da cui ha tratto origine la sentenza n. 61 del 1995;
che, una volta data la possibilità di soluzione del problema sul piano suo proprio dell’elemento soggettivo del reato, non v’é motivo per seguire il ragionamento del giudice rimettente circa l’esigenza di un intervento additivo sulla specifica disposizione incriminatrice, intervento in sè non necessario e semmai rientrante in ambiti di discrezionalità delle scelte legislative;
che, in particolare, non può valere a sostenere la richiesta pronuncia di incostituzionalità l’argomento della persistente riluttanza dei giudici militari a dare compiuta applicazione alla statuizione del 1995 di questa Corte, da un lato perchè non possono avere ingresso questioni costituzionali che siano basate su una impropria o errata applicazione delle norme (per tutte, ordinanza n. 439 del 1998), dall’altro perchè l’asserita esigenza di uniformare l’interpretazione di giudici diversi dal rimettente é palesemente estranea alla logica del controllo di costituzionalità assegnato a questa Corte, risolvendosi nel difetto dell’essenziale requisito della rilevanza del dubbio sollevato rispetto al giudizio dal quale ha origine e dunque in un connotato di astrattezza della questione (per tutte, sentenza n. 286 del 1999);
che, per questo, la sollevata questione di costituzionalità deve essere dichiarata manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 151 del codice penale militare di pace, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dal Tribunale militare di Torino con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 maggio 2001.
Cesare RUPERTO, Presidente
Gustavo ZAGREBELSKY, Redattore
Depositata in Cancelleria il 17 maggio 2001.