ANNO 2000
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare MIRABELLI, Presidente
- Francesco GUIZZI
- Fernando SANTOSUOSSO
- Massimo VARI
- Cesare RUPERTO
- Riccardo CHIEPPA
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 25 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), promossi con due ordinanze emesse il 18 marzo 1999 dal Tribunale per i minorenni di Palermo, con ordinanza emessa il 13 aprile 1999 dal Tribunale per i minorenni di Venezia e con due ordinanze emesse il 2 dicembre 1999 e il 17 febbraio 2000 dal Tribunale per i minorenni di Salerno, iscritte ai nn. 418, 419 e 446 del registro ordinanze 1999 e ai nn. 77 e 179 del registro ordinanze 2000 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 36 e 37, prima serie speciale, dell'anno 1999 e nn. 10 e 17, prima serie speciale, dell'anno 2000.
Visto l'atto di costituzione dell'imputato nel giudizio relativo alla questione sollevata con ordinanza iscritta al n. 446 del registro ordinanze del 1999, nonché gli atti di intervento del Presidente del consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 23 maggio 2000 il Giudice relatore Guido Neppi Modona;
uditi l'avvocato Piero Longo per la parte privata costituita e l'Avvocato dello Stato Giuseppe Stipo per il Presidente del consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza del 13 aprile 1999 (n. 446 del r.o. del 1999), il Tribunale per i minorenni di Venezia, richiesto dalle parti di applicare la pena concordata ex art. 444 del codice di procedura penale, a seguito di eccezione prospettata in via subordinata dal pubblico ministero e dalla difesa, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di costituzionalità dell’art. 25 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizione sul processo penale a carico di imputati minorenni), «nella parte in cui esclude l’applicabilità alla procedura penale minorile delle disposizioni di cui al titolo II del libro VI del cod. proc. pen. ordinario (artt. da 444 a 448 c.p.p.) nel caso in cui l’imputato sia divenuto maggiorenne e non possa godere degli altri benefici previsti nella procedura penale minorile».
Osserva in punto di rilevanza il Tribunale che l’imputato, divenuto maggiorenne nel corso del procedimento, ha precedenti penali che non gli consentono di ottenere la sospensione condizionale della pena né il perdono giudiziale, per cui ha interesse ad accedere al patteggiamento.
Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente rileva, in primo luogo, che il raggiungimento della maggiore età esclude che l’imputato non possieda una adeguata capacità di valutazione e decisione circa le prospettive che derivano dall’adesione al rito del patteggiamento; inoltre, che l'adozione del rito da un lato consente al giudice di valutare la congruità della pena richiesta dalle parti e la sussistenza di cause di immediato proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen., dall'altro è in linea con il perseguimento della massima celerità nei procedimenti penali minorili sottolineata dalle così dette regole di Pechino (Regole minime per l'amministrazione della giustizia minorile, Risoluzione 40/33), approvate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 29 novembre del 1985, e dalla Raccomandazione n. (87)20 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 17 settembre 1987. Al contrario, una volta preclusa l’adozione delle misure speciali riservate al rito minorile, non potrebbe ritenersi ragionevole la scelta del legislatore che nega all’imputato, divenuto maggiorenne, di godere del trattamento previsto dall’istituto di cui all’art. 444 cod. proc. pen., tale da favorire anche il suo reinserimento sociale.
Ne consegue, secondo il rimettente, che una simile preclusione normativa viola il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., stante il diverso, ingiustificato e deteriore trattamento, rispetto al normale imputato, riservato al soggetto divenuto maggiorenne che abbia commesso il reato durante la minore età.
1.1.- Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la infondatezza della questione, in base al rilievo che, seppure sotto diversa angolazione, il giudice a quo ripropone in sostanza la medesima questione già dichiarata infondata con la sentenza della Corte costituzionale n. 135 del 1995.
1.2.- Si è costituito l’imputato del giudizio a quo, chiedendo la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impugnata.
Secondo la parte privata, le motivazioni con cui la Corte costituzionale nella sentenza n. 135 del 1995 ha ritenuto legittimo il divieto legislativo di ricorrere all'istituto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti nel procedimento minorile non possono essere riferite alla situazione dedotta con la presente questione. La Corte aveva allora rilevato, richiamando anche le caratteristiche di accentuata negozialità del rito messe in evidenza dalla sentenza n. 265 del 1994, che la richiesta di applicazione della pena postula una maturità e capacità di valutazione che non possono ritenersi sussistenti in un soggetto minore di età, e che l'accesso al rito speciale precluderebbe all'imputato di usufruire di quelle misure proprie del processo penale minorile (quali il perdono giudiziale, la sospensione del processo e messa alla prova, il non luogo a procedere per irrilevanza del fatto), che rispondono all'esigenza primaria del recupero del minore e di una rapida fuoriuscita dal processo.
Queste considerazioni, ad avviso della parte privata, non valgono, però, quando l’imputato sia divenuto maggiorenne, e non possa, a causa dei suoi precedenti penali e delle caratteristiche del reato contestato, usufruire di alcuno degli specifici istituti di favore previsti dal processo minorile. Tale situazione determinerebbe una evidente disparità di trattamento rispetto alla condizione degli imputati giudicati con le forme del processo ordinario, priva di qualsiasi giustificazione, in quanto non collegata ad alcun beneficio per il soggetto discriminato.
La parte privata rileva inoltre che la preclusione del decreto penale di condanna, anch'esso non applicabile nel processo minorile, trova un correttivo nell'art. 32, comma 2, del d.P.R. n. 448 del 1988, che consente al giudice dell'udienza preliminare, in caso di condanna a pena pecuniaria o a sanzione sostitutiva, di ridurre la pena sino alla metà rispetto al minimo edittale, sicché la preclusione non si risolve in un danno per il minore. In relazione all'istituto del patteggiamento, invece, non è previsto alcun correttivo grazie al quale il minore possa conseguire in caso di condanna, al termine del processo, la riduzione di pena prevista da tale rito. Anche sotto il profilo del confronto con l'istituto del decreto penale di condanna, l'imputato minorenne nel frattempo divenuto maggiorenne e che non si trovi nelle condizioni di usufruire degli altri istituti di favore previsti dalla procedura penale minorile, subisce quindi un ingiustificato trattamento deteriore, con conseguente violazione dell'art. 3 della Costituzione.
2.- Con due ordinanze emesse entrambe il 18 marzo 1999 e di identico contenuto (nn. 418 e 419 del r.o. del 1999), il Tribunale per i minorenni di Palermo, richiesto dall’imputato di «essere ammesso ai benefici previsti dagli artt. 444 e s. c.p.p.», a seguito di contestuale eccezione della difesa, cui aderiva il pubblico ministero di udienza, ha sollevato la medesima questione di costituzionalità, sulla base di argomentazioni sostanzialmente analoghe a quelle del Tribunale per i minorenni di Venezia.
In particolare, il Tribunale di Palermo osserva che con la sentenza n. 135 del 1995 la Corte costituzionale aveva dichiarato infondata la questione di costituzionalità della non applicabilità del patteggiamento al processo minorile avendo rilevato, tra l’altro, che questa scelta trovava giustificazione nel fatto che il processo minorile era caratterizzato da altre misure tipiche (perdono, sospensione del processo per messa alla prova, sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, un più ampio ambito di operatività delle sanzioni sostitutive), tutte caratterizzate dall’esigenza del recupero del minore, rispetto alle quali l’ammissione al patteggiamento avrebbe potuto determinare risultati incoerenti.
Il giudice a quo osserva, però, che nel caso di specie da un lato l’imputato ha raggiunto nel corso del procedimento la maggiore età, e, dall’altro, non può beneficiare dei predetti istituti tipici del processo minorile, tenuto conto, tra l’altro, dei numerosi procedimenti penali pendenti e di una condanna passata in giudicato alla pena di tre anni di reclusione e lire 1.000.000 di multa.
A fronte di tale situazione, secondo il Tribunale, la preclusione legislativa al patteggiamento non può ritenersi giustificata né in base alla considerazione della mancanza nell’imputato minorenne di «una capacità di valutazione e di decisione che richiedono piena maturità e consapevolezza di scelta» (come si esprime la Relazione al Progetto preliminare), posto che l’imputato è nel frattempo divenuto maggiorenne, né in base al fatto che il processo minorile è connotato dalla previsione di altre misure di favore tipiche, poiché a queste l’imputato non può, in concreto, accedere.
2.1.- Nel giudizio relativo alla ordinanza n. 418 del 1999 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la infondatezza della questione, in quanto già dichiarata infondata con la sentenza della Corte costituzionale n. 135 del 1995.
3.- Infine, con due ordinanze di contenuto analogo, emesse rispettivamente il 2 dicembre 1999 (n. 77 del r.o. del 2000) e il 17 febbraio 2000 (n. 179 del r.o. del 2000), il Tribunale per i minorenni di Salerno - richiesto dagli imputati di applicare la pena concordata ex art. 444 cod. proc. pen. - a seguito di eccezione prospettata in via subordinata dalle parti ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 25 del d.P.R. n. 448 del 1988, nella parte in cui esclude l’applicabilità del patteggiamento all'imputato divenuto maggiorenne nelle more del giudizio.
In particolare, il giudice rimettente osserva che l'imputato, una volta divenuto maggiorenne successivamente al fatto, possiede la necessaria maturità per effettuare l’opzione del rito speciale del patteggiamento, sicché l'assoluta preclusione dettata dall’art. 25 del d.P.R. n. 448 del 1988 determina un ingiustificato trattamento deteriore rispetto agli imputati maggiorenni, rimanendo il minorenne privato della possibilità di usufruire degli effetti favorevoli del patteggiamento, quali l'immediata definizione del procedimento e la pronuncia di una sentenza che non contiene una espressa statuizione di responsabilità.
3.1.- Nel giudizio relativo alla ordinanza iscritta al n. 77 del r.o. del 2000 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, come sopra rappresentato e difeso. Anche con riferimento a questa ultima questione, l'Avvocatura generale ha concluso per la sua infondatezza, rilevando che gli istituti di particolare favore previsti dal processo penale minorile (perdono giudiziale, sospensione del processo e messa alla prova, sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto), applicabili anche all'imputato maggiorenne al momento della celebrazione del processo, sono alternativi all’istituto del patteggiamento, sicché restano valide le ragioni che avevano condotto la Corte a dichiarare non fondata, con la sentenza n. 135 del 1995, questione analoga.
3.2.- Con memoria depositata il 3 maggio 2000 l'Avvocatura insiste nella richiesta di una declaratoria di infondatezza, rilevando, con riferimento alle censure sollevate anche dagli altri rimettenti, che le circostanze che il minore abbia raggiunto la maggiore età e abbia riportato precedenti condanne non costituiscono elementi di novità tali da suggerire alla Corte di modificare il giudizio già espresso sulla stessa questione con la sentenza n. 135 del 1995.
A parere dell'Avvocatura, l'immaturità del minore al cospetto della scelta di chiedere l'applicazione della pena non è che una delle ragioni che hanno determinato il legislatore alla previsione del primo comma dell'art. 25 del d.P.R. n. 448 del 1988, essendo questa disposizione volta altresì a tutelare la esigenza primaria del recupero del minore, che è assicurata dagli istituti di favore tipici del processo minorile, incompatibili con l'istituto del patteggiamento e che sarebbero perciò preclusi se si ammettesse il minore, ancorché divenuto maggiorenne, a optare per la «condanna» ad una pena, sia pure patteggiata.
L'Avvocatura rileva poi che l'esistenza di precedenti penali dell'imputato minorenne costituisce impedimento solamente alla concessione del perdono giudiziale (in virtù del combinato disposto degli artt. 169, comma 1, e 164 n. 1 cod. pen.), ma lascia «sostanzialmente integra la speciale struttura del processo minorile, ossia quella specialità che la norma [...] denunciata ha voluto preservare».
In conclusione, a parere dell'Avvocatura l'esclusione del patteggiamento anche per gli imputati divenuti maggiorenni nel corso del processo «si giustifica ed appare ragionevole in funzione della diversità strutturale - e dei principi ispiratori - dei due processi: quello minorile e quello ordinario».
Considerato in diritto
1. - La questione di legittimità costituzionale sottoposta al giudizio di questa Corte, sollevata con cinque ordinanze di rimessione emesse da diversi tribunali per i minorenni, ha per oggetto l'art. 25 del d.P.R. n. 448 del 1988, nella parte in cui esclude l'operatività nel processo penale minorile dell'istituto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti anche quando l'imputato sia divenuto maggiorenne nelle more del giudizio.
In particolare, tre ordinanze di rimessione (r.o. nn. 418, 419 e 446 del 1999) si riferiscono alla specifica situazione di fatto di imputati che, oltre ad essere divenuti maggiorenni nel corso del giudizio, a causa dei precedenti giudiziari non potrebbero usufruire degli speciali istituti di favore per i minorenni previsti tra le forme di definizione anticipata del procedimento minorile.
Con argomentazioni sostanzialmente analoghe, tutti i tribunali rimettenti censurano, con riferimento all'art. 3 della Costituzione, l'irragionevolezza della scelta del legislatore di precludere l'accesso all'istituto del patteggiamento all'imputato minorenne che abbia raggiunto nelle more del giudizio la maggiore età e, quindi, la maturità e capacità di valutazione e di decisione in ordine alla scelta del rito, e denunciano l'ingiustificato trattamento deteriore riservato all'imputato minorenne rispetto all'imputato maggiorenne al momento del fatto, in quanto il primo, anche se divenuto maggiorenne, non potrebbe mai avere accesso al patteggiamento.
Poiché tutte le ordinanze sollevano identica questione, deve essere disposta la riunione dei relativi giudizi.
2.- La questione non è fondata.
3.- Stando all'impostazione delle ordinanze di rimessione e ai rilievi svolti dalla parte privata costituita in giudizio, l'istituto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti configurerebbe una misura di particolare favore, la cui preclusione nel processo minorile anche nei confronti degli imputati che siano divenuti maggiorenni nel corso del giudizio determinerebbe un ingiustificato e irragionevole trattamento deteriore, censurabile a norma dell'art. 3 Cost.
Va al riguardo osservato che il c.d. patteggiamento non è sorretto dalla finalità di concedere un beneficio all'imputato, ma è piuttosto uno strumento, basato su un accordo tra accusa e difesa, volto a conseguire obiettivi di rapidità e di economia processuale: da un lato l'imputato concorda con il pubblico ministero la misura della pena, diminuita sino ad un terzo, ed ottiene altre agevolazioni premiali; dall'altro l'amministrazione della giustizia consegue il vantaggio di definire il procedimento in tempi brevi, evitando la fase del dibattimento. Si tratta quindi di un procedimento speciale che comunque si conclude con una sentenza, equiparata ad una pronuncia di condanna, che irroga una pena, anche detentiva, all'imputato, la cui disciplina e il cui ambito di applicazione rientrano nella sfera della discrezionalità del legislatore, sulla base di valutazioni dettate soprattutto da esigenze di deflazione del carico giudiziario e di speditezza processuale.
La scelta del legislatore di escludere espressamente tale istituto (e il decreto penale di condanna) dalle varie forme di definizione anticipata del procedimento previste dal Capo III del d.P.R. 448 del 1988 corrisponde quindi ad un ponderato bilanciamento tra le esigenze di economia processuale, che avrebbero consigliato di ammettere forme di "patteggiamento" anche nel procedimento a carico di imputati minorenni, e le peculiarità del modello di giustizia minorile adottato dall'ordinamento italiano, sorretto dalla prevalente finalità di recupero del minorenne e di tutela della sua personalità, nonché da obiettivi pedagogico-rieducativi piuttosto che retributivo-punitivi, richiamati dal preambolo dell'art. 3 della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, e dagli artt. 1 e 9 del d.P.R. n. 448 del 1988 (cfr. in tale senso, tra le tante, sentenze n. 433 del 1997, nn. 135 e 125 del 1995, n. 125 del 1992, n. 206 del 1987, n. 122 del 1983).
In questa ponderazione, più che nella ratio della mancanza di maturità e di capacità di valutazione del minore in ordine alla scelta del rito, adombrata nella Relazione al Progetto preliminare delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni e richiamata dai giudici rimettenti e dalla parte privata a sostegno della illegittimità costituzionale della norma censurata in caso di raggiungimento della maggiore età, va dunque ricercata la ragione giustificatrice della soluzione adottata dal legislatore, nella quale non è dato riscontrare la violazione del parametro costituzionale evocato.
Al riguardo, giova precisare che la ratio della mancanza di maturità e di capacità di scelta del minorenne non è stata posta a fondamento della sentenza n. 135 del 1995, dalla quale i rimettenti traggono spunti a sostegno della fondatezza della specifica questione ora prospettata con riferimento agli imputati divenuti maggiorenni: nel dichiarare infondata analoga questione di legittimità costituzionale, allora relativa ad un imputato minorenne nel momento in cui aveva presentato richiesta di applicazione della pena e basata sulla asserita irragionevole disparità di trattamento rispetto all'istituto del giudizio abbreviato, ammesso invece tra le forme di definizione anticipata del procedimento minorile, la citata sentenza ha, per quanto qui interessa, escluso profili di irragionevolezza della disciplina censurata richiamandosi alla specificità del processo penale minorile, caratterizzato dall'esigenza primaria del recupero del minore.
Così come configurato dagli artt. 444 e segg. cod. proc. pen. - mediante una disciplina che consente di presentare al giudice la mera documentazione cartolare dell'accordo raggiunto tra imputato e pubblico ministero, e attribuisce al giudice stesso, previa verifica della insussistenza di cause di non punibilità ex art. 129 cod. proc. pen., un controllo limitato alla correttezza della qualificazione giuridica del fatto e alla congruità della pena, solo eventualmente integrato dalla verifica della volontarietà della richiesta o del consenso manifestato dall'imputato, affidata alla discrezionalità del giudice - l'istituto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti non può quindi essere posto sullo stesso piano delle misure di favore specificamente previste nel procedimento penale a carico di imputati minorenni, sicché risulta ulteriormente confermata l'assenza dei denunciati profili di irragionevolezza e di ingiustificata disparità di trattamento anche in relazione alla posizione dell'imputato divenuto maggiorenne nel corso del giudizio.
Tale conclusione non implica, evidentemente, una pregiudiziale incompatibilità tra istituti che si richiamino alla struttura del "patteggiamento" e procedimento minorile, ben potendo il legislatore, nell'ambito della sua discrezionalità, prevedere tra gli epiloghi anticipati del procedimento nei confronti dei minorenni una forma di accordo sulla misura della pena adeguata ai principi e alle finalità che informano l'attuale sistema della giustizia penale minorile.
4.- Nelle considerazioni sinora svolte rimane assorbito lo specifico profilo relativo alla situazione del minorenne che, a causa dei precedenti penali o dei trascorsi giudiziari, si troverebbe nell'impossibilità di usufruire dei particolari istituti di favore previsti dal Capo III del d.P.R. n. 448 del 1988: al riguardo, si deve comunque rilevare che i precedenti, penali o giudiziari, non precludono di per sé il ricorso, ove ne sussistano i presupposti, alle altre forme speciali di definizione anticipata del procedimento minorile, salvo per quanto concerne il perdono giudiziale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 25 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dai Tribunali per i minorenni di Venezia, Palermo e Salerno, con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 luglio 2000.
Cesare MIRABELLI, Presidente
Guido NEPPI MODONA, Redattore
Depositata in cancelleria il 12 luglio 2000.