Sentenza n. 449/97

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SENTENZA N. 449

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Prof. Giuliano VASSALLI, Presidente       

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Prof.    Annibale MARINI               

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio promosso con ricorso della Corte d'appello di Milano, terza sezione penale, notificato il 31 ottobre 1996, depositato in cancelleria il 21 novembre 1996, per conflitto di attribuzione sorto a seguito della delibera della Camera dei deputati del 31 gennaio 1996, che ha affermato l'insindacabilità, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, delle espressioni adoperate dall'on. Umberto Bossi in un comizio elettorale a Milano il giorno 18 giugno 1993; ricorso iscritto al n. 29 del registro conflitti del 1996.

Visto l'atto di costituzione della Camera dei deputati;

udito nell'udienza pubblica del 30 settembre 1997 il Giudice relatore Giuliano Vassalli;

udito l'avvocato Giuseppe Abbamonte per la Camera dei deputati.

Ritenuto in fatto

1. - La Corte d'appello di Milano ha proposto, con ordinanza, ricorso per conflitto di attribuzione, depositato il 26 luglio 1996, nei confronti della Camera dei deputati, in relazione alla deliberazione adottata dall'Assemblea parlamentare il 31 gennaio 1996, con la quale è stata dichiarata l'insindacabilità, in quanto espressione di opinioni formulate da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni (art. 68, primo comma, della Costituzione), delle frasi pronunciate dall'on. Umberto Bossi il 18 giugno 1993 in un comizio tenuto nel corso della campagna elettorale per l'elezione del sindaco di Milano; frasi per le quali si procedeva penalmente per il reato di diffamazione aggravata (art. 595, primo e terzo comma, cod. pen.) a seguito di querela proposta dall'on. Ferdinando Dalla Chiesa.

Nel corso del giudizio d'appello, avendo l'on. Bossi impugnato la condanna inflitta dal Pretore di Milano alla pena della multa ed al risarcimento dei danni in favore del querelante costituitosi parte civile, la Camera dei deputati, alla quale l'imputato apparteneva, aveva deliberato che i fatti per i quali era in corso il procedimento penale riguardavano l'espressione di opinioni formulate da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni. A seguito di tale decisione la parte civile aveva chiesto che il giudizio proseguisse, contestando la legittimità dell'intervento parlamentare, che sarebbe stato in contrasto con l'art. 68 della Costituzione, come modificato dall'art. 1 della legge costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3. Il Pretore aveva dato comunicazione alla Camera dell'esistenza del procedimento penale, ma questa aveva solo il valore di una informativa, rimanendo consentito alla Camera di pronunciarsi sulla insindacabilità delle opinioni espresse dal parlamentare solo se il giudice non avesse già ritenuto l'eccezione di insindacabilità manifestamente infondata.

Il Procuratore generale presso la Corte d'appello aveva, invece, chiesto l'assoluzione dell'imputato perché il fatto non costituisce reato, ai sensi degli articoli 129 e 530 cod. proc. pen., in quanto spetta alla Camera valutare le condizioni dell'insindacabilità delle opinioni espresse dai parlamentari, salvo il possibile controllo di legittimità nella forma del conflitto davanti alla Corte costituzionale. Richiamando la giurisprudenza costituzionale, in particolare le sentenze n. 1150 del 1988 e n. 443 del 1993, il pubblico ministero riteneva che il controllo di legittimità può avere ad oggetto unicamente la sussistenza di eventuali vizi di procedura, ovvero l'omessa od arbitraria valutazione dei presupposti di insindacabilità. La delimitazione di tali presupposti non potrebbe essere effettuata dall'autorità giudiziaria quando, come nel caso in esame, si fosse pronunciata la Camera di appartenenza dell'imputato, perché diversamente si verificherebbe una inammissibile interferenza nelle prerogative parlamentari.

La Corte d'appello, ritenendo di non poter disapplicare direttamente, come invece richiesto dalla parte civile, la deliberazione parlamentare, ha sollevato conflitto di attribuzione perché la Corte costituzionale stabilisca se le opinioni espresse dall'on. Bossi nel comizio del 18 giugno 1993 costituiscano o meno esercizio della funzione parlamentare.

La Corte d'appello ha presente che, secondo il giudizio della Camera dei deputati, quale risulta dalla relazione della Giunta per le autorizzazioni a procedere approvata dall'Assemblea il 31 gennaio 1996, le parole pronunciate dall'on. Bossi hanno una indissolubile connessione con l'attività politica generale del parlamentare, seppure esercitata in occasione delle elezioni per il rinnovo del consiglio comunale di Milano. Tuttavia, ad avviso dello stesso giudice, questa valutazione non risolverebbe il problema dell'applicabilità o meno dell'insindacabilità parlamentare, che può operare solo nei limiti posti dall'art. 68 della Costituzione ed è diretta a garantire in ogni momento la libertà di ciascun componente del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni. L'immunità costituirebbe una eccezione al principio generale della responsabilità individuale, ed in quanto tale dovrebbe essere interpretata in senso restrittivo. L'art. 68 della Costituzione introdurrebbe un ingiustificato privilegio non collegato al libero esercizio delle funzioni parlamentari, se dilatato sino a comprendere l'esercizio di diritti garantiti a tutti i cittadini. Difatti, se il diritto dell'on. Bossi di manifestare liberamente il proprio pensiero, illustrando tesi politiche generali fuori dal Parlamento, fosse da inquadrare nell'art. 68, anziché nell'art. 21, della Costituzione, la parte offesa dalle dichiarazioni rese rimarrebbe priva della tutela che altrimenti le spetterebbe.

La Corte d'appello ritiene che il caso sottoposto al suo giudizio costituisca l'occasione per un chiarimento in ordine ai limiti di esercizio della potestà parlamentare e consenta di stabilire se l'art. 68 della Costituzione sia applicabile, al di fuori dell'attività parlamentare in senso stretto, alle sole opinioni divulgative di attività parlamentari, quindi strettamente connesse con queste o, invece, ad ogni manifestazione del pensiero di ciascun parlamentare.

Il conflitto di attribuzione costituirebbe, dunque, il mezzo per stabilire se le frasi dette dall'on. Bossi nel comizio elettorale milanese costituiscono esercizio di attività connessa a quella parlamentare, insindacabile ai sensi dell'art. 68 della Costituzione, come ha ritenuto la Camera dei deputati, ovvero se siano espressione politica non connessa all'esercizio di attività parlamentare, che può essere sottoposta all'esame del giudice penale, così come chiede la parte civile.

2. - Nella prima sommaria delibazione in camera di consiglio, il conflitto di attribuzione è stato dichiarato ammissibile con ordinanza n. 339 del 30 settembre-8 ottobre 1996, la quale ha disposto che, a cura della Corte d'appello di Milano, il ricorso e l'ordinanza venissero notificati alla Camera dei deputati entro trenta giorni dalla comunicazione alla ricorrente, effettuata dalla cancelleria l'8 ottobre 1996. La ricorrente ha provveduto alla prescritta notificazione, effettuata il 31 ottobre, ed ha spedito gli atti il 19 novembre a mezzo del servizio postale per il deposito alla cancelleria della Corte, cui sono pervenuti il 21 novembre.

3. - Si è costituita in giudizio la Camera dei deputati, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o infondato.

Nell'atto di costituzione, datato 16 novembre 1996, si ribadisce nel merito del conflitto che i fatti per i quali è in corso il procedimento penale a carico dell'on. Bossi riguardano l'espressione di opinioni formulate da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni. L'insindacabilità delle opinioni espresse dal parlamentare costituirebbe un momento insopprimibile della libertà della funzione, rimesso alla valutazione della Camera di appartenenza, per superare la quale occorrerebbe dimostrare che la condotta del parlamentare è manifestamente estranea al concetto di opinione o di esercizio delle funzioni. Nell'esercizio del mandato politico sarebbero da comprendere le opinioni espresse dai parlamentari nel corso di un comizio tenuto durante una campagna elettorale che ha indubbia rilevanza politica, perché così si assicura la continuità del colloquio con l'elettorato del quale si ha o si chiede la rappresentanza.

Ad avviso della Camera dei deputati, la Corte d'appello avrebbe sostanzialmente sollevato un conflitto in ordine all'applicabilità o meno dell'art. 21 della Costituzione, che, nella logica della ricorrente, escluderebbe l'applicazione dell'art. 68 della Costituzione e comporterebbe la responsabilità del parlamentare come un comune cittadino che manifesta il proprio pensiero, con la conseguenza che non vi sarebbe irresponsabilità nell'esercizio della rappresentanza parlamentare. Questa prospettazione sarebbe erronea, perché le due disposizioni costituzionali non sarebbero affatto alternative, ma avrebbero applicazioni diverse. L'art. 21 garantisce a tutti i cittadini un diritto di libertà civile, che si esercita nell'ambito della convivenza sociale e che, per le sue modalità di espressione, incontra i limiti dell'ordinamento generale. La libertà del parlamentare nasce, invece, nel contesto dell'esercizio della rappresentanza politica e per la gestione del mandato politico, che comporta istituzionalmente il colloquio tra parlamentare e popolo, cui appartiene la sovranità (art. 1 Cost.). La valutazione se vi sia stato eccesso dal mandato è affidata alla Camera alla quale appartiene il rappresentante e che concentra in se stessa la rappresentanza dei mandanti. Spetterebbe, quindi, alla competenza esclusiva della Camera accertare se il parlamentare abbia agito o meno nell'esercizio delle sue funzioni. Tale potere sarebbe stato più volte riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 1150 del 1988, n. 443 del 1993, n. 129 del 1996, n. 379 del 1996), alla luce della quale la valutazione operata dalla Camera dei deputati, fondata su presupposti certamente non arbitrari, appare del tutto legittima.

Il ricorso, nei termini in cui è proposto, ancor prima che infondato sarebbe inammissibile, perché l'art. 21 e l'art. 68 della Costituzione non pongono problemi alternativi e, una volta che la Camera competente ha affermato che il parlamentare ha agito nell'esercizio delle sue funzioni, non vi sarebbe spazio per accertare se il medesimo abbia esercitato il suo diritto in base all'art. 21 della Costituzione.

Se si dovesse ritenere illegittima la deliberazione della Camera si restringerebbe l'insindacabilità alle sole opinioni espresse nelle aule parlamentari, come era previsto dall'art. 51 dello Statuto albertino, il cui ambito è stato invece ampliato dall'art. 68 della Costituzione, che fa riferimento alle opinioni espresse ed ai voti dati nell'esercizio delle funzioni parlamentari, e si negherebbe di fatto il principio secondo cui le Camere sono giudici delle loro prerogative, giacché esse non potrebbero più apprezzare la portata della proiezione esterna del mandato parlamentare, ma dovrebbero limitarsi a certificare l'avvenuta manifestazione delle opinioni nel contesto di atti tipici.

4. - In una successiva memoria, depositata il 28 gennaio 1997, la Camera dei deputati ha eccepito l'inammissibilità del conflitto per essere stati depositati il ricorso e l'ordinanza che ne ha dichiarato l'ammissibilità, con la prova della prescritta notifica, oltre il termine di venti giorni stabilito dalla legge, essendo tali atti, spediti a mezzo del servizio postale, pervenuti alla cancelleria della Corte un giorno dopo la scadenza del termine. L'eccezione si fonda sull'art. 25, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, richiamato dall'art. 37 della stessa legge, e sull'art 22 della stessa legge che rinvia alle norme del regolamento per la procedura innanzi al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale. Quest'ultima disposizione renderebbe applicabile anche l'art. 36, ultimo comma, del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, che fissa il termine per depositare l'originale del ricorso con la prova delle notificazioni e stabilisce che il termine per il deposito del ricorso debba osservarsi a pena di decadenza. A sostegno di questa conclusione la difesa della Camera dei deputati richiama la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 87 del 1977) e chiede, appunto, una decisione di inammissibilità per decadenza, data la perentorietà del termine.

Nel merito, se si dovesse ritenere infondata l'eccezione di inammissibilità, la difesa della Camera allega "alcuni significativi precedenti" costituiti da deliberazioni adottate dalla Camera dei deputati nel corso della XII e XIII legislatura nei confronti di deputati ritenuti non perseguibili, perché il loro comportamento rientra nella previsione dell'art. 68, primo comma, della Costituzione. Si tratta di numerose proposte in tal senso formulate dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere, che riguardano nella maggior parte casi di imputazioni per il reato di diffamazione.

Con successiva memoria, depositata in prossimità dell'udienza, la difesa della Camera dei deputati ribadisce che la Corte d'appello di Milano non ha rispettato il termine per il deposito del ricorso notificato, insistendo per la dichiarazione di inammissibilità e comunque per la improcedibilità del conflitto, non avendo la ricorrente eseguito nei venti giorni prescritti gli adempimenti previsti (artt. 37, 23, 25 e 26 della legge 11 marzo 1953, n. 87 e art. 26, terzo e quarto comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale 16 marzo 1956).

L'inadempimento della parte attrice riguarderebbe un fondamentale atto di impulso processuale, essenziale nel giudizio per conflitto di attribuzione; giudizio al quale le parti possono rinunciare, diversamente da quanto avviene in quelli di legittimità costituzionale. I termini per gli adempimenti, che non possono essere elastici, condizionano le modalità della procedura e l'inadempimento della parte che ha promosso il conflitto farebbe mancare, con il non tempestivo deposito del ricorso, una vera e propria istanza perché si proceda al giudizio. Nel caso manchi il tempestivo deposito del ricorso notificato, sarebbe perfino difficile cogliere le ragioni di attualità del conflitto, che è requisito indefettibile di ogni giudizio ad iniziativa di parte.

Nel merito la difesa della Camera ribadisce le ragioni a sostegno della esclusiva competenza della Camera di appartenenza ad accertare l'osservanza dei limiti entro i quali gli atti di esercizio del mandato parlamentare devono essere contenuti ed allega gli atti della Camera dai quali risulta effettivamente tale accertamento.

Considerato in diritto

1. - Il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, sollevato dalla Corte d'appello di Milano, investe la deliberazione, adottata il 31 gennaio 1996, con la quale la Camera dei deputati, con riferimento al procedimento penale nei confronti del deputato Umberto Bossi (condannato in primo grado dal Pretore di Milano per diffamazione aggravata in danno dell'on. Ferdinando Dalla Chiesa), ha ritenuto che "i fatti, per i quali è in corso il procedimento, riguardano l'espressione di opinioni formulate da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni", quifndi insindacabili ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione.

La Corte d'appello ritiene che il fatto ascritto al deputato Bossi non possa rientrare nell'area delle attività divulgative connesse alle funzioni esercitate dal parlamentare, secondo la formula contenuta nell'art. 2 del decreto-legge 12 marzo 1996, n. 116, vigente all'epoca della propria ordinanza (decreto-legge successivamente decaduto a seguito di mancata conversione in legge), e ritiene che l'art. 68, primo comma, della Costituzione non possa essere dilatato fino a comprendere ogni attività politica del membro del Parlamento, anche quelle che ricadono nella libera manifestazione del pensiero, garantita dall'art. 21 della Costituzione ma non immune da responsabilità verso i terzi. Le frasi ritenute dal giudice di primo grado come diffamatorie, anche se pronunciate in un comizio nel corso della campagna per l'elezione del sindaco di Milano, non potrebbero essere ritenute coperte dalla insindacabilità, ma dovrebbero essere viceversa considerate come pronunciate nel corso di mera attività politica, non connessa all'esercizio delle funzioni in relazione alle quali la Costituzione sancisce l'insindacabilità delle opinioni espresse.

2. - Il ricorso, unitamente all'ordinanza n. 339 del 1996 che lo ha dichiarato ammissibile, è stato ritualmente notificato, a cura della Corte d'appello di Milano, alla Camera dei deputati in data 31 ottobre 1996.

La stessa ricorrente ha provveduto ad inviare a mezzo del servizio postale il ricorso, con la prova della notificazione eseguita, per il deposito alla cancelleria della Corte, alla quale è pervenuto il 21 novembre successivo.

3. - La Camera dei deputati, costituitasi tempestivamente in giudizio, ha eccepito l'inammissibilità o improcedibilità del conflitto, per essere stato depositato il ricorso dopo la scadenza del termine di venti giorni stabilito dalla legge. L'eccezione si fonda, da un lato, sugli artt. 25, secondo comma, e 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, da cui si evince che il deposito del ricorso per conflitto di attribuzione, nella sua seconda fase, debba essere effettuato, con la prova delle notificazioni eseguite, entro venti giorni dall'ultima notificazione, e, dall'altro, sull'art. 22 della stessa legge n. 87 del 1953, dove si stabilisce che nel procedimento davanti alla Corte costituzionale si osservano, in quanto applicabili, anche le norme del regolamento per la procedura innanzi al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale. Attraverso questa ultima previsione diventerebbe applicabile al conflitto di attribuzione l'art. 36, ultimo comma, del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, che, dopo aver prescritto (nel penultimo comma) che il deposito dell'originale del ricorso con la prova delle notificazioni e coi documenti sui quali si fonda debba avvenire entro trenta giorni successivi alle notificazioni medesime nella segreteria del Consiglio di Stato, statuisce che i termini e i modi prescritti in questo articolo per la notificazione e il deposito del ricorso debbono osservarsi a pena di decadenza.

A sostegno di questa conclusione la difesa della Camera dei deputati richiama la sentenza di questa Corte n. 87 del 1977 e chiede, appunto, una decisione di inammissibilità o improcedibilità per decadenza, data la perentorietà del termine.

In particolare l'inadempimento della ricorrente avrebbe fatto mancare un fondamentale atto di impulso processuale, essenziale nel conflitto di attribuzione, essendo questo rinunciabile, diversamente da quanto avviene nei giudizi di legittimità costituzionale. Il deposito, dopo che il conflitto è stato dichiarato ammissibile, costituirebbe una vera e propria istanza di decisione, istanza che potrebbe in ipotesi venire a mancare dopo la lettura delle motivazioni sull'ammissibilità. Nel caso di un omesso tempestivo deposito diventerebbe, inoltre, difficile cogliere le ragioni di attualità del conflitto.

4. - L'eccezione preliminare, proposta dalla Camera dei deputati, è fondata.

Il conflitto proposto non è stato ritualmente proseguito, con il deposito presso la cancelleria della Corte, nei termini previsti, del ricorso e dell'ordinanza che ne ha dichiarato l'ammissibilità, tempestivamente notificati.

La particolare procedura che regola i conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato prevede due distinte fasi, rimesse all'iniziativa della parte interessata. La prima è diretta alla delibazione preliminare e sommaria dell'ammissibilità del ricorso, in quanto destinato a sollevare un conflitto tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono, per la definizione della rispettiva sfera di attribuzioni determinata da norme costituzionali. La seconda fase, destinata alla decisione nel merito, oltre che al definitivo giudizio sulla ammissibilità del conflitto, è egualmente rimessa all'iniziativa della parte, che ha l'onere di provvedere nei termini previsti alla notificazione del ricorso e dell'ordinanza che lo dichiara ammissibile, ed al tempestivo deposito per il giudizio.

La giurisprudenza costituzionale ha già ritenuto che, data l'autonomia delle due fasi, affinché si apra ritualmente la seconda fase è necessario (art. 26, terzo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale) che il ricorrente notifichi il ricorso e l'ordinanza di ammissibilità agli organi interessati, ed entro venti giorni dall'ultima notificazione depositi presso la cancelleria della Corte il ricorso stesso con la prova delle notificazioni eseguite (sentenza n. 87 del 1977). Nell'attuale regolamentazione si tratta di un adempimento necessario, che deve essere compiuto nel termine previsto, giacché nello stesso termine deve aver luogo la costituzione delle parti e dallo stesso termine decorre la intera catena di ulteriori termini previsti per la prosecuzione del giudizio (art. 26, quarto comma, delle norme integrative).

A tale adempimento non ha provveduto la Corte d'appello di Milano, non potendosi considerare equivalente al tempestivo deposito l'affidamento nel termine dell'atto da depositare al servizio postale, in mancanza di una regola generale o speciale, da applicare a questo procedimento, in tal senso. Ne segue che non può procedersi alla ulteriore fase del giudizio.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara improcedibile il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato proposto dalla Corte d'appello di Milano nei confronti della Camera dei deputati con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1997.

Presidente: Giuliano VASSALLI

Redattore: Cesare MIRABELLI

Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1997.