SENTENZA N. 122
ANNO 1997
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Avv. Fernanda CONTRI
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 458, comma 1, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa l'8 febbraio 1996 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Genova, nel procedimento penale a carico di Mejri Marhez (alias Miheres Mejjr) ed altro, iscritta al n. 509 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell'anno 1996.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 12 marzo 1997 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.
Ritenuto in fatto
1. - In sede di udienza camerale fissata per provvedere in ordine alla richiesta di correzione delle generalità di due imputati ai fini della successiva espulsione a domanda a norma dell'art. 7-ter del d.l. n. 489 del 1995, all'epoca vigente, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Genova si avvedeva che entrambi gli imputati, nei confronti dei quali aveva emesso decreto di giudizio immediato, avevano formulato richiesta di giudizio abbreviato dopo la scadenza del termine previsto a pena di decadenza dall'art. 458, comma 1, del codice di procedura penale. Il pubblico ministero, deducendo proprio la tardività della richiesta, non prestava il consenso alla trasformazione del rito, sicchè, precisa il rimettente, malgrado "la palese definibilità del procedimento allo stato degli atti" l'epilogo non può che essere quello della declaratoria di inammissibilità della richiesta di giudizio abbreviato con conseguente perdurante efficacia del già disposto decreto di giudizio immediato. Alla luce della vicenda processuale come sopra delineata, il medesimo Giudice solleva, in riferimento agli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 458, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui prevede la decadenza dalla facoltà di richiedere il giudizio abbreviato entro il termine di giorni sette dalla notificazione del decreto di giudizio immediato anche nei confronti degli imputati ristretti in carcere, anzichè nel termine di giorni quindici desumibile dall'art. 555, comma 1, lettera e) del medesimo codice: termine, quest'ultimo, che risulterebbe nella specie rispettato, in quanto il decreto di giudizio immediato é stato notificato il 7 dicembre 1995, mentre la richiesta di rito abbreviato é stata formulata dai due imputati rispettivamente il 18 e il 19 di quello stesso mese.
Ritiene il giudice a quo che la norma impugnata si ponga in contrasto con l'art. 24 della Costituzione, in quanto riduce la possibilità di effettivo esercizio della difesa tecnica entro spazi che risultano eccessivamente angusti per gli imputati detenuti, specie se custoditi al di fuori del luogo di abituale dimora o se cittadini extracomunitari, avuto riguardo alle difficoltà di contatti con il difensore, il quale solo é in grado di compiutamente valutare le scelte del rito. La norma, poi, si porrebbe in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, da valutare in correlazione con l'art. 24 della medesima Carta, dal momento che prevede l'identica comminatoria di decadenza dall'esercizio di una facoltà processuale sia per gli imputati liberi che per quelli detenuti, omettendo così di considerare che ai secondi non é consentito conferire a piacimento con i propri difensori.
Un ulteriore "macroscopico profilo di disparità di trattamento" viene poi ravvisato in relazione all'art. 555, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., il quale prevede, per il procedimento pretorile, la decadenza dalla possibilità di richiedere il giudizio abbreviato entro il diverso e più favorevole termine di quindici giorni dalla notificazione del decreto di citazione a giudizio. Una disparità, questa, sottolinea il giudice a quo, che ancor meno si giustifica in considerazione delle analogie che é possibile cogliere tra il giudizio immediato e la citazione davanti al pretore, giacchè difetta in entrambi i casi la fase della udienza preliminare.
La norma, infine, contrasterebbe con l'art. 97 della Costituzione, in quanto la ristrettezza del termine per richiedere la trasformazione del rito determina una "congestione" dei ruoli dibattimentali nonchè "il noto andirivieni di testimoni", fra i quali ufficiali e agenti di polizia giudiziaria che vengono ad essere distolti dalla attività investigativa.
D'altra parte, ha sottolineato ancora il giudice a quo, la brevità del termine oggetto di censura si spiegava con l'esigenza di assicurare un "buon governo" dei ruoli dibattimentali (evitare che il tribunale venisse a conoscenza della celebrazione del giudizio abbreviato ormai in prossimità della data già fissata per il giudizio), esigenza che aveva un senso soltanto nell'ipotesi in cui i tempi di fissazione dei processi fossero stati quelli normativamente previsti: essendosi, invece, tali tempi progressivamente dilatati, la previsione impugnata finisce per risultare priva di giustificazione, contribuendo ad aggravare inutilmente il carico di attività per il giudice del dibattimento.
Per concludere, il giudice rimettente osserva che, pur essendo state analoghe censure disattese con la ordinanza n. 588 del 1990 e con ordinanza n. 59 del 1992, la questione merita a suo parere di essere riesaminata, in quanto la disciplina dettata dall'art. 555, comma 1, lettera e) cod. proc. pen., "può agevolmente colmare ogni e qualunque vuoto normativo ingenerato da un'eventuale pronuncia di accoglimento della Corte".
2. - Nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. La difesa dello Stato ritiene congruo il termine di legge, essendo lo stesso collegato al giudizio immediato "che é ammesso quando la prova é evidente e che permette, quindi, di pervenire alla fase dibattimentale senza passare per l'udienza preliminare, con evidente semplificazione del processo medesimo". Quanto, poi, al diverso e maggior termine previsto nel procedimento pretorile, lo stesso si spiega - a dire dell'Avvocatura - "sia in generale, con la diversa natura che tali termini contengono", sia con la pluralità di riti differenziati che possono essere prescelti (giudizio abbreviato, applicazione della pena e oblazione). Neppure violato sarebbe, infine, l'art. 97 della Costituzione, in quanto dedurre dalla brevità del termine una serie di conseguenze meramente eventuali non costituisce valido motivo di censura costituzionale, soprattutto quando, come nella specie, si deve affermare che quel termine é stato fissato dal legislatore con una scelta tipicamente discrezionale.
Considerato in diritto
1. - Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Genova solleva, in riferimento agli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 458, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede la decadenza dalla facoltà di richiedere il giudizio abbreviato entro il termine di sette giorni dalla notificazione del decreto di giudizio immediato anche nei confronti degli imputati ristretti in carcere, anzichè nel termine di quindici giorni desumibile dall'art. 555, comma 1, lettera e), del medesimo codice.
A parere del giudice a quo la brevità del termine entro il quale, a seguito della notificazione del decreto di giudizio immediato, é consentito formulare la richiesta di giudizio abbreviato contrasterebbe con l'art. 24 della Costituzione, in quanto, soprattutto nelle ipotesi di imputati stranieri in stato di custodia cautelare, impedirebbe quel "pregnante intervento della difesa tecnica" che la scelta del rito necessariamente postula. Di riflesso, vulnerato sarebbe anche il principio di uguaglianza, sia perchè la norma stabilisce l'identica disciplina tanto per gli imputati liberi che per quelli detenuti, senza assegnare, quindi, il dovuto risalto alla circostanza che questi ultimi incontrano maggiori difficoltà nell'avere contatti con i propri difensori, sia per la disparità di trattamento che si determina rispetto alla disciplina dettata per il procedimento pretorile dall'art. 555, comma 1, lettera e), del codice di rito, ove la possibilità di richiedere il giudizio abbreviato é stabilita entro il diverso e più favorevole termine di quindici giorni dalla notificazione del decreto che dispone il giudizio. Viene ravvisata, infine, violazione dell'art. 97 della Carta fondamentale, giacchè la disciplina censurata penalizzerebbe molte situazioni di "pronta definibilità" del processo, con conseguente superfluo aggravio dell'attività dibattimentale e distrazione dall'attività investigativa degli ufficiali e agenti di polizia che devono essere esaminati come testimoni.
2. - La questione non é fondata. Il giudice a quo sollecita, infatti, una declaratoria di illegittimità costituzionale che valga a sostituire, nei confronti degli imputati ristretti in carcere, i termini previsti per la formulazione della richiesta di giudizio abbreviato a seguito della emissione del decreto di giudizio immediato, con quelli stabiliti dall'art. 555, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., per l'esercizio della medesima facoltà all'esito della notificazione del decreto di citazione a giudizio nel procedimento davanti al pretore.
Il tutto, sottolinea il rimettente, in funzione della ritenuta omologabilità degli istituti posti a raffronto, considerato che tanto nel giudizio immediato quanto nel procedimento davanti al pretore non é prevista la fase della udienza preliminare. Questa Corte deve peraltro rilevare che la semplice carenza di una fase del procedimento non può rappresentare l'unico elemento dal quale poter fondatamente dedurre la pretesa assimilabilità di modelli processuali che, al contrario, presentano differenze di presupposti e di disciplina tali da rendere quei modelli fra loro del tutto incomparabili.
A differenza, infatti, di quanto accade per l'emissione del decreto di citazione a giudizio davanti al pretore, il giudizio immediato può essere ritualmente introdotto soltanto nei casi in cui la prova appare evidente; un requisito, questo, che si salda all'altro - parimenti assente nel procedimento pretorile - rappresentato dal termine di novanta giorni entro il quale il pubblico ministero deve formulare al giudice la richiesta di giudizio immediato a far tempo dalla iscrizione della notizia di reato nel registro previsto dall'art. 335 del codice di procedura penale, e che segnala la peculiare speditezza di un rito la cui specialità trae alimento proprio dalla sostanziale chiarezza dei fatti, ritenuti, dunque, di pronto e agevole accertamento.
Ma accanto a ciò, un ulteriore requisito - di essenziale rilievo ai fini che qui interessano - é previsto per l'emissione del decreto di giudizio immediato, giacchè prima della formulazione della relativa richiesta é necessario - a norma dell'art. 453 del codice di procedura penale - che la persona sottoposta alle indagini sia stata interrogata "sui fatti dai quali emerge l'evidenza della prova", ovvero abbia omesso di comparire senza addurre un legittimo impedimento a seguito di invito a presentarsi emesso con l'osservanza delle forme indicate nell'art. 375, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen. Già dall'interrogatorio, dunque, l'indagato e il difensore che lo assiste sono posti agevolmente in condizione di prevedere l'emissione del decreto di giudizio immediato e di approntare, quindi, la conseguente linea difensiva, in ciò comprendendosi, evidentemente, anche le eventuali opzioni per la trasformazione di quel rito in giudizio abbreviato: scelte, queste, che fra l'altro ben possono indurre al rilascio di una procura speciale in via preventiva, a norma dell'art. 37 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, così da consentire al difensore di surrogare l'imputato nella stessa formulazione della richiesta di giudizio abbreviato. Nei confronti dell'imputato in stato di custodia cautelare, poi, il panorama conoscitivo e, dunque, la prevedibilità degli sviluppi processuali, sono addirittura incrementati dal tessuto motivazionale della ordinanza applicativa della misura e dal conseguente deposito degli atti su cui la stessa si fonda, sicchè nessuna violazione può ritenersi subiscano il diritto di difesa o il principio di uguaglianza ove un termine di decadenza, anche se relativamente breve, sia posto in relazione all'esercizio di una facoltà la cui insorgenza può essere agevolmente preventivata e, quindi, adeguatamente illustrata in sede di assistenza tecnica.
La situazione testè lumeggiata si presenta, invece, specularmente antitetica nel procedimento pretorile, ove non soltanto l'interrogatorio non é richiesto quale presupposto per l'emissione del decreto di citazione a giudizio, ma neppure può definirsi come un atto che frequentemente ricorra nella pratica giudiziaria. V'é anzi da sottolineare, a tal proposito, che questa Corte, chiamata a pronunciarsi su una questione di legittimità costituzionale nella quale il rimettente denunciava come "prassi costante" l'emissione del decreto di citazione a giudizio da parte del pubblico ministero senza aver compiuto alcuna indagine e senza aver interrogato l'imputato, pur disattendendo la fondatezza delle censure, non ha mancato di riconoscere che le prospettazioni svolte dal giudice a quo in punto di fatto indubbiamente riflettevano una problematica fortemente avvertita, "essendo stato in più sedi e da più parti rilevato come l'impronta di accentuata semplificazione che il legislatore aveva inteso imprimere al rito pretorile si saldasse intimamente, per un verso, ad una rapida celebrazione della fase dibattimentale e, per l'altro, all'adeguata funzione di filtro che avrebbe dovuto svolgere l'auspicato massiccio ricorso ai procedimenti alternativi, sicchè, risultando nella pratica spesso vanificati entrambi gli obiettivi, ha finito per entrare in crisi la coerenza stessa del modello processuale, con l'ovvia conseguenza di produrre risultati non di rado insoddisfacenti sul piano della tutela sostanziale dei valori coinvolti" (v. ordinanza n. 137 del 1995).
Un termine, quindi, quello previsto dall'art. 555, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., la cui durata é calibrata non solo e non tanto in funzione di un generico favor per i riti alternativi, quanto, soprattutto, in ragione del fatto che il decreto di citazione a giudizio nel procedimento davanti al pretore ben può rappresentare - e nella prassi frequentemente rappresenta - il primo atto dal quale l'imputato viene ad apprendere della esistenza del procedimento a suo carico e della accusa che gli viene mossa (cfr. in tal senso la sentenza n. 101 del 1997). Il che basta a rendere quella previsione del tutto incompatibile con il diverso termine che forma oggetto della odierna censura, appalesando per l'effetto l'infondatezza della tesi del giudice a quo che invece pretenderebbe farvi appello quale pertinente tertium comparationis.
Deve pertanto escludersi che la norma impugnata contrasti con l'art. 24 della Costituzione, così come nessuna violazione può ritenersi sussistere in riferimento all'art. 3 della Carta fondamentale, neppure sotto il profilo della dedotta disparità di trattamento che verrebbe a determinarsi tra imputati liberi e imputati detenuti. Per questi ultimi, anzi, accanto alle più agevoli formalità stabilite dalla legge per la rituale proposizione della richiesta di giudizio abbreviato (v. ordinanza n. 59 del 1992), sta l'ulteriore garanzia rappresentata dalla necessaria coincidenza cronologica tra la conoscenza legale e quella effettiva del decreto di giudizio immediato e del relativo avviso in ordine alla facoltà di richiedere la trasformazione del rito, dovendo l'atto essere notificato a mani proprie a norma dell'art. 156 cod. proc. pen., con intuibili riflessi anche sul piano del tempestivo approntamento della conseguente assistenza tecnica: una coincidenza, questa, che, invece, non necessariamente sussiste per gli imputati liberi.
Infondato si rivela infine il richiamo all'art. 97 della Costituzione, in quanto questa Corte ha più volte affermato che il principio del buon andamento della pubblica amministrazione attiene esclusivamente alle leggi concernenti l'ordinamento degli uffici giudiziari, con esclusione della funzione giurisdizionale nel suo complesso (v., da ultimo, ordinanza n. 7 del 1997).
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 458, comma 1, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Genova, con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 maggio 1997.
Renato Granata, Presidente
Giuliano VASSALLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 6 maggio 1997.