SENTENZA N. 419
ANNO 1996
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Avv. Fernanda CONTRI
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, della legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in materia di risorse idriche) promosso con ordinanza emessa il 16 dicembre 1995 dal Pretore di Firenze sezione distaccata di Empoli nel procedimento civile vertente tra Cappellini Alda e Comune di Cerreto Guidi, iscritta al n. 222 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell'anno 1996.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 27 novembre 1996 il Giudice relatore Riccardo Chieppa.
Ritenuto in fatto
1. Con ricorso depositato il 22 gennaio 1994, Alda Cappellini, asserendo di essere la proprietaria di un terreno sul quale il Comune di Cerreto Guidi aveva stabilito di realizzare il depuratore comunale, chiedeva l'emissione di un provvedimento cautelare ai sensi degli artt. 1171 e 1172 cod. civ., in quanto avrebbe potuto ricevere danno dall'immissione dei reflui del depuratore in un fosso di sua proprietà; ed inoltre chiedeva l'adozione di un provvedimento d'urgenza ex art. 1170, cod. civ., in quanto la progettata immissione dei reflui del depuratore nel rio in questione, che è un fosso di bonifica che raccoglie le acque meteoriche drenate dal terreno, avrebbe costituito una illegittima turbativa nel possesso del medesimo.
Nel corso del giudizio veniva espletata perizia, che, accertata la esistenza di un progetto di variante adottato in corso di causa che avrebbe comportato il cambiamento del sito destinato al collocamento dello scarico del depuratore nel corpo idrico in questione, e tenuto conto delle caratteristiche fisiche dell'alveo a valle del nuovo punto di immissione, escludeva la possibilità di danni alla proprietà della ricorrente. Costei contestava le risultanze della consulenza tecnica d'ufficio ed eccepiva la incostituzionalità dell'art. 1 della legge 5 gennaio 1994, n. 36, per violazione dell'art. 42 della Costituzione, in quanto esso disporrebbe la espropriazione di un bene di proprietà privata senza prevedere un serio ristoro che compensi il privato per la perdita subita.
L'adito Pretore di Firenze sezione distaccata di Empoli con ordinanza in data 16 dicembre 1995 (R.O. n. 222 del 1996), respinta la domanda di cui agli artt. 1171 e 1172 cod. civ., ha ritenuto, quanto alla domanda di manutenzione, rilevante e non manifestamente infondata, sia pure in termini parzialmente diversi da quelli prospettati dalla ricorrente, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, della citata legge n. 36 del 1994.
In punto di rilevanza, il giudice a quo ha osservato che la norma di cui si tratta, con lo stabilire la natura pubblica del fosso in questione, o almeno delle acque in esso contenute, renderebbe inammissibile la tutela anche solo in sede possessoria dello stesso, impedendo l'accoglimento del ricorso.
Quanto alla non manifesta infondatezza, secondo il rimettente, il comma 1 dell'art. 1 della legge n. 36 del 1994 si porrebbe in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui, prescindendo dalle finalità della legge (chiaramente rivolta a preservare le risorse idriche quale bene anche delle generazioni future), e senza tenere conto della permanenza del diritto di raccolta e di utilizzazione dell'acqua piovana a fini agricoli, esclude la possibilità di proprietà privata sui corpi idrici ricettori dell'acqua drenata dai terreni agricoli bonificati, proprietà privata la quale consentirebbe l'utilizzazione agricola, laddove l'art. 28, comma 3, della stessa legge, dispone la permanenza del diritto di raccolta e di utilizzazione dell'acqua piovana a fini agricoli, fattispecie sostanzialmente non diversa dalla prima.
Viene, inoltre, denunciato il vulnus all'art. 42 della Costituzione, in quanto la norma censurata non prevederebbe un serio ristoro per la compressione del diritto dominicale sui terreni adiacenti ai corsi d'acqua. La norma, che attribuisce carattere di demanialità a tutte le acque, non individuerebbe, infatti, limiti generalizzati al diritto di proprietà al fine di assicurarne la funzione sociale, ciò che di per sé non darebbe luogo ad indennizzo; bensì colpirebbe solo alcuni dei componenti della collettività destinataria della legge. Nel caso di specie, infatti, il legislatore avrebbe determinato un pregiudizio per i proprietari dei fondi finitimi dell'alveo del corso d'acqua, che per l'impossibilità di disporne subirebbero una ingiustificata compressione del diritto di proprietà sui terreni, allorché il valore e la utilizzabilità degli stessi siano condizionati dal drenaggio delle acque meteoriche o affioranti.
La norma sarebbe, infine, costituzionalmente illegittima in quanto non sarebbero esplicitati, né emergerebbero i profili di interesse generale che la Costituzione impone come condizione per qualunque limitazione della proprietà.
2. Nel giudizio ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri con il patrocinio dell'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la infondatezza della questione.
Ha osservato, in proposito, l'autorità intervenuta che finalità precipua della legge n. 36 del 1994 è la tutela dell'acqua, come bene primario della vita, con caratteristiche esclusive, e, come tale, non realmente suscettibile di dominio, ma solo di uso, ciò che ne giustificherebbe il particolare regime giuridico. La demanializzazione di tutte le acque tenderebbe, perciò, ad evitare sottrazioni all'uso pubblico di un bene progressivamente meno disponibile, ed a rendere effettivo un disegno di ottimizzazione delle scarse risorse idriche ancora utilizzabili.
In tale situazione, la normativa censurata non sarebbe in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, essendo evidente la diversità delle fattispecie messe a confronto dal giudice rimettente, così come la possibilità, riconosciuta dagli artt. 27 e seguenti della legge, di uso (anche se non più di dominio) da parte dei privati delle acque irrigue e di bonifica; né violerebbe l'art. 42 della Costituzione, in quanto l'utilità pubblica dell'acqua giustificherebbe l'esclusione del dominio privato su di essa; inoltre, la destinazione della norma alla generalità dei soggetti escluderebbe un obbligo di indennizzo.
Considerato in diritto
1. La questione sottoposta all'esame della Corte riguarda l'art. 1, comma 1, della legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in materia di risorse idriche), nella parte in cui, prevedendo la espropriazione generalizzata e senza indennizzo di tutte le acque superficiali e sotterranee, violerebbe: a) l'art. 3 della Costituzione, in quanto non sarebbe prevista la proprietà privata sui corpi idrici ricettori dell'acqua drenata dai terreni agricoli bonificati per consentirne l'utilizzazione agricola, regolandosi tale fattispecie in modo irragionevolmente discriminatorio rispetto a quella, non sostanzialmente diversa, della raccolta ed utilizzazione dell'acqua piovana a fini agricoli, consentita a norma dell'art. 28, comma 3, della stessa legge; b) l'art. 42 della Costituzione, in quanto non sarebbe prevista la corresponsione di un serio ristoro per la compressione del diritto dominicale dei proprietari dei terreni, adiacenti ai corsi d'acqua, il cui valore e la cui utilizzabilità a fini commerciali siano condizionati dalla stessa utilizzabilità del corso d'acqua, e che risulterebbero pertanto, pregiudicati dall'espropriazione di questo; c) ancora l'art. 42 della Costituzione, in quanto non sarebbero esplicitati, né emergerebbero a seguito di attività ermeneutica, i profili di interesse generale che la norma costituzionale impone come condizione per qualsiasi limitazione alla proprietà privata.
La questione non è fondata. Infatti, come questa Corte ha avuto occasione di affermare (sentenza n. 259 del 1996), il progressivo "aumento dei fabbisogni derivanti dai nuovi insediamenti abitativi e dalle crescenti utilizzazioni residenziali anche a seguito delle nuove tecnologie introdotte nell'ambito domestico, accompagnato da un incremento degli usi agricoli produttivi ed altri usi, ha indotto il legislatore (legge 5 gennaio 1994, n. 36), di fronte a rischi notevoli per l'equilibrio del bilancio idrico, ad adottare una serie di misure di tutela e di priorità dell'uso delle acque intese come risorse, con criteri di utilizzazione e di reimpiego indirizzati al risparmio, all'equilibrio e al rinnovo delle risorse medesime. Di qui la esigenza avvertita dallo stesso legislatore di un maggiore intervento pubblico concentrato sull'intero settore dell'uso delle acque, sottoposto al metodo della programmazione, della vigilanza e dei controlli, collegato ad una iniziale dichiarazione di principio, generale e programmatica (art. 1, comma 1, della legge n. 36 del 1994), di pubblicità di tutte le acque superficiali e sotterranee, indipendentemente dalla estrazione dal sottosuolo".
Ed appunto la "pubblicità delle acque" ha riguardo al regime dell'uso di un bene divenuto limitato, di modo che la dichiarazione di pubblicità di un'acqua, intesa come risorsa suscettibile di uso previsto o consentito, si basa su un interesse generale ritenuto in linea di principio esistente in relazione alla limitatezza delle disponibilità e alle esigenze prioritarie di uso dell'acqua.
2. Quanto alla mancanza di una generalizzata ed indiscriminata forma di pubblicità (e regime concessorio di uso) di tutte le acque, si tratta di una circostanza che trova fondamento nella scelta, tutt'altro che irragionevole, del legislatore, di privilegiare talune utilizzazioni tradizionali caratterizzate da esclusione di interesse generale o da una razionale ponderazione di interessi.
Né dall'esistenza di disposizioni che consentono, in regime di libertà, la raccolta delle acque piovane in invasi e cisterne al servizio di fondi agricoli o di singoli edifici (art. 28, comma 3, della legge n. 36 del 1994) o l'utilizzazione (purché compatibile con l'equilibrio del bilancio idrico) delle acque sotterranee per usi domestici, può inferirsi la illegittimità sul piano costituzionale della mancata previsione di proprietà privata dei "corpi idrici recettori di acque drenate dai terreni agricoli bonificati".
Infatti, tali acque fluenti in fosso o rio (salva l'ipotesi limite di percorso limitato del fosso non affluente in altro corpo idrico) si differenziano dalla mera raccolta di acque piovane in invasi e cisterne e ricadono nella disciplina generale delle acque in quanto si presuppone un interesse generale. Esse, inoltre, sono soggette al regime delle acque di bonifica (v. anche l'art. 27 della legge n. 36 del 1994) ove ne ricorrano i presupposti. Di conseguenza deve essere escluso alla radice ogni profilo di contrasto con l'art.3 della Costituzione.
3. I proprietari dei terreni, lungo i quali scorrono gli anzidetti fossi o rii (recettori di acqua drenata dai terreni bonificati o affiorante), anche se le relative acque sono divenute pubbliche, hanno una priorità dell'uso agricolo una volta assicurato l'eventuale consumo umano insieme agli altri agricoltori (art. 28, comma 3, della legge n. 36 del 1994); conservano (a determinate condizioni) il diritto di utilizzare (art. 28, comma 5) la falda sotterranea per usi domestici, ricomprendendovi, secondo una interpretazione giurisprudenziale, anche l'abbeveramento del bestiame e l'annaffiamento dei giardini ed orti intesi come unità colturale familiare; hanno avuto un periodo transitorio per l'esercizio del diritto al riconoscimento o alla concessione di acque se precedenti utilizzatori delle acque che hanno assunto natura pubblica (art. 34).
Di conseguenza, da un canto non vi è una apprezzabile compressione della utilizzazione economica dei fondi finitimi, mentre i titolari della proprietà privata non sono affatto pregiudicati nella loro pretesa di mantenimento della funzione essenziale di drenaggio degli anzidetti corpi idrici, che proprio dal carattere pubblico ricevono una ulteriore e maggiore protezione anche sotto il profilo dell'uso agricolo. D'altro canto, la dichiarazione di pubblicità delle acque si risolve in un limite della proprietà dovuto alla intrinseca e mutata rilevanza della risorsa idrica, rispondente alla sua natura, "come scelta non irragionevole operata dal legislatore" e quale modo di attuazione e salvaguardia di uno dei valori fondamentali dell'uomo (e delle generazioni future) all'integrità del patrimonio ambientale, nel quale devono essere inseriti gli usi delle risorse idriche (art. 1, commi 2 e 3, della legge n. 36 del 1994).
4. Su un piano più generale, deve essere confermato il principio che l'art. 42 della Costituzione non impone indennizzo quando la legge in via generale regoli diritti dominicali in relazioni a determinati fini per assicurare la funzione sociale con riferimento a intere categorie di beni (v. per tutte la sentenza n. 328 del 1990 con richiami), né quando sia regolata la situazione che i beni stessi hanno rispetto ad interessi della pubblica amministrazione, sempre che la legge abbia per destinataria la generalità dei soggetti (sentenza n. 245 del 1976).
Da quanto sin qui rilevato, emerge che nella fattispecie normativa in esame, quanto alla previsione del regime di pubblicità delle acque (art. 1, comma 1, della legge n. 36 del 1994), si è al di fuori dello schema della espropriazione, e quindi dell'obbligo di indennizzo. Né la limitazione al diritto di proprietà si risolve per i proprietari dei fondi finitimi al corpo idrico in una lesione irrimediabile del contenuto minimo della proprietà, tale da svuotarne il contenuto (cfr. la sentenza n. 529 del 1995).
Giova inoltre sottolineare che, come nella precedente sentenza n. 259 del 1996, non si fa, nel caso di specie, questione di acquisizione coattiva di manufatti e opere o terreni necessari per la captazione o l'utilizzo di acque divenute pubbliche.
Alla stregua delle considerazioni che precedono, risulta la infondatezza di tutti i profili ulteriori di illegittimità costituzionale in ordine alla compressione del diritto di proprietà e al difetto di funzione sociale sollevati in questa sede rispetto alla precedente questione esaminata dalla già citata sentenza n. 259 del 19 luglio 1996.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, della legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in materia di risorse idriche) sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 42 della Costituzione, dal Pretore di Firenze sezione distaccata di Empoli con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 dicembre 1996.
Renato GRANATA, Presidente
Riccardo CHIEPPA, Redattore
Depositata in cancelleria il 27 dicembre 1996.