Sentenza n. 340 del 1996

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SENTENZA N.340

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Dott. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 29 e 29 a) del decreto del Presidente della Giunta provinciale di Bolzano del 28 dicembre 1978, n. 32, come modificato dalla legge provinciale 26 marzo 1982, n. 10 (Modifica del testo unificato delle leggi provinciali sull'ordinamento dei masi chiusi, della legge provinciale sull'assistenza creditizia per assuntori di masi chiusi e della legge provinciale sull'amministrazione dei beni di uso civico), promosso con ordinanza emessa il 29 settembre 1995 dal Tribunale di Bolzano nel procedimento civile vertente tra Othmar Staffler e Anton Staffler, iscritta al n. 62 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell'anno 1996.

Visti gli atti di costituzione di Othmar Staffler e di Anton Staffler nonche' l'atto di intervento della Provincia autonoma di Bolzano;

udito nell'udienza pubblica del 9 luglio 1996 il Giudice relatore Valerio Onida;

uditi gli Avvocati Roland Riz e Sergio Panunzio per la Provincia autonoma di Bolzano e l'avv. Michele Costa per Anton Staffler.

Ritenuto in fatto

1.-- Il Tribunale di Bolzano, con ordinanza emessa il 29 settembre 1995, pervenuta a questa Corte il 16 gennaio 1996, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, degli artt. 29 e 29 a) del testo unificato delle leggi provinciali della Provincia di Bolzano sull'ordinamento dei masi chiusi, emanato con decreto del Presidente della Giunta provinciale di Bolzano del 28 dicembre 1978, n. 32, come modificato dalla legge provinciale 26 marzo 1982, n. 10 (Modifica del testo unificato delle leggi provinciali sull'ordinamento dei masi chiusi, della legge provinciale sull'assistenza creditizia per assuntori di masi chiusi e della legge provinciale sull'amministrazione dei beni di uso civico), nella parte in cui "non prevedono che l'obbligo di versamento alla massa ereditaria da parte dell'assuntore del maso, per la divisione suppletoria -- previsto in ipotesi di alienazione o di esecuzione forzata -- si estenda anche all'espropriazione per pubblica utilità".

Secondo lo speciale ordinamento dei masi chiusi, disciplinato da legge provinciale di Bolzano in base alla competenza attribuita alla Provincia dall'art. 11, n. 8, dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige di cui al d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670, le aziende agricole costituite in maso chiuso sono considerate, in sede di divisione ereditaria, unità indivisibili e non possono essere assegnate che ad un unico erede o legatario, designato, in caso di successione legittima, secondo un ordine di precedenza fissato dalla legge, e che diviene l'"assuntore" del maso.

Il valore o prezzo di assunzione, di cui l'assuntore diviene debitore nei confronti della massa ereditaria, se non e' determinato dal de cuius e se gli interessati non addivengono ad un accordo, e' determinato "in base al valore di reddito" dell'azienda.

Tuttavia, in caso di alienazione totale o parziale del maso entro il decennio dalla apertura della successione, ovvero di vendita o assegnazione a creditori dello stesso in esecuzione forzata, entro lo stesso termine, l'assuntore e' tenuto a versare alla massa ereditaria, per la divisione "suppletoria", l'eccedenza sul prezzo di assunzione del ricavo della alienazione, della vendita o del valore di assegnazione; ma se entro due anni dal sorgere dell'obbligazione l'assuntore acquista un nuovo maso ovvero acquista terreni da incorporare nel maso, o investe il ricavato in miglioramenti, egli ha facoltà di dedurre dal versamento alla massa ereditaria l'importo di detti investimenti.

La questione di legittimità costituzionale e' sorta, su iniziativa di parte, in un giudizio civile in cui un coerede dell'assuntore di un maso chiuso chiedeva che quest'ultimo venisse condannato a versare alla massa ereditaria, per la divisione "suppletoria", l'eccedenza, rispetto al prezzo di assunzione del maso, del ricavo derivante dal versamento di indennizzo per espropriazione del fondo per pubblica utilità, così come previsto espressamente dalla legge per il caso di alienazione totale o parziale e per il caso di vendita o assegnazione del maso a creditori in sede di esecuzione forzata. Il giudice remittente disattende anzitutto le eccezioni e contestazioni del convenuto volte a negare la rilevanza della questione di costituzionalità: in particolare afferma che si e' in presenza di un caso di assunzione del maso anche se questo fu ceduto a suo tempo a titolo oneroso dal padre al figlio, attuale titolare dello stesso; che l'esistenza di beni al tempo dell'apertura della successione e l'avvenuta divisione fra coeredi non appaiono necessarie perchè si possa fare luogo alla divisione suppletoria; che la somma ricavata dall'espropriazione non era stata se non in parte investita dall'assuntore nel maso; che il diritto dei coeredi alla divisione suppletoria non può ritenersi prescritto; che non vi e' ragione di applicare le norme del codice civile sul legato in sostituzione di legittima e sulla divisione ereditaria, non rivestendo l'attore la qualità di legatario.

Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo rileva che la divisione suppletoria era stata bensì originariamente prevista dalla legge solo in rapporto all'alienazione volontaria del bene, e l'estensione al caso della esecuzione forzata era stata argomentata da questa Corte, nella sentenza n.505 del 1988, anche con l'esigenza di scoraggiare operazioni speculative dell'assuntore o una conduzione negligente o fraudolenta del maso tale da provocare l'esecuzione forzata medesima (senza che peraltro detta sentenza abbia limitato l'estensione dell'istituto al solo caso di accertata condotta fraudolenta dell'assuntore): ma che l'istituto della divisione suppletoria risponde anche ad esigenze di equità distributiva, in funzione del riequilibrio delle sfere patrimoniali dei coeredi.

Ne' tale esigenza sarebbe smentita dalla norma che stabilisce il termine decennale dall'apertura della successione per l'applicabilità dell'istituto, in quanto tale termine sarebbe volto allo scopo di non ostacolare eccessivamente la circolazione dei beni immobiliari.

Ad avviso del remittente sarebbero compromessi innegabili principi di giustizia sostanziale se il meccanismo di riequilibrio in questione si applicasse solo nel caso di alienazione volontaria e di esecuzione forzata, e non in caso di espropriazione, posto che gli effetti economici di arricchimento dell'assuntore, per la differenza fra valore di realizzo e prezzo di assunzione, sarebbero del tutto identici.

2.-- Si sono costituiti il signor Othmar Staffler, attore nel giudizio a quo, ma con atto depositato fuori termine, e il sig. Anton Staffler, convenuto nel giudizio a quo, quest'ultimo chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.

Secondo la parte convenuta, se appare giustificata la divisione suppletoria nel caso di alienazione o di esecuzione forzata, allo scopo di evitare che l'assuntore possa effettuare operazioni speculative a danno della massa ereditaria, ciò non varrebbe nel caso di espropriazione per pubblica utilità. Mancherebbe in questo caso un arricchimento dell'assuntore, perchè l'indennizzo e' per sua natura inferiore al valore venale del bene, e anzi, verificandosi un ristoro solo parziale del pregiudizio subito dall'espropriato, vi sarebbe caso mai un diritto di quest'ultimo di pretendere dagli altri coeredi la restituzione proporzionale di quanto ad essi versato "sulla base della valutazione di un bene che per essere stato, totalmente o parzialmente, espropriato, ha perso parte del proprio valore originario".

3.-- E' intervenuto il Presidente della Giunta della Provincia autonoma di Bolzano, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

L'interveniente, richiamando la sentenza n. 505 del 1988 di questa Corte, ritiene che il fondamento dell'obbligo di divisione suppletoria vada individuato nella volontarietà dell'alienazione del maso o almeno, nel caso di vendita forzata, nel comportamento colpevole dell'assuntore che si sarebbe sottratto al proprio obbligo di coltivazione del fondo: e dunque tale obbligo di divisione si configurerebbe come una sanzione. Nel caso dell'espropriazione, invece, secondo l'interveniente, si sarebbe di fronte ad una oggettiva impossibilità di coltivare il maso; ed inoltre non sarebbe nemmeno giustificato sotto l'aspetto della ragionevolezza sottoporre l'assuntore espropriato ad una ulteriore "misura sanzionatoria" quale la divisione suppletoria dell'indennizzo. Peraltro vi sarebbe una differenza sostanziale fra alienazione o vendita forzata ed espropriazione: in quest'ultimo caso si consegue non il prezzo di mercato del bene, ma solo un indennizzo ad esso inferiore.

4.-- In prossimità dell'udienza hanno presentato memorie l'attore nel giudizio a quo (costituito pero' fuori termine), il convenuto nello stesso giudizio e il Presidente della Provincia interveniente.

La parte convenuta ripropone anzitutto l'eccezione già svolta davanti al giudice remittente, secondo cui nella specie non si sarebbe trattato di assunzione in quanto il convenuto aveva acquistato il maso in forza di un contratto di compravendita, non impugnato per simulazione dall'attore ne' da altri.

La parte insiste poi per l'infondatezza della questione, richiamando la sentenza n. 505 del 1988 di questa Corte e rilevando che nel caso dell'espropriazione, a differenza che nel caso di esecuzione forzata -- nel quale vi e' pur sempre un comportamento volontario dell'assuntore che con la propria condotta omissiva o negligente ha determinato il disfacimento del patrimonio immobiliare rappresentato dal maso --, l'assuntore sarebbe vittima e non autore della vicenda che dà luogo al trasferimento del bene. L'assuntore, se obbligato alla divisione suppletoria, subirebbe un ulteriore pregiudizio dopo quello derivante dall'esproprio con un indennizzo inferiore al valore del bene. Non dovrebbe trarre in inganno la circostanza che l'indennizzo, in termini monetari, possa essere più elevato del prezzo di assunzione, perchè inciderebbero su ciò vari elementi, fra i quali l'inflazione, che non sarebbero "comparabili concettualmente".

Inoltre, l'indennizzo ricompenserebbe l'espropriato per la sottrazione di parte del bene, ma non per la perdita del "valore aggiuntivo che la parte espropriata apportava al maso ai fini della funzionalità dello stesso".

5.-- A sua volta l'interveniente sostiene che elemento costitutivo essenziale della ratio della disciplina in questione sarebbe la "logica sanzionatoria", che non potrebbe operare nel caso di espropriazione, costituente factum principis estraneo al comportamento dell'assuntore.

D'altronde, secondo l'interveniente, se si applicasse la disciplina in questione al caso dell'espropriazione, ne conseguirebbe l'applicabilità a tutte le ipotesi di trasferimento di proprietà del maso, il che equivarrebbe a trasformare radicalmente la ratio della disciplina medesima. Quest'ultima dovrebbe rinvenirsi unicamente in una esigenza redistributiva ed equiparativa. Questa pero' non sarebbe sufficiente a costituire da sola, cioé senza essere coniugata con una ratio sanzionatoria, il fondamento dell'istituto della divisione suppletoria, sia perchè non spiegherebbe il termine decennale (che, secondo l'interveniente, non potrebbe fondarsi su esigenze di circolazione dei beni), sia soprattutto perchè non sarebbe conciliabile con la norma (art. 29, primo comma, t.u.) secondo cui non si considera alienazione e quindi non dà luogo a divisione suppletoria la cessione del maso a parenti in linea retta.

Una radicale trasformazione della ratio dell'istituto non potrebbe, secondo l'interveniente, costituire l'esito del giudizio di costituzionalità, soprattutto in considerazione delle caratteristiche del tutto peculiari del maso chiuso, secondo la tradizione normativa alla quale la disciplina provinciale non potrebbe non essere aderente.

Infine l'interveniente argomenta che secondo i principi generali in materia di divisione ereditaria ogni valutazione andrebbe fatta rebus sic stantibus con riferimento al momento della divisione, e dunque gli eventi successivi non potrebbero trovare alcuna considerazione, così come accade per l'aumento di valore di un bene, diverso dal maso chiuso, assegnato definitivamente nella divisione; e che l'indennizzo di esproprio e' inferiore al valore di mercato del bene, specie dopo che a seguito della sentenza n. 80 del 1996 di questa Corte risulta applicabile anche in Provincia di Bolzano il criterio di indennizzo stabilito dalla legge statale (art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992), onde la differenza eventuale fra indennizzo e prezzo di assunzione del maso risulterebbe ormai livellata, se non addirittura invertita a vantaggio di quest'ultimo: il che toglierebbe fondamento sostanziale alle esigenze di equità redistributiva invocate dal giudice a quo.

Considerato in diritto

1.-- La questione, sollevata in riferimento all'art. 3 della Costituzione, investe gli articoli 29 e 29 a) del testo unificato delle leggi provinciali della Provincia di Bolzano sull'ordinamento dei masi chiusi, in quanto non prevedono l'applicazione dell'istituto della divisione suppletoria anche nel caso di espropriazione per pubblica utilità del maso entro il decennio dall'assunzione. Ma in sostanza la censura, che denuncia una omissione, e quindi postula una pronuncia additiva, va riferita all'articolo 29, che disciplina l'ipotesi principale e originaria dell'alienazione del maso o di parti del medesimo, mentre il successivo art. 29 a) si limita a contemplare l'ipotesi particolare della esecuzione forzata.

2.-- L'eccezione di inammissibilità per irrilevanza proposta dalla parte privata regolarmente costituita non può essere accolta.

La valutazione della rilevanza della questione, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, spetta in via principale al giudice a quo, e può essere disattesa solo se palesemente incongrua o contraddetta dagli atti.

Ora, nel giudizio a quo il remittente ha respinto l'eccezione della parte, fondata sulla asserita non configurabilità nella specie di una assunzione del maso, acquistato a titolo oneroso dal convenuto, e ha ritenuto la questione rilevante, con motivazione che non appare prima facie implausibile.

3.-- Nel merito, la questione e' fondata.

L'istituto della divisione "suppletoria", inteso a ricondurre alla massa ereditaria l'eccedenza del prezzo di cessione del maso rispetto al valore di assunzione, commisurato al reddito e dunque istituzionalmente assai inferiore al primo, era in origine previsto dal legislatore provinciale solo con riferimento all'ipotesi dell'alienazione volontaria del bene nel decennio dall'assunzione ovvero, se l'assuntore era minorenne, dal raggiungimento da parte di questi della maggiore età (art. 29, primo comma, del testo unificato, nella formulazione anteriore alle modifiche apportate con legge provinciale n. 10 del 1982).

Anche se in tale configurazione originaria l'istituto si prestava ad essere inteso in una logica di tipo sanzionatorio, come strumento cioé diretto a colpire l'assuntore che prima del termine decennale previsto si liberasse del maso realizzandone il valore di mercato, una siffatta logica non appare più esclusiva ne' dominante, ma anzi e' largamente soppiantata da criteri di carattere oggettivo (legati alla funzione del maso chiuso e ad esigenze di ripristino dell'equità distributiva fra i coeredi allorchè tale funzione venga meno) a seguito dell'intervento del legislatore provinciale del 1982.

Con la riforma recata dalla legge provinciale n. 10 del 1982, da un lato si introdusse nel testo unificato l'art. 29 a), col quale esplicitamente si estendeva l'obbligo di divisione suppletoria al caso di vendita o di assegnazione in esecuzione forzata del maso, sempre entro il termine del decennio, stabilendo che l'assuntore e' tenuto a versare alla massa ereditaria l'eccedenza del ricavo della vendita o del valore di assegnazione sul prezzo di assunzione (limitando pero' alla somma residua spettante al debitore esecutato la facoltà dei coeredi di esercitare il proprio diritto sul ricavato dell'esecuzione forzata: art. 29 a), secondo comma).

Dall'altro lato, venne riformulato l'art. 29 del testo unificato, sopprimendo l'accenno alla volontarietà dell'alienazione come presupposto per l'insorgere dell'obbligo di divisione suppletoria (primo comma, primo periodo), e per altro verso stabilendo sia che la cessione del maso a parenti in linea diretta non si considera a questi fini come alienazione (primo comma, secondo periodo), sia che all'obbligo di divisione suppletoria possono essere sottratte le somme reinvestite dall'assuntore, entro due anni, per l'acquisto di un nuovo maso o per l'ampliamento o il miglioramento del maso (quinto comma: tale regola e' estesa esplicitamente al caso della vendita o assegnazione forzata dall'art. 29 a), secondo comma).

La nuova disciplina appare più chiaramente ispirata alle esigenze di garantire la funzione oggettiva del maso nell'ambito della famiglia (attraverso la norma di favore per la cessione a parenti in linea diretta), e di collegare alla permanenza di tale funzione (anche attraverso la sostituzione di altri fondi a quelli trasferiti) il mantenimento del vantaggio patrimoniale discendente all'assuntore dal criterio di calcolo del valore di assunzione commisurato al reddito -- evidentemente inteso a salvaguardare l'unità del maso stesso -- e la conseguente disuguaglianza che si produce a carico dei coeredi diversi dall'assuntore.

Ora, quando quella funzione oggettiva venga meno, per effetto del trasferimento della proprietà dei fondi fuori dall'ambito dei parenti in linea diretta dell'assuntore, vuoi a seguito di vendita, volontaria o forzata, vuoi a seguito di espropriazione per pubblica utilità (e a tal proposito si può anche ricordare la norma che prevede l'esproprio integrale del maso, a richiesta del proprietario, qualora, a seguito della espropriazione parziale progettata, vengano a mancare le caratteristiche oggettive che consentono di attribuire all'azienda la qualifica di maso chiuso: art. 15 t.u.), viene meno la fondamentale ragione giustificatrice della disparità fra coeredi, e non può dunque non riespandersi l'esigenza di un loro eguale trattamento.

4.-- Non e' mancato invero chi, a seguito dell'accennata riforma legislativa, e in particolare della soppressione dell'avverbio "volontariamente" nel primo comma dell'art. 29, ha ritenuto che l'obbligo di divisione suppletoria sorga ormai ogni volta che, entro il decennio dall'assunzione, il maso venga trasferito in tutto o in parte ricavandosene un corrispettivo, e dunque anche nel caso di espropriazione (a parte il caso della vendita o assegnazione nel procedimento di esecuzione forzata, espressamente regolato dall'art. 29 a). E tuttavia questa possibilità interpretativa, ignorata dal giudice a quo, si scontra con la difficoltà di estendere ad una ipotesi non prevista espressamente una disciplina che costituisce pur sempre una eccezione alla più ampia eccezione, rispetto alle regole generali, rappresentata dalla disciplina sulla divisione ereditaria del patrimonio di cui faccia parte un maso chiuso. Conviene dunque attenersi all'interpretazione fatta propria dal giudice remittente, del resto non messa in discussione in alcun modo, nel presente giudizio, dalle parti costituite o intervenute.

Così interpretata, la norma denunciata appare pero' in contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza. Una disciplina che escluda l'obbligo di divisione suppletoria nel caso di espropriazione per pubblica utilità, la quale faccia conseguire all'assuntore, attraverso l'indennità, somme eccedenti il valore di assunzione del maso (non reinvestite nel medesimo o in un'azienda che ne perpetui la funzione), non appare infatti sorretta da ragioni giustificatrici della disparità di trattamento fra erede assuntore del maso e altri coeredi.

Non si tratta, come e' ovvio, di disconoscere le caratteristiche tutte particolari dell'istituto tradizionale del maso chiuso, come sopravvive da noi nella legislazione della Provincia autonoma di Bolzano, caratteristiche che già questa Corte individuo' in "quelle della indivisibilità del fondo, della sua connessione con la compagine familiare e della "assunzione" di esso fondo come "maso chiuso" da parte di un unico soggetto, cui un sistema particolare -- anche relativo al procedimento di assegnazione e di determinazione del valore del fondo nel caso di pluralità di eredi -- permette di perpetuare e garantire nel maso stesso il perseguimento delle finalità economiche e sociali proprie dell'istituto" (sentenza n.4 del 1956);

ne' si deve ignorare che l'istituto "non può qualificarsi ne' rivivere se non con le caratteristiche sue proprie derivanti dalla tradizione e dal diritto vigente" prima del suo disconoscimento legale, nell'ordinamento italiano, avvenuto con la estensione all'Alto Adige della legislazione nazionale (ibidem). Ma si tratta solo di seguire il criterio per cui deroghe all'eguaglianza davanti alla legge nella disciplina di posizioni costituzionalmente garantite, pur introdotte nell'esplicazione di una autonomia legislativa connotata da particolare specialità, come e' quella della Provincia di Bolzano, in tanto possono giustificarsi sul piano costituzionale, in quanto trovino fondamento nella ratio della speciale regolamentazione in questione: mentre al di fuori di questi limiti torna a dominare l'esigenza di parità.

5.-- In questo senso del resto e' la ratio decidendi della sentenza n. 505 del 1988, la quale, riferendosi alla disciplina anteriore alla riforma del 1982, riconobbe che la "logica sanzionatoria" con cui si spiegava l'esclusione della pretesa dei coeredi nell'ipotesi di trasferimento coattivo del maso, "almeno nel caso di vendita o assegnazione forzata per debiti [...] non e' più integrata in una giustificazione sostanziale che valga a legittimare la disparità di trattamento dei coeredi", onde "si propaga anche al caso di vendita o assegnazione forzata l'esigenza di equità che impone all'assuntore l'obbligazione restitutoria verso i coeredi": così pervenendo a dichiarare l'illegittimità costituzionale della norma allora impugnata nella parte in cui non prevedeva l'applicazione della divisione suppletoria "in caso di trasferimento coattivo del maso chiuso, in un procedimento di esecuzione forzata instaurato entro il termine ivi contemplato", senza peraltro alcun riferimento alle cause del debito e dell'esecuzione forzata.

L'espropriazione per pubblica utilità costituisce certo una ipotesi di trasferimento della proprietà in se' diversa da quella della vendita o dell'assegnazione a seguito di esecuzione forzata: ma non vi e' differenza apprezzabile fra le due ipotesi (e fra queste e l'ipotesi della vendita volontaria) sotto il profilo, che qui viene in considerazione, dell'oggettivo venir meno della funzione del maso e della sua permanenza nell'ambito della famiglia. Anche in questo caso, dunque, devono riespandersi le esigenze di ripristino dell'eguale trattamento, che stanno alla base dell'istituto della divisione suppletoria.

6.-- Ne' vale richiamarsi al principio, proprio del diritto delle divisioni ereditarie, per cui non rileva, ai fini di rimettere in discussione la divisione, l'eventualità che alcuno dei beni oggetto della medesima abbia acquistato maggior valore per fatti successivi.

Nella specie, infatti, la differenza fra il valore di realizzo del bene (attraverso il conseguimento del suo prezzo o dell'indennizzo di espropriazione) e quello di assunzione non fa capo, in linea di principio, ad eventi sopravvenuti alla assunzione del maso, ma alla istituzionale divaricazione fra il valore di mercato del bene e il criterio legale di computo del valore di assunzione, collegato al reddito: ed e' dunque una differenza non eventuale, ma presupposta e voluta dalla legge, al fine di rendere possibile il mantenimento dell'unità del maso, e dunque di assicurarne la funzione.

Venuta meno quest'ultima, o comunque realizzato il maggior valore di mercato del bene, viene meno anche la ragione per la quale il legislatore ha imposto tale divaricazione.

Ne', infine, può aver rilievo il fatto che l'indennizzo di esproprio sia inferiore al valore venale del bene. Infatti l'obbligo di versamento alla massa ereditaria, per la divisione suppletoria, riguarda soltanto l'eccedenza, quale che sia, della somma conseguita rispetto al valore di assunzione, e che non venga reinvestita entro il biennio per l'ampliamento o il miglioramento del maso o per l'acquisto di un nuovo maso.

E' poi problema interpretativo, che non deve essere risolto in questa sede, quello di stabilire i criteri di determinazione dell'eccedenza nel caso di espropriazione parziale del maso, che incida sul valore della parte residua dello stesso.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 29 del "testo unificato delle Leggi provinciali sull'ordinamento dei masi chiusi" approvato con decreto del Presidente della Giunta provinciale di Bolzano del 28 dicembre 1978, n. 32, come modificato dalla legge provinciale 26 marzo 1982, n. 10 (Modifica del testo unificato delle leggi provinciali sull'ordinamento dei masi chiusi, della legge provinciale sull'assistenza creditizia per assuntori di masi chiusi e della legge provinciale sull'amministrazione dei beni di uso civico), nella parte in cui non prevede l'obbligo di versamento alla massa ereditaria, per la divisione suppletoria, anche dell'eccedenza, rispetto al prezzo di assunzione, del valore conseguito dall'assuntore a titolo di indennità di espropriazione per pubblica utilità intervenuta entro dieci anni dall'apertura della successione, con le stesse modalità e gli stessi limiti stabiliti per il caso di alienazione del maso.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14/10/96.

Mauro FERRI, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

Depositata in cancelleria il 18/10/96.