Ordinanza n. 314 del 1996

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ORDINANZA N. 314

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI    

-     Dott. Renato GRANATA                           

-     Prof. Giuliano VASSALLI                            

-     Prof. Francesco GUIZZI                                  

-     Prof. Cesare MIRABELLI                          

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO                              

-     Avv. Massimo VARI                         

-     Dott. Cesare RUPERTO                             

-     Dott. Riccardo CHIEPPA                              

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY                              

-     Prof. Valerio ONIDA                                  

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE                                

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 192, comma 3, e 273 del codice di procedura penale, promossi con n. 2 ordinanze emesse il 18 novembre 1995 e il 2 novembre 1995 dal Tribunale di Roma nei procedimenti penali a carico di Baldoni Carla, rispettivamente iscritte ai nn. 23 e 24 del registro ordinanze 1996 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell'anno 1996.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 26 giugno 1996 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

RITENUTO che, adito in sede di riesame avverso il provvedimento del locale Giudice per le indagini preliminari in data 27 gennaio 1995, che aveva sottoposto Baldoni Carla alla misura cautelare degli arresti domiciliari, il Tribunale di Roma, con ordinanza del 13 febbraio 1995, annullava il provvedimento impugnato per l'assenza dei gravi indizi di colpevolezza richiesti dall'art. 273 del codice di procedura penale, più in particolare, anche per la mancanza di riscontri individualizzanti delle chiamate in correità formulate nei confronti dell'indagata;

che, a seguito di ricorso del Pubblico ministero, la Corte di cassazione, con sentenza del 28 giugno 1995, annullava con rinvio la decisione del tribunale, richiamando la statuizione delle Sezioni unite (Sez. un., 21 aprile 1995, Costantino) che, nel comporre il contrasto giurisprudenziale circa la necessità o meno, per ritenere sussistenti i gravi indizi di colpevolezza ai fini dell'adozione di misure cautelari (indizi costituiti nella specie da chiamate di correo), dell'esistenza di riscontri individualizzanti, ha concluso - per quel che attiene alla fase delle indagini preliminari - in senso negativo;

che con la pronuncia di annullamento la Cassazione enunciava il seguente principio di diritto: "Non occorre ... che il riscontro esterno del dichiarante riguardi in modo specifico la condotta criminosa del chiamato ... ma basta, ai fini dell'attendibilità delle dichiarazioni accusatorie, che queste siano corroborate da riscontri anche non individualizzanti ... ma tali da portare a ritenere complessivamente credibili le dichiarazioni del chiamante";

che, con ordinanza del 2 novembre 1995, adottata a seguito della ricordata pronuncia di annullamento, il Tribunale, premesso di essere vincolato - oltre che dal "diritto vivente" scaturente dalla ricordata pronuncia delle Sezioni unite - anche dal principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione nel procedimento a quo, con la conseguenza di dover rigettare la richiesta di riesame, ha allora denunciato, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 13, secondo comma, 24, secondo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, l'art. 192, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui, così interpretato, non richiede, ai fini dell'adozione di una misura cautelare personale nella fase delle indagini preliminari, che la chiamata di correo debba essere confermata da un riscontro esterno individualizzato, nonché l'art. 273 dello stesso codice, perché, sempre nell'interpretazione della Corte di cassazione, consentirebbe di ravvisare la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza ai fini dell'adozione di una misura cautelare personale, in presenza di chiamate di correo non provviste di detti riscontri, "non valutabili come prove nel dibattimento, o comunque geneticamente insufficienti a formare prova senza riscontro individualizzato";

che il rimettente osserva come l'espressione "gravi indizi di colpevolezza", utilizzata dalla norma da ultimo richiamata, è sempre stata interpretata - anche nella fase delle indagini preliminari - come corrispondente all'esistenza di una "rilevante probabilità di condanna" in esito al processo; un'interpretazione che risulta funzionale alla necessità di evitare ingiuste detenzioni o comunque ingiuste compressioni della libertà personale, esigenze presidiate dagli artt. 13, secondo comma, 24, secondo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, sotto il profilo sia della necessità di un atto motivato sia della riserva di legge, nel senso che non ogni motivazione è da ritenere osservante della garanzia costituzionale sopra menzionata, ma solo quella che, assicurando le garanzie di difesa, evita ingiuste detenzioni;

che la distinzione tra prove e indizi si giustifica solo in funzione della fase delle indagini preliminari, ma non in relazione alla valutazione degli atti di indagine, il tutto risultando comprovato dal fatto che il codice non contiene alcuna differenza terminologica a seconda che ad adottare la misura sia il giudice per le indagini preliminari o il giudice del dibattimento e che, ove venga pronunciata sentenza in esito a giudizio abbreviato, quegli indizi sufficienti ai fini della misura non possono costituire prova ai fini della condanna;

che risulterebbe compromesso anche il rispetto del principio di eguaglianza, per non essere necessaria la presenza di riscontri individualizzanti nella sola fase delle indagini e non anche quando la misura venga adottata nel corso del giudizio;

che, sempre nel corso delle indagini preliminari relative allo stesso procedimento penale, il Pubblico ministero proponeva, a sua volta, ricorso per cassazione avverso il provvedimento del Giudice per le indagini preliminari che aveva disatteso la sua richiesta di adozione della misura della custodia cautelare in carcere disponendo nei confronti della Baldoni la misura degli arresti domiciliari;

che, con provvedimento del 24 febbraio 1995, il Tribunale dichiarava l'inammissibilità dell'appello essendo l'ordinanza del giudice per le indagini preliminari già stata annullata in sede di riesame;

che a seguito di ricorso del Pubblico ministero, la Corte di cassazione, con sentenza dell'11 luglio 1995, annullava con rinvio il provvedimento impugnato;

che, con ordinanza del 18 novembre 1995, il Tribunale di Roma ha, allora, sollevato, pressoché nei medesimi termini di cui all'ordinanza emessa il 2 novembre 1995, questione di legittimità degli artt. 192, comma 3, e 273 del codice di procedura penale, sempre in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 13, secondo comma, 24, secondo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione;

che in entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che, in via principale, la questione venga dichiarata inammissibile e, in subordine, non fondata;

che l'inammissibilità deriverebbe dal fatto che il giudice a quo, anziché proporre una quaestio de legitimitate, si sarebbe limitato a censurare la linea interpretativa di recente seguita dalle Sezioni unite della Corte di cassazione; una linea, oltre tutto, non in grado di essere elevata al rango di "diritto vivente", risultando anche successive decisioni che hanno ritenuto operante l'art. 192, comma 3, del codice di procedura penale, ai fini dell'adozione di misure cautelari;

che la non fondatezza conseguirebbe, con riferimento alla dedotta violazione del principio di eguaglianza, dall'arbitraria equiparazione fra elementi richiesti ai fini dell'adozione di una misura cautelare ed elementi richiesti ai fini della prova all'esito del giudizio di merito; con riferimento all'art. 24, secondo comma, della Costituzione, dall'essere comunque apprestati all'indagato gli strumenti per la propria difesa, primo fra tutti la possibilità di richiedere il riesame; del tutto erroneamente chiamati in causa sarebbero, poi, gli artt. 13, secondo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione: perché l'interpretazione da parte delle Sezioni unite delle disposizioni denunciate non incide in alcun modo né sulla riserva di legge in materia di provvedimenti privativi della libertà personale né impedisce, in presenza di qualificati indizi di colpevolezza, l'applicazione di misure cautelari prima della sentenza definitiva.

CONSIDERATO che, poiché le ordinanze di rimessione propongono un'identica questione, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con un unico provvedimento;

che l'eccezione di inammissibilità dedotta dall'Avvocatura generale dello Stato nel suo atto di intervento per il Presidente del Consiglio dei ministri, per essere stata proposta non una questione di legittimità costituzionale, ma una mera censura alla linea interpretativa seguita dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, deve essere disattesa;

che, infatti, questa Corte si è costantemente pronunciata nel senso che il giudice del rinvio può sollevare dubbi di costituzionalità concernenti l'interpretazione della norma, quale risultante dal principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione, dovendo la norma stessa ricevere ancora applicazione in sede di rinvio (v., fra le tante, sentenza n. 321 del 1995), cosicché il giudice di tale fase, essendo vincolato al detto principio di diritto, non ha possibilità diversa, per contestare la regula iuris indicata dalla Cassazione, da quella di sollevare questione di legittimità costituzionale della norma che sarebbe tenuto ad applicare, proprio perché così interpretata;

che una simile regola, operante anche nel caso in cui il principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione costituisca la conseguenza di una linea ermeneutica del tutto isolata (v. sentenza n. 130 del 1993), risulta, a maggior ragione, riferibile al caso in cui - come nella specie - il detto principio rappresenti l'adeguamento all'indirizzo interpretativo delle Sezioni unite, alle quali spetta il compito, secondo le regole stabilite dall'art. 618 del codice di procedura penale e dall'art. 173, comma 3, delle norme di attuazione dello stesso codice, di assicurare l'uniforme interpretazione della legge, quando vi sia contrasto tra le Sezioni della stessa Corte;

che, peraltro, il rimettente ha puntualmente indicato i profili di contrasto delle norme denunciate con precisi parametri costituzionali, così da indurre comunque ad escludere che il petitum effettivamente perseguito sia volto alla proposizione di una questione di mera interpretazione;

considerato, ancora, che effettivamente le Sezioni unite della Corte di cassazione, con la decisione sopra ricordata, hanno escluso che l'art. 192 del codice di procedura penale e, quindi, pure i commi 3 e 4 di tale articolo, siano applicabili "anche alla fase delle indagini preliminari ed in particolare alle misure cautelari", una fase in cui, appunto, al fine dell'adozione delle misure cautelari, è necessario che venga accertata la sola gravità degli indizi;

che, di conseguenza, l'inapplicabilità dei detti commi dell'art. 192 del codice di procedura penale rende non operanti, in materia di misure cautelari, i criteri interpretativi tracciati dalla giurisprudenza, con riferimento alla decisione pronunciata all'esito del giudizio di cognizione, e che, relativamente a tale pronuncia, si sostanziano nell'affermazione che il riscontro deve avere direttamente ad oggetto la persona del chiamato in correità, in relazione allo specifico fatto storico oggetto dell'addebito, per non potere gli "altri elementi di prova che confermano l'attendibilità" della chiamata rappresentare soltanto una conferma della generica affidabilità del dichiarante, dovendo essi apportare, invece, alla dichiarazione, già positivamente passata al vaglio del giudizio di attendibilità intrinseca, il contributo di altri elementi di prova interpretabili come conferma degli specifici fatti oggetto dell'accusa (v. Sez. un., 22 febbraio 1993, Marino);

che, secondo la ricordata decisione delle Sezioni unite cui il giudice a quo addebita l'interpretazione contra Constitutionem della normativa in tema di chiamata in correità con riferimento alle misure cautelari, l'applicabilità dell'art. 192, comma 3, del codice di procedura penale, proietta i suoi riverberi sull'interpretazione dell'art. 273 dello stesso codice - pur esso ora chiamato in causa dal giudice a quo, con conseguente denuncia di una sorta di combinato disposto delle due disposizioni - nel senso che la verifica dell'attendibilità estrinseca della chiamata in correità in materia di misure cautelari, svincolata dal precetto dell'art. 192, comma 3, viene ad essere assoggettata ad una specifica disciplina, dalla quale deriva, quale condizione necessaria e sufficiente per l'adozione della misura, la sussistenza di "gravi indizi di colpevolezza"; con la conseguenza che la dichiarazione del coimputato (o dell'imputato in procedimento connesso o interprobatoriamente collegato) è regolamentata dalla sola disciplina in tema di misure cautelari che richiede, quale condizione necessaria e sufficiente per l'adozione della misura, l'esistenza di "gravi indizi di colpevolezza", non coincidente, dunque, con l'indizio richiesto ai fini della decisione di condanna, necessariamente connotato dai requisiti, oltre che della gravità, anche della precisione e della concordanza; con in più la sottrazione della chiamata in correità a fini cautelari dal contesto normativo concernente la prova, entro il cui ambito (titolo I del libro III del codice di procedura penale) il legislatore l'ha collocata solo quale condizione necessaria purché sussistano i requisiti implicitamente enunciati dall'art. 192, comma 3, norma che è, quindi, posta in prevalente funzione di garanzia;

che, dunque, secondo la decisione delle Sezioni unite, alla cui interpretazione si contesta di aver dato luogo ad una norma costituzionalmente illegittima, i riscontri esterni necessari ai fini dell'adozione della misura possono essere "di qualsiasi natura, rappresentativi o logici", senza che, però, proprio in forza dell'inapplicabilità dell'art. 192, comma 3, del codice di procedura penale, gli elementi di conferma debbano necessariamente profilarsi "come individualizzanti nei confronti del singolo chiamato", richiedendosi soltanto che "la chiamata, per poter giustificare l'adozione della misura", presenti "una consistenza indiziaria tale da fondare una qualificata probabilità di colpevolezza", in modo tale da corroborare l'affidabilità della dichiarazione, ma senza che sia indispensabile "che i riscontri riguardino in modo specifico la posizione soggettiva del chiamato, poiché l'assenza di questo ulteriore requisito - nell'ipotesi in cui non risultino elementi contrari al coinvolgimento di costui - non esclude, di per sé, anche per la naturale incompletezza delle indagini, l'attendibilità complessiva della chiamata, una volta che la stessa sia stata accertata sia sotto il profilo intrinseco sia - nei termini anzidetti - sotto il profilo estrinseco";

considerato, inoltre, che la detta pronuncia, pur avendo escluso l'applicabilità dell'art. 192, comma 3, del codice di procedura penale, in materia di misure cautelari personali, ha affermato che, pure per il rigoroso accertamento richiesto ai fini della verifica dell'intrinseca attendibilità della dichiarazione, la chiamata in correità, per essere qualificata come grave indizio di colpevolezza, deve "presentare una consistenza indiziaria tale da fondare una qualificata probabilità di colpevolezza";

che, senza entrare nel merito della linea seguita dalle Sezioni unite, la norma così interpretata non compromette l'osservanza dei parametri costituzionali invocati dal giudice a quo;

che, più in particolare, non risulta vulnerato il principio di eguaglianza perché le condizioni richieste per l'adozione della misura non si sottraggono all'osservanza del precetto dell'art. 273 del codice di procedura penale neppure nella fase del giudizio, rispondendo, anche qui, la misura all'esigenza che sussista una qualificata probabilità di colpevolezza, fermo restando che l'argomento che commisura la gravità del contesto indiziario anche alla previsione "che, attraverso la futura acquisizione di ulteriori elementi", gli indizi "saranno idonei a dimostrare la responsabilità dell'imputato" risulta di valenza consistentemente attenuata;

che, del resto, questa Corte, con la sentenza n. 71 del 1996, nel dichiarare l'illegittimità costituzionale degli artt. 309 e 310 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono la possibilità di valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza nell'ipotesi in cui sia stato emesso il decreto che dispone il giudizio a norma dell'art. 429 dello stesso codice, ha precisato come l'emissione di tale decreto "non potrà ritenersi in alcun modo assorbente rispetto alla valutazione dei gravi indizi di colpevolezza che sostengono l'adozione o il mantenimento delle misure cautelari personali", così da distinguere, anche nella fase del giudizio, gli elementi richiesti per l'affermazione di responsabilità da quelli sufficienti ai fini dell'adozione della misura cautelare, pur senza, ovviamente, prendere in considerazione quello specifico grave indizio costituito dalla dichiarazione del coimputato (o di imputato di reato connesso o collegato) su fatto proprio e su fatto altrui, in tal modo rendendo evidente anche l'erroneità del presupposto interpretativo da cui muove, sul punto, il giudice a quo;

che il richiamo agli artt. 13 e 27 della Costituzione si rivela del tutto privo di fondamento, richiedendo comunque l'art. 273 del codice di procedura penale, nel contesto delle norme - di recente anche sostituite secondo uno schema accentuatamente garantista -, la motivazione del provvedimento che dispone la misura (più in particolare, a pena di nullità rilevabile anche d'ufficio, "l'esposizione ... degli indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l'indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza": art. 292, comma 1, lettera c, del codice di procedura penale); mentre la previsione di strumenti di gravame vale comunque ad assicurare, attraverso il controllo di legittimità e di merito, che non vengano adottati provvedimenti che provochino ingiustificate detenzioni, esplicandosi la detta verifica proprio nel constatare quella qualificata probabilità di colpevolezza a base del provvedimento che impone la misura, facendo così ritenere che neppure il diritto di difesa risulti compromesso;

che la distinzione tra attività di indagine espletata dal pubblico ministero nella fase delle indagini ed attività di controllo espletata dal giudice non appare del tutto congrua, incentrandosi comunque la verifica giudiziale sull'assetto indiziario dedotto, in base al principio della domanda cautelare, dallo stesso pubblico ministero nella richiesta di adozione della misura;

che inconferente si rivela pure l'argomentazione del giudice a quo - sempre nell'ambito della chiamata in correità - volta ad istituire una comparazione fra elementi richiesti ai fini dell'adozione di una misura cautelare - rispetto alla quale non sarebbe necessaria la presenza di riscontri individualizzanti - ed elementi richiesti per una pronuncia di condanna a seguito di giudizio abbreviato - rispetto alla quale, condizione per pervenire ad un'affermazione di responsabilità è la presenza di riscontri individualizzanti della chiamata di correo - trattandosi di situazioni disomogenee e, quindi, fra loro non comparabili sia perché la pronuncia in esito a giudizio abbreviato è comunque adottata a conclusione di una cognitio plena sia perché, ove gli elementi acquisiti non siano ritenuti sufficienti per una decisione allo stato degli atti, il giudice dovrà rigettare la richiesta di abbreviazione del rito, un epilogo ineludibile, a prescindere dai mezzi di prova posti a base della richiesta di rinvio a giudizio;

che, di conseguenza, la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 192, comma 3, e 273 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 13, secondo comma, 24, secondo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Roma con le due ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 luglio 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 25 luglio 1996.