Sentenza n. 239 del 1996

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SENTENZA N. 239

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 110 del d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43 (Istituzione del Servizio di riscossione dei tributi e di altre entrate dello Stato e di altri enti pubblici, ai sensi dell'articolo 1, comma 1, L. 4 ottobre 1986, n. 657), promossi con ordinanze emesse il 30 novembre 1995 dal Pretore di Nola, sezione distaccata di Ottaviano, nel procedimento civile vertente tra Pilati Vincenzo e Banco di Napoli S.p.a., iscritta al n. 178 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 10, prima serie speciale, dell'anno 1996; il 17 gennaio 1996 dal Tribunale di Nola, nel procedimento civile vertente tra Bove Raffaele e Banco di Napoli s.p.a, iscritta al n. 281 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 14, prima serie speciale, dell'anno 1996.

Visti gli atti di costituzione di Pilati Vincenzo, Bove Raffaele e del Banco di Napoli S.p.a., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella udienza pubblica del 28 maggio 1996 il Giudice relatore Valerio Onida;

uditi gli avvocati Errico Di Lorenzo per Pilati Vincenzo e Bove Raffaele, Nunzio Rizzo per il Banco di Napoli S.p.a. e l'Avvocato dello Stato Giuseppe O.Russo per il Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.-- Nel corso di un procedimento civile instaurato con ricorso per provvedimento d'urgenza ai sensi dell'art. 700 del codice di procedura civile il Pretore di Nola, sezione distaccata di Ottaviano, ha sollevato, con ordinanza emessa il 30 novembre 1995 e pervenuta a questa Corte il 2 febbraio 1996, questione di legittimità costituzionale dell'art. 110 del d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43 (Istituzione del Servizio di riscossione dei tributi e di altre entrate dello Stato e di altri enti pubblici, ai sensi dell'articolo 1, comma 1, L. 4 ottobre 1986, n. 657), in riferimento agli artt. 27, secondo comma, e 36 della Costituzione.

2.-- Risulta dagli atti che il ricorrente, impiegato del Banco di Napoli già svolgente funzioni di ufficiale di riscossione nell'ambito del servizio di riscossione dei tributi affidato in concessione a detto istituto di credito, indagato per falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici (art. 476, secondo comma, cod. pen.), e colpito da ordinanza di custodia cautelare, poi però revocata, era stato raggiunto da provvedimento di revoca dell'autorizzazione all'esercizio della funzione di ufficiale di riscossione, emesso dal Procuratore della Repubblica.

In relazione al predetto procedimento penale, ed al menzionato provvedimento di revoca dell'autorizzazione, l'istituto di credito datore di lavoro aveva comunicato all'impiegato che egli era sospeso "dall'impiego e dall'abilitazione ai sensi e per gli effetti dall'art. 110 del d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43 e delle altre norme legislative vigenti".

Dopo che, nonostante la successiva revoca dell'ordinanza di custodia cautelare, il Procuratore della Repubblica aveva respinto istanza diretta alla rimozione del provvedimento di revoca dell'autorizzazione, ritenendo discendere dall'art. 110 del d.P.R. n. 43 del 1988 l'obbligo di revoca dell'autorizzazione fino alla definizione del procedimento penale, il ricorrente aveva adito il Pretore del lavoro chiedendo disporsi la propria riassunzione con ripristino del relativo trattamento economico, e in tale sede sollevando eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 110 del d.P.R. n. 43 del 1988.

Il remittente rileva che detta norma prevede una misura cautelare automatica e operante di diritto, volta al fine di evitare il rischio di commissione di altri reati della stessa specie, senza offrire alcun margine di valutazione o di discrezionalità al concessionario datore di lavoro; che tale norma è destinata a prevalere, per il suo carattere pubblicistico, sulle norme del contratto collettivo che disciplinano la sospensione cautelare dall'impiego su iniziativa del datore di lavoro; che unico presupposto per l'applicazione di detta norma è l'esistenza di un procedimento penale per falso in certificazione, anche solo nella fase delle indagini preliminari.

Ciò premesso, il giudice remittente ritiene non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma denunciata, da un lato in riferimento al principio di presunzione di non colpevolezza di cui all'art. 27, secondo comma, Cost., in ragione del carattere automatico della misura cautelare, disposta ex lege al di fuori di ogni valutazione del caso concreto e senza alcun limite temporale se non quello della definizione del procedimento penale; dall'altro lato in riferimento all'art. 36 Cost., nella parte in cui prevede la sospensione dall'impiego senza prevedere la corresponsione all'impiegato di un assegno alimentare, col che la misura si tradurrebbe in una implicita anticipata sanzione, violandosi la funzione di sostentamento per il lavoratore cui soccorre la retribuzione.

3.-- Nel corso di un procedimento civile instaurato con reclamo avverso una decisione del Pretore di Nola, sezione distaccata di Ottaviano, di reiezione di ricorso per provvedimento d'urgenza ai sensi dell'art. 700 cod. proc. civ., il Tribunale di Nola, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato a sua volta, con ordinanza emessa il 17 gennaio 1996 e pervenuta a questa Corte il 13 marzo 1996, analoga questione di legittimità costituzionale dell'art. 110 del citato d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43, in riferimento agli artt. 3, 24, 27 e 76 della Costituzione.

La fattispecie sottoposta al Tribunale è sostanzialmente identica a quella cui si riferisce l'ordinanza pretorile sopra riferita, salvo che il provvedimento di sospensione risulta adottato a distanza di qualche tempo dalla avvenuta revoca dell'ordinanza di custodia cautelare e dalla riassunzione in servizio dell'impiegato. Questi aveva fatto ricorso al Pretore il quale però aveva rigettato la domanda per mancanza del fumus boni juris, sulla base del carattere inderogabile e obbligatorio della misura cautelare prevista dall'art. 110 citato.

Il ricorrente aveva proposto reclamo sollevando eccezione di legittimità costituzionale di detta norma, ritenuta dal Tribunale rilevante e non manifestamente infondata.

In particolare il Tribunale remittente ritiene che il carattere inderogabile e automatico della misura cautelare contrasti, in primo luogo, con l'art. 3 Cost., per le stesse ragioni che indussero questa Corte a dichiarare, con la sentenza n. 971 del 1988, l'illegittimità costituzionale di norme che prevedevano la destituzione di diritto di pubblici impiegati nel caso di condanna degli stessi per alcuni reati: ricordando inoltre come la tendenza dell'ordinamento ad espungere ogni forma di automatismo in questo campo risulti oggi anche dalla legge n. 19 del 1990, la quale, modificando l'art. 166 del codice penale, ha escluso che la condanna a pena condizionalmente sospesa possa costituire di per sé sola motivo per il diniego di concessioni, licenze o autorizzazioni necessarie per svolgere attività lavorativa.

In secondo luogo, ad avviso del Tribunale remittente, la norma in questione sarebbe in contrasto con l'art. 3 -- sotto il profilo della irragionevolezza -- nonché con gli artt. 24 e 27 della Costituzione, in quanto la misura sospensiva automatica prevista pregiudicherebbe il diritto alla difesa e violerebbe la presunzione di non colpevolezza dell'indagato, operando fin dall'inizio del procedimento penale e non dopo la sentenza definitiva, e per di più essendo applicata senza che un giudice sia chiamato a valutare i presupposti della misura stessa, come invece accade per le misure interdittive previste nell'ambito dell'ordinamento processuale penale dagli artt. 287 e seguenti del codice di rito.

Infine la norma sarebbe in contrasto con l'art. 76 della Costituzione in quanto la legge di delega (4 ottobre 1986, n. 657) sulla cui base fu emanato il decreto legislativo delegato n.43 del 1988 non conterrebbe alcun principio direttivo in tema di provvedimenti nei confronti degli ufficiali di riscossione sottoposti a procedimento penale.

4.-- In entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata "inammissibile e non fondata".

Secondo l'Avvocatura erariale il d.P.R. n. 43 del 1988, nel disciplinare in modo specifico una materia particolarmente meritevole di tutela, avrebbe inteso sottrarre la fattispecie in questione all'ambito di applicazione della normativa generale sulla sospensione cautelare dei pubblici impiegati (art. 91 del d.P.R. 3 gennaio 1957, n. 3), limitando il potere discrezionale riconosciuto all'amministrazione da tale normativa in tema di sospensione facoltativa.

La questione, secondo l'interveniente, potrebbe inquadrarsi nella prospettiva dell'opportunità politica, ma non attingerebbe il livello della costituzionalità.

5.-- Si sono costituiti in entrambi i giudizi le parti ricorrenti dei giudizi principali, chiedendo, con deduzioni di contenuto analogo, l'accoglimento della questione, e anzi una pronuncia di incostituzionalità che investa anche la disposizione dell'art. 99 dello stesso d.P.R. n. 43 del 1988 che prevede il potere di revoca dell'autorizzazione da parte del Procuratore della Repubblica.

I deducenti insistono sull'automatismo che caratterizzerebbe le norme denunciate, in relazione al semplice inizio del procedimento penale, il che lederebbe i principî costituzionali per le stesse ragioni fatte valere da questa Corte, oltre che nella citata sentenza n. 971 del 1988, nella sentenza n. 109 del 1994, che ha dichiarato illegittimo l'art. 281, comma 2-bis, del codice di procedura penale, ove si disponeva che la misura cautelare del divieto di espatrio si applicasse automaticamente nel caso di applicazione di una delle altre misure cautelari coercitive previste dagli artt. 280 e seguenti cod. proc. pen.

Circa l'art. 99 del d.P.R. n. 43 del 1988, i ricorrenti ne mettono in dubbio anzitutto la vigenza, rilevando che esso dovrebbe ritenersi implicitamente abrogato dalle norme sopravvenute del codice di procedura penale che disciplinano le misure interdittive, applicabili ad opera del giudice per le indagini preliminari; e sottolineano comunque la singolarità di una misura interdittiva che il pubblico ministero avrebbe il potere di applicare sulla base di un procedimento penale da lui stesso promosso.

6.-- Si è costituito altresì, nel giudizio promosso con l'ordinanza del Tribunale di Nola, il Banco di Napoli, parte convenuta nel giudizio a quo, chiedendo che la Corte dichiari inammissibile per irrilevanza, e comunque infondata, la questione.

La difesa del Banco di Napoli premette che il rapporto di lavoro dei dipendenti ha natura privatistica ed è retto dalle norme del diritto privato, anche se l'esercizio di alcune funzioni richiede una autorizzazione amministrativa da parte del Procuratore della Repubblica, autorizzazione che avrebbe natura discrezionale per quanto riguarda sia il suo rilascio sia la sua revoca e sospensione.

La sospensione di cui è parola nell'art. 110, ricorrendo un rapporto di lavoro privatistico, riguarderebbe il solo esercizio delle funzioni pubbliche da parte del dipendente, non il rapporto di lavoro. Le conseguenze che discendono dal provvedimento del Procuratore della Repubblica sul piano del rapporto di lavoro non deriverebbero dall'art. 110 del d.P.R. n. 43 del 1988, bensì dai principî propri di tale rapporto (sospensione delle prestazioni per sopravvenuta impossibilità temporanea, risoluzione del rapporto per sopravvenuta impossibilità definitiva, licenziamento per giustificato motivo oggettivo). Qualunque provvedimento afferente alla conservazione o alla risoluzione del rapporto di lavoro non potrebbe che fare capo all'imprenditore.

La questione sollevata sarebbe dunque, secondo il Banco di Napoli, irrilevante in quanto, quand'anche venisse dichiarato incostituzionale l'art. 110 del d.P.R. n. 43 del 1988, non potrebbe mettersi in discussione il potere del Procuratore della Repubblica di revocare o sospendere l'autorizzazione, potere previsto dall'art. 99 dello stesso decreto, che non è stato oggetto di impugnazione.

Non potendosi dunque riattribuire le funzioni in oggetto al dipendente, il rapporto di lavoro rimarrebbe sospeso per impossibilità della prestazione.

La questione sarebbe comunque infondata, venendo in rilievo non il rapporto di impiego ma il mero esercizio delle funzioni soggette ad autorizzazione amministrativa.

7.-- In vista dell'udienza il ricorrente costituito nel giudizio promosso dal Tribunale di Nola ha prodotto una memoria aggiuntiva.

In essa si rileva una contraddizione fra la tesi sostenuta in questa sede dal Banco di Napoli -- circa la riferibilità della sospensione ex art. 110 alle sole funzioni pubbliche, e non anche al rapporto di impiego -- e quella sostenuta dallo stesso istituto datore di lavoro nei giudizi civili, secondo la quale la norma comporterebbe la sospensione automatica dall'impiego oltre che dall'abilitazione: tesi quest'ultima che -- aggiunge il deducente -- è stata accolta da vari giudicanti, le cui pronunce vengono prodotte davanti a questa Corte.

In ogni caso, secondo la parte deducente, pur se si dovessero interpretare le norme nel senso che la sospensione ex lege riguardi le sole funzioni pubbliche, l'art. 110 e l'art. 99, al primo connesso, non sfuggirebbero alle censure di incostituzionalità, prevedendo una sospensione automatica, sottratta a qualsiasi valutazione in rapporto al caso concreto, non motivata, e disposta da chi, come il Procuratore della Repubblica, è lo stesso promotore del procedimento penale che costituisce il presupposto della sospensione medesima.

Considerato in diritto

1.-- Le due ordinanze sollevano questioni aventi identico oggetto e parametri parzialmente coincidenti, onde i giudizi possono essere riuniti e definiti con unica pronuncia.

2.-- Deve in primo luogo disattendersi l'eccezione di inammissibilità per irrilevanza avanzata dal Banco di Napoli.

E' vero, infatti, che il provvedimento di revoca dell'autorizzazione adottato dal Procuratore della Repubblica si è fondato sull'art. 99 del d.P.R. n. 43 del 1988, che configura un potere discrezionale da esercitarsi con atto motivato. Ma -- a parte il fatto che lo stesso Procuratore ha mostrato, nel respingere l'istanza di uno dei ricorrenti, di ritenere tale provvedimento vincolato in forza dell'art. 110 del medesimo d.P.R. -- ciò che rileva in questa sede è che i provvedimenti del datore di lavoro impugnati nei giudizi a quibus erano esplicitamente fondati sull'art. 110, sostanziandosi nella comunicazione che i dipendenti erano sospesi dall'impiego e dall'abilitazione "ai sensi e per gli effetti dell'art. 110 del d.P.R. 28.1.1988 n. 43", oltre che "delle altre norme legislative vigenti"; e che i giudici remittenti hanno concordemente ritenuto tale norma la base legale vincolante dei medesimi provvedimenti impugnati.

La valutazione della rilevanza della questione di legittimità costituzionale, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, spetta in via principale al giudice a quo, e può essere disattesa in questa sede solo se non plausibilmente motivata o evidentemente contraddetta dagli atti.

Ora, nella specie, viceversa, i giudici remittenti hanno compiuto una valutazione positiva della rilevanza non implausibilmente motivata, che dunque questa Corte non ha ragione di disattendere.

Resta naturalmente estraneo all'oggetto del presente giudizio il tema degli effetti che, sul rapporto di lavoro e sull'esercizio delle funzioni degli ufficiali di riscossione, esplicano in quanto tali i provvedimenti del Procuratore della Repubblica adottati ai sensi dell'art. 99 del d.P.R. n. 43 del 1988, nonché quello delle conseguenze che dall'esito del giudizio di costituzionalità dell'art. 110 possano discendere in ordine alla sorte dei medesimi provvedimenti.

3.-- Per converso, non può accogliersi la richiesta, avanzata in questa sede dagli impiegati ricorrenti, di coinvolgere nello scrutinio di costituzionalità anche l'art. 99 del d.P.R. n. 43 del 1988.

I limiti della questione proposta sono quelli segnati dalle ordinanze di rimessione, che prospettano dubbi di costituzionalità esclusivamente in ordine all'art. 110: ad essi la Corte deve attenersi in forza della regola sancita dall'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, ai cui sensi la Corte pronuncia "nei limiti dell'impugnazione", salvo il potere di dichiarare quali sono le altre disposizioni legislative "la cui illegittimità deriva come conseguenza della decisione adottata".

Nella specie, peraltro, le disposizioni degli artt. 99 e 110 hanno presupposti diversi, attribuiscono poteri diversi e contemplano atti aventi effetti giuridici diversi: mentre infatti l'art. 99 prevede (oltre ad un potere di revoca in ogni tempo, da parte del concessionario del servizio, della nomina dell'ufficiale di riscossione) un potere discrezionale di revoca dell'autorizzazione all'esercizio delle funzioni, da parte della stessa autorità che la ha rilasciata, l'art. 110 prevede invece che l'ufficiale di riscossione sottoposto a procedimento penale per falsità nelle relazioni di notifica sia "sospeso dall'impiego e dall'abilitazione in attesa della definizione del procedimento stesso", configurando quindi una autonoma misura di tipo cautelare ad effetto più ampio (incidente sull'abilitazione e non solo sul concreto esercizio delle funzioni, oltre che sull'impiego), operante de jure, e collegata al fatto oggettivo della pendenza del procedimento penale.

4.-- Quest'ultima è dunque l'unica norma che deve essere in questa sede sottoposta a scrutinio di costituzionalità sulla base degli invocati parametri degli artt. 3, 24, 27, 36 e 76 della Costituzione.

La questione è fondata sotto il profilo congiunto degli artt. 3 e 27, secondo comma, della Costituzione.

Non può adottarsi qui, propriamente, la stessa ratio decidendi che questa Corte ha posto a base della pronuncia, invocata nell'ordinanza del Tribunale di Nola, con cui venne dichiarata la illegittimità costituzionale di norme che prevedevano la destituzione di diritto di pubblici impiegati a seguito di condanna penale per taluni delitti (sentenza n. 971 del 1988; e v., già prima, la sentenza n. 270 del 1986; nonché sentenza n. 16 del 1991). Infatti in quel caso si trattava di misura sanzionatoria definitiva, conseguente ad una condanna definitiva, e perciò veniva in considerazione la irragionevolezza di una sanzione automatica e non graduata in relazione ad un apprezzamento concreto del fatto in sede disciplinare.

In questa sede, viceversa, si discute di una misura a carattere cautelare, discendente, in modo ancora una volta automatico, dalla pendenza di un procedimento penale per reati determinati.

Ora, da un lato, non può negarsi la facoltà del legislatore di contemplare misure cautelari che interdicano l'esercizio di pubblici uffici o servizi o di determinate attività professionali o imprenditoriali da parte di chi sia sottoposto a procedimento penale per reati connessi a dette funzioni o attività o comunque suscettibili di incidere su di esse o sulla posizione del loro titolare: e del resto in tal senso provvedono diverse norme sia dell'ordinamento processuale penale (artt. 289 e 290 cod.proc.pen.), sia dell'ordinamento amministrativo (cfr. ad es. art. 91, primo comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3).

Dall'altro lato, collegandosi la misura non già ad una condanna definitiva, ma alla pendenza del procedimento penale, è necessario, per rispettare il principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza, che la misura medesima sia disposta in base ad effettive esigenze cautelari, sia congrua e proporzionata rispetto a queste ultime, e comunque non abbia presupposti di tale indeterminata ampiezza, e caratteristiche di tale automatismo, da configurarsi piuttosto come una vera e propria anticipata sanzione in assenza di accertamento di colpevolezza.

E' sulla base di tale ordine di principî che questa Corte, in diverse occasioni, ha censurato norme le quali imponevano il mantenimento di misure cautelari di sospensione dall'esercizio di funzioni o attività professionali, collegate all'adozione di provvedimenti restrittivi della libertà personale, anche dopo che tali ultimi provvedimenti fossero venuti meno (cfr. sentenze n. 766 del 1988, con riguardo alla sospensione dall'esercizio della professione di dottore commercialista; n. 40 del 1990, con riguardo alla "inabilitazione" di diritto all'esercizio delle funzioni di notaio; n. 595 del 1990, con riguardo alla sospensione dello spedizioniere doganale; cfr. anche, sui principî di proporzionalità e di adeguatezza in materia di misure cautelari personali adottate dal giudice, sentenza n. 109 del 1994).

All'opposto, la Corte ha escluso che leda i principî costituzionali la statuizione legislativa (art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19) che prevede un termine massimo (quinquennale) di durata della sospensione cautelare facoltativa disposta nei confronti del pubblico dipendente "a causa del procedimento penale", e la revoca di diritto di tale sospensione dopo la scadenza del termine: riconoscendo che tale statuizione realizza in modo non irragionevole il "doveroso bilanciamento" fra l'interesse del dipendente a riprendere il servizio e quello dell'amministrazione ad escludere temporaneamente dal servizio il dipendente sul quale penda l'imputazione per un grave reato (sentenza n. 447 del 1995).

5.-- Ora, la sospensione prevista dall'art. 110 del d.P.R. n. 43 del 1988 è misura che può certo trovare fondamento nell'esigenza cautelare, valutata dal legislatore, di inibire temporaneamente la permanenza nell'esercizio di delicate funzioni pubbliche di chi sia indagato o processato per reati specificamente connessi a tale esercizio.

Tuttavia, da un lato, tale sospensione estende i suoi effetti non alla sola autorizzazione all'esercizio in concreto della funzione di ufficiale di riscossione, ma anche all'"abilitazione", e cioè al titolo tecnico-professionale abilitante all'esercizio di tale attività, nonché allo stesso rapporto di impiego, e dunque eccede, per questo aspetto, l'ambito delle esigenze cautelari che potrebbero giustificarla.

Dall'altro lato, e soprattutto, anche in questo caso si riscontra quell'assoluto "automatismo della misura cautelare" (sentenza n. 40 del 1990) che confligge con i principî di ragionevolezza e di proporzionalità, in base ai quali dovrebbe in linea generale essere invece "consentito di valutare discrezionalmente, in relazione alla gravità del fatto e delle sue circostanze nonché alla personalità del soggetto agente, l'opportunità di applicare o meno la misura cautelare" (ibidem). Tanto più che la sospensione in esame opera in base al presupposto meramente formale della pendenza del procedimento penale, qualunque sia la fase in cui esso si trova, e non ha altro limite di durata se non quello della definizione del procedimento medesimo, che può ritardare anche per lungo tempo.

Né il tentativo di restringere in via interpretativa, in base al canone dell'interpretazione conforme a Costituzione -- secondo le tesi in parte avanzate in questa sede dalla difesa del Banco di Napoli, e che trovano riscontro anche in una isolata pronuncia di merito, fra quelle prodotte in questa sede --, potrebbe far superare le censure di incostituzionalità.

Infatti, anche a voler intendere la sospensione come riferita, nel caso di rapporto di lavoro privatistico, al solo esercizio della funzione pubblica, e non al rapporto d'impiego, pure menzionato dalla disposizione in esame, si tratterebbe pur sempre di una misura cautelare automatica ad effetto interdittivo, incidente sulla efficacia della stessa abilitazione tecnico-professionale, svincolata da ogni valutazione del caso concreto ed operante sulla base del semplice presupposto formale della pendenza del procedimento penale. E anche a intendere in senso restrittivo, a questi effetti, la nozione di pendenza del procedimento penale, limitandola alle sole ipotesi in cui sia intervenuta la contestazione di un fatto specifico costituente reato, con esclusione della mera esistenza di indagini preliminari, restano comunque il carattere automatico e la durata indeterminata della sospensione, indipendente da ogni accertamento giudiziale del reato medesimo.

In definitiva, non può ritenersi che la norma denunciata risponda ai requisiti minimi necessari perché possa aversi una misura cautelare legittimamente disposta, non contrastante con i principî di ragionevolezza e di proporzionalità e con la presunzione costituzionale di non colpevolezza dell'imputato fino alla condanna definitiva.

6.-- Restano assorbiti gli altri profili di costituzionalità sollevati dalle ordinanze di rimessione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 110 del d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43 (Istituzione del Servizio di riscossione dei tributi e di altre entrate dello Stato e di altri enti pubblici, ai sensi dell'articolo 1, comma 1, L. 4 ottobre 1986, n. 657).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 giugno 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

Depositata in cancelleria il 9 luglio 1996.