SENTENZA N. 235
ANNO 1996
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Avv. Mauro FERRI, Presidente
- Prof. Luigi MENGONI
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 30-bis, terzo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso con ordinanza emessa l'8 agosto 1995 dal Tribunale di sorveglianza di Brescia, nel procedimento di sorveglianza nei confronti di Buso Antonio, iscritta al n. 950 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell'anno 1996.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 29 maggio 1996 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.
Ritenuto in fatto
1. -- Chiamato a giudicare sul reclamo proposto da un detenuto il 2 giugno 1995 avverso il diniego, ad opera del magistrato di sorveglianza, di un permesso premio, provvedimento notificato all'interessato il 31 maggio 1995, il Tribunale di sorveglianza di Brescia, rilevata la tardività del gravame in quanto proposto oltre il termine previsto dall'art. 30-bis, terzo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354, ha, con ordinanza dell'8 agosto 1995, sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, questione di legittimità della detta disposizione dell'ordinamento penitenziario nella parte in cui concede al condannato ed al pubblico ministero il solo termine di ventiquattro ore per il reclamo avverso il provvedimento di diniego del permesso premio, anziché quello "ordinario" di dieci giorni.
Rileva il giudice a quo che il detto termine - "accettabile se riferito al permesso di urgenza e ordinario" - risulta del tutto incongruo rispetto ai permessi premio.
Tanto più che la Corte costituzionale mentre, da un lato, ha, con sentenza n. 53 del 1993, dichiarato (fra l'altro) l'illegittimità dell'art. 30-bis della legge n. 354 del 1975 nella parte in cui non consente l'applicazione degli artt. 666 e 678 del codice di procedura penale nel procedimento di reclamo avverso il decreto del magistrato di sorveglianza che esclude dal computo della detenzione il periodo trascorso in permesso premio, dall'altro lato, con le sentenze n. 349 del 1993 e 227 del 1995, ha affermato "la natura giurisdizionale del permesso premio".
E, se pure l'art. 172 del codice di procedura penale stabilisce che i termini si computano anche in ore, sta di fatto che l'art. 585 dello stesso codice stabilisce il termine per l'impugnazione non inferiore ai quindici giorni, mentre l'ordinamento penitenziario contempla il termine di dieci giorni per i reclami avverso i provvedimenti concernenti il regime di sorveglianza particolare (art. 14-ter, primo comma) e le licenze (art. 53-bis, comma secondo, che richiama l'art. 14-ter).
2. -- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
Nessun contrasto - rileva l'Avvocatura - con il principio di eguaglianza sotto il profilo della irrazionale identità di trattamento sarebbe ravvisabile perché, nonostante la diversità di presupposti, sia il permesso ordinario quanto il permesso premio consistono in una deroga temporanea alla detenzione carceraria e ad entrambi devono applicarsi le stesse cautele. Donde anche la non pertinenza - sotto il profilo della irrazionale diversità di trattamento - delle norme del codice e dell'ordinamento penitenziario richiamate.
La dedotta violazione degli artt. 25 e 27 della Costituzione sarebbe, poi, del tutto incomprensibile.
Considerato in diritto
1. -- Il Tribunale di sorveglianza di Brescia, dubita, in riferimento agli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, della legittimità dell'art. 30-bis, terzo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui concede al condannato ed al pubblico ministero il solo termine di ventiquattro ore per proporre reclamo avverso i provvedimenti in materia di permessi premio adottati dal magistrato di sorveglianza.
Più in particolare, il giudice a quo, chiamato a decidere su un reclamo avverso il diniego di un permesso premio, reclamo proposto un solo giorno oltre il termine previsto dalla norma di cui viene denunciata la illegittimità, ha lamentato la eccessiva brevità di tale termine che, originariamente dettato in via esclusiva per i permessi ordinari, è stato esteso ai permessi premio dall'art. 30-ter, comma 6, della legge n. 354 del 1975, articolo introdotto dall'art. 9 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, con il semplice richiamo ("si applicano altresì le disposizioni di cui al terzo e al quarto comma dello stesso articolo") all'art. 30-bis della stessa legge n. 354 del 1975.
A sostegno della illegittimità della norma ora denunciata, il giudice a quo deduce l'irragionevolezza dell'assimilazione fra il regime del reclamo in materia di permessi premio a quello del reclamo avverso i provvedimenti concernenti i permessi ordinari. E ciò nonostante che due significativi interventi della Corte costituzionale facciano implicitamente propendere per una disciplina differenziata. Il primo (sentenza n. 53 del 1993) che ha già dichiarato l'illegittimità costituzionale "anche" dell'art. 30-bis della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede l'applicazione al reclamo in materia di permessi premio della procedura prevista dall'art. 666 del codice di procedura penale. Il secondo (sentenza n. 349 del 1993; ma anche sentenza n. 504 del 1995), volto a "ribadire" la "natura giurisdizionale del permesso premiale".
Proprio in forza dell'avvenuta giurisdizionalizzazione della procedura, del tutto incongruo si rivela, allora, il termine per proporre reclamo avverso i provvedimenti concernenti i permessi premio, assolutamente eccezionale risultando un termine determinato in ore "che non si ritrova in altre norme del codice di procedura penale", pure se, ai sensi dell'art. 172 dello stesso codice, i termini processuali possono essere fissati anche in ore.
A ciò aggiungasi che è lo stesso ordinamento penitenziario a contemplare un regime relativo al termine per i reclami avverso i provvedimenti del magistrato di sorveglianza, termine da identificare in quello di dieci giorni, previsto in materia di reclamo contro i provvedimenti sulla sorveglianza particolare.
2. -- La questione è inammissibile.
E' opportuno premettere - anche per pervenire ad una necessaria chiarificazione nella materia dei permessi premio, la cui disciplina è stata più volte dichiarata non conforme alla Costituzione ad opera di decisioni di questa Corte - che il richiamo ad opera del giudice a quo volto a stabilire una sorta di diretta conseguenzialità tra la sentenza n. 53 del 1993 e la disciplina concernente il termine per proporre reclamo in materia di permessi premio non appare del tutto pertinente.
Con la detta sentenza, infatti, la Corte dichiarò l'illegittimità costituzionale, per violazione della legge-delega, dell'art. 236 delle norme di attuazione del codice di procedura penale (norme approvate, insieme alle norme di coordinamento e transitorie, con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271), nonché dell'art. 14-ter, primo, secondo e terzo comma, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non consentono l'applicazione degli artt. 666 e 678 del codice di procedura penale al procedimento di reclamo avverso il decreto del magistrato di sorveglianza che esclude dal computo della detenzione il periodo trascorso in permesso premio.
Una decisione che non è in grado di incidere - neppure sul piano interpretativo - sulla questione sottoposta ora all'esame della Corte, sia perché l'estensione del sistema giurisdizionalizzato riguarda esclusivamente la procedura e non anche il termine per attivarla, sia perché la detta decisione aveva esclusivo riguardo ad una specifica procedura, quella, cioé, relativa al procedimento di reclamo avverso il decreto del magistrato di sorveglianza che escluda dal computo di detenzione il periodo trascorso in permesso premio.
3. -- Poste tali premesse, le argomentazioni del giudice a quo circa la eccessiva brevità del termine di ventiquattro ore stabilito dalla legge per proporre reclamo avverso i provvedimenti in materia di permessi premio non sono prive di una qualche plausibilità.
Questa Corte non può, invero, non sottolineare come l'esperienza dei permessi premio, da ritenere parte integrante del trattamento, rappresenta, come già si è avuto occasione di precisare sin dalle prime pronunce in materia, "incentivo alla collaborazione del detenuto con l'istituzione carceraria, appunto in funzione del premio previsto, in assenza di particolare pericolosità sociale quale conseguenza di regolare condotta, tanto da venir considerato esso stesso strumento di rieducazione in quanto consente un iniziale reinserimento del condannato nella società, così da potersene trarre elementi utili per l'eventuale concessione di misure alternative alla detenzione" (v. sentenza n. 188 del 1990, ma anche la sentenza n. 504 del 1995). Tanto più che, pur non essendo compreso dal capo sesto della legge penitenziaria, relativo alle misure alternative alla detenzione, esso diviene comunque "uno strumento cruciale ai fini del trattamento" perché può rivelarsi funzionale - in applicazione del principio di progressività - all'affidamento in prova (v., oltre alla già ricordata sentenza n. 504 del 1995, anche la sentenza n. 227 del 1995), ferma, peraltro, restando la natura ampiamente discrezionale che contrassegna il provvedimento che concede il permesso.
Si spiega così come, in tempi recenti, questa Corte, superando la costruzione che vedeva nel permesso premio un istituto non eccedente l'ambito della regolamentazione della vita di relazione all'interno degli stabilimenti carcerari senza alcuna possibile incidenza sostanziale sugli effetti e sulla durata del rapporto instauratosi con l'inizio dell'esecuzione della pena (cfr., invece, in tal senso, le ordinanze n. 1163 del 1988 e n. 436 del 1989), abbia incluso i permessi premio fra le misure che ammettono a forme di espiazione della pena fuori del carcere, come tali incidenti "sull'esecuzione della pena e, quindi, sul grado di libertà personale del detenuto" (v. sentenze n. 227 del 1995 e n. 349 del 1993).
4. -- Così verificata la funzione del permesso premio, ne consegue una profonda distinzione tra tale istituto e quello del permesso c.d. di necessità previsto dall'art. 30 della legge n. 354 del 1975, istituto peraltro non connaturato alla esecuzione della pena, potendo essere concesso il permesso di necessità anche prima del passaggio in giudicato della sentenza (v. art. 30, primo comma, secondo e terzo periodo, della legge n. 354 del 1975). Fra l'altro, i rigorosi presupposti cui la detta norma subordina la concessione di permessi giustifica i brevissimi termini entro i quali è possibile impugnare il provvedimento del magistrato di sorveglianza, senza che, proprio per la dissociazione dei permessi premio dalle esigenze del trattamento, possa profilarsi una qualsiasi omologazione con gli altri permessi, che ecceda l'ambito meramente nominalistico.
5. -- Questa Corte non può, dunque, non rilevare che la fissazione di un identico termine per il reclamo nei confronti dei provvedimenti concernenti i permessi di necessità ed il reclamo nei confronti dei provvedimenti concernenti i permessi premio si riveli non ragionevole, rispondendo ciascuno dei due provvedimenti reclamati a presupposti e finalità diverse. Ma a parte ciò, è la disciplina dell'art. 30-ter, comma 6, della legge n. 354 del 1975 a suscitare dubbi di ragionevolezza, potendo apparire non del tutto congruo il termine di ventiquattro ore per censurare un provvedimento che incide su un regime che è parte integrante del trattamento e da cui possono discendere conseguenze dirette anche al fine dell'applicazione delle misure alternative alla detenzione.
6. -- Senonché i tertia comparationis additati dal giudice a quo risultano così disomogenei da non consentire alcuna possibilità di adattamento all'istituto in esame.
Non è, certo, evocabile il termine di dieci giorni, di cui all'art. 14-ter, previsto per il reclamo avverso il provvedimento che dispone o proroga il regime di sorve-glianza particolare, richiamato per i reclami avverso il decreto che esclude dal computo della pena detentiva il tempo trascorso dal detenuto o dall'internato in permesso o in licenza in caso di mancato rientro o di gravi comportamenti da cui risulta che il soggetto non si è dimostrato meritevole del beneficio. Trattasi infatti di istituti di ben diversa complessità e perseguenti finalità non assimilabili a quelle perseguite dai provvedimenti riguardanti la concessione o il diniego dei permessi premio. Ancor meno è richiamabile l'ulteriore termine, pur esso evocato dal giudice a quo, concernente l'impugnazione dei provvedimenti del giudice, secondo la regolamentazione apprestata dal codice di procedura penale; un termine, oltre tutto, da collegare ad una serie di più articolate prescrizioni non riferibili, in alcun modo, all'istituto in esame.
7. -- Poiché, dunque, non è consentito rintracciare nell'ordinamento una conclusione costituzionalmente obbligata che permetta a questa Corte di porre rimedio alla brevità del termine per proporre reclamo avverso il decreto del magistrato di sorveglianza in materia di permessi premio rideterminandolo essa stessa, la questione deve essere dichiarata inammissibile.
Sarà compito del legislatore provvedere, quanto più rapidamente, alla fissazione di un nuovo termine che contemperi la tutela del diritto di difesa con le esigenze di speditezza della procedura. Ferma restando la possibilità per l'interessato di azionare il procedimento per la restituzione nel termine, nei limiti indicati dall'art. 175, comma 1, del codice di procedura penale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 30-bis, terzo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Brescia con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 giugno 1996.
Mauro FERRI, Presidente
Giuliano VASSALLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 4 luglio 1996.