SENTENZA N. 206
ANNO 1996
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Avv. Mauro FERRI, Presidente
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 102 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) promosso con ordinanza emessa il 29 settembre 1995 dal Magistrato di sorveglianza di Varese, nel procedimento di sorveglianza nei confronti di Moretti Tiziano, iscritta al n. 825 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell'anno 1995.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 29 maggio 1996 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.
Ritenuto in fatto
1. -- Il Magistrato di sorveglianza di Varese ha sollevato, in riferimento all'art. 27, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 102 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui dispone la conversione della pena pecuniaria ineseguita per insolvibilità del condannato nella pena sostitutiva della libertà controllata. Dopo aver rilevato come l'identica questione sia stata ritenuta non fondata in riferimento all'art. 3 della Costituzione nella sentenza n. 108 del 1987, il giudice a quo rammenta che nella medesima pronuncia questa Corte ebbe a sottolineare la necessità, da un lato, di circoscrivere l'area di operatività della conversione, dall'altro, di introdurre previsioni volte a ridurre al minimo il pur inevitabile maggior tasso di afflittività che scaturisce dall'istituto, indicando nel lavoro sostitutivo la misura più idonea a tal fine e relegando la libertà controllata ad un ruolo meramente sussidiario.
Lo sfavore manifestato dalla Corte nei confronti della conversione della pena pecuniaria in libertà controllata è condiviso dal giudice a quo sotto più profili. A parere del rimettente, infatti, la conversione in libertà controllata determina un incremento della compressione della libertà personale del condannato del tutto ingiustificato in quanto non funzionale alla sostituzione del sacrificio patrimoniale inesigibile connesso alla pena. Tale incremento di afflittività, poi, non è collegato ad un comportamento colpevole del condannato ma scaturisce unicamente dallo stato di insolvibilità. E' la stessa legge, infine, a prevedere altre soluzioni, come la conversione in lavoro sostitutivo, che salvaguardano l'inderogabilità della pena pecuniaria senza comportare ingiustificati aumenti di afflittività.
Posto, dunque, che il principio della responsabilità penale personale sancito dall'art. 27, primo comma, della Costituzione, esclude ogni forma di responsabilità oggettiva, e considerato che la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto tale principio applicabile anche in fase esecutiva nelle ipotesi di sostanziale modificazione nel grado di privazione della libertà personale così come in tema di revoca di misure alternative, il giudice a quo ritiene che l'ingiustificata compressione della libertà che scaturisce dalla conversione in assenza di comportamento colpevole del condannato contrasti con l'indicato parametro.
2. -- Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
Ritiene infatti l'Avvocatura che il necessario bilanciamento e temperamento delle misure sostitutive afflittive con le esigenze di effettività della pena abbia già formato oggetto di valutazione da parte di questa Corte proprio nella sentenza n. 108 del 1987 ove sarebbe stata "confermata la persistente necessità della parallela previsione della libertà controllata".
Considerato in diritto
1. -- Il Magistrato di sorveglianza di Varese sottopone a scrutinio di costituzionalità l'art. 102 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) nella parte in cui dispone la conversione della pena pecuniaria ineseguita per insolvibilità nella pena sostitutiva della libertà controllata.
A parere del giudice a quo l'istituto che viene qui in discorso determina una limitazione della sfera della libertà personale del condannato non raccordata sul piano funzionale alla specifica natura del sacrificio connesso alla pena originaria ineseguibile, senza che a ciò corrisponda alcun comportamento colpevole del condannato dal momento che la conversione della pena pecuniaria in libertà controllata viene fatta esclusivamente dipendere dall'obiettivo stato di insolvibilità. Da un siffatto meccanismo verrebbe pertanto a scaturire, secondo il rimettente, una violazione del principio di colpevolezza sancito dall'art. 27, primo comma, della Costituzione, il cui ambito di applicazione è volto a garantire qualunque vicenda che, anche nella fase esecutiva, determina, come nella specie, una "sostanziale modificazione nel grado di privazione della libertà personale" del condannato.
2. -- La questione è fondata. Sin dalla sentenza n. 131 del 1979 questa Corte ebbe infatti a rilevare, sulla base delle esperienze di diritto comparato, la generale tendenza ad un adeguamento delle pene pecuniarie e delle relative modalità di pagamento alle condizioni economiche del condannato attraverso meccanismi, come il sistema dei tassi giornalieri di reddito, idonei a realizzare una uguaglianza sostanziale della pena pecuniaria perché proporzionale alle risorse del condannato stesso e tali, dunque, "da configurarne il mancato pagamento (dal quale deriva la conversione) come la conseguenza di un comportamento colpevole e non di una impossibilità in cui senza colpa versi il condannato". Da qui l'indicazione, poi incisivamente ribadita nella sentenza n. 108 del 1987, del lavoro sostitutivo come la misura che restringe al massimo l'aggravio di pena connesso alla conversione e che nel contempo è in grado di esplicare una funzione rieducativa, con l'ovvia conseguenza - si osservò nella sentenza da ultimo richiamata - di dover assegnare al più invasivo istituto della libertà controllata "un ruolo sussidiario e non, come oggi accade, prevalente". Considerazioni, quelle appena esposte, che, seppure indussero questa Corte a ritenere "per l'intanto, ed allo stato" non in contrasto con l'art. 3 della Costituzione la disciplina sancita dalla norma oggetto di impugnativa, non consentono di pervenire nel presente giudizio alle conclusioni allora adottate, avuto riguardo alla mutata prospettiva in cui si iscrive l'odierna questione e che scaturisce, per un verso, dalla perdurante inerzia serbata dal legislatore malgrado gli auspici di un adeguamento normativo più volte formulati (v., da ultimo, sentenza n. 119 del 1994) e, sotto altro profilo, dal diverso parametro che il rimettente ha posto a fondamento delle dedotte censure.
Se da un lato, infatti, è ben vero che qualsiasi meccanismo di conversione ineluttabilmente comporta un incremento del tasso di afflittività, tenuto conto degli effetti ontologicamente novativi che scaturiscono dall'applicazione di una sanzione avente natura diversa dalla pena pecuniaria irrogata e non eseguita per insolvibilità del condannato, è altrettanto vero che il principio di colpevolezza, correttamente richiamato dal giudice a quo, impone che fra pena originaria e pena convertita si stabilisca un nesso di correlazione funzionale che impedisca di ritenere quell'incremento di afflittività come totalmente avulso dalla "responsabilità" del condannato.
Mentre, quindi, al depauperamento del patrimonio che consegue alla esecuzione della pena pecuniaria ben corrisponde, in ipotesi di ineseguibilità, l'applicazione di un istituto che, come il lavoro sostitutivo, è destinato a produrre reddito e dunque a surrogare il pagamento della pena pecuniaria non realizzatosi per insolvibilità del condannato - cosicché la responsabilità di questo adeguatamente giustifica non soltanto la pena originaria ma anche la specifica sanzione che si applica in sede di conversione - non altrettanto è a dirsi ove la misura prescelta e per di più attuata in via prevalente, sia destinata a incidere esclusivamente sulla sfera della libertà del condannato.
Il pieno rispetto del principio sancito dall'art. 27, primo comma, della Costituzione, comporta, dunque, che al condannato a pena pecuniaria il quale versi in stato di insolvibilità sia sempre offerta la possibilità di richiedere l'applicazione della misura del lavoro sostitutivo a prescindere dall'importo della pena pecuniaria, così da riservare alla libertà controllata un ruolo effettivamente sussidiario, che si giustifica in ragione della scelta che il condannato insolvibile è posto in condizione di effettuare.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 102, secondo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) nella parte in cui non consente che il lavoro sostitutivo, a richiesta del condannato, sia concesso anche nel caso in cui la pena pecuniaria da convertire sia superiore ad un milione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 giugno 1996.
Mauro FERRI, Presidente
Giuliano VASSALLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 21 giugno 1996.