Sentenza n. 169 del 1994

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SENTENZA N. 169

ANNO 1994

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Presidente

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Avv. Massimo VARI

Dott. Cesare RUPERTO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3, 4, 5, 6, secondo, terzo e quarto comma, 7, terzo comma, 8 e 11 del disegno di legge n. 524-249-324-343-545, approvato dall'Assemblea Regionale Siciliana il 14 ottobre 1993 e avente per oggetto: "Provvedimenti per la prevenzione dell'abusivismo edilizio e per la destinazione delle costruzioni edilizie abusive esistenti"; nonchè dell'art. 25, settimo comma, della legge regionale 27 dicembre 1978, n. 71, come introdotto con l'art. 11 del presente disegno di legge, promosso con ricorso del Commissario dello Stato per la Regione Siciliana, notificato il 23 ottobre 1993, depositato in cancelleria il 29 successivo ed iscritto al n. 62 del registro ricorsi del 1993.

Visto l'atto di costituzione della Regione Sicilia;

udito nell'udienza pubblica dell'8 marzo 1994 il Giudice relatore Cesare Ruperto;

uditi l'Avvocato dello Stato Franco Favara, per il ricorrente, e gli avvocati Francesco GALGANO, Andrea SCUDERI e Giovanni LO BUE per la Regione.

Ritenuto in fatto

1. - Con ricorso del 23 ottobre 1993 il Commissario dello Stato per la Regione Siciliana ha impugnato le seguenti norme della legge approvata dall'Assemblea regionale siciliana nella seduta del 14 ottobre 1993 (disegno di legge n. 524-249-324- 343-545) recante "Provvedimenti per la prevenzione dell'abusivismo edilizio e per la destinazione delle costruzioni edilizie abusive esistenti":

- articoli 2 e 3 per violazione dell'art. 4 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 398, in relazione ai limiti posti dall'art.14 lett. f) dello statuto speciale della Regione Sicilia nonchè degli articoli 3, 9 e 97 della Costituzione;

- articoli 4 e 5 per interferenza in materia penale e di diritto privato, per violazione della legge 28 febbraio 1985, n. 47, in relazione ai limiti posti dall'articolo 14 lett. f) dello statuto speciale della Regione Sicilia, nonchè degli articoli 3, 5, 9 e 97 della Costituzione;

- articoli 6, 2o, 3° e 4° comma e 8 per violazione della legge n. 47 del 1985 in relazione ai limiti posti dall'art. 14 lett.f) dello statuto speciale nonchè degli articoli 3 e 97 della Costituzione;

- articolo 11, che introduce il 7° comma dell'art. 25 della legge regionale n. 71 del 1978, per violazione degli articoli 3 e 97 della Costituzione.

2. - Osserva preliminarmente il ricorrente che precipua finalità di detto provvedimento legislativo - nonostante lo stesso sia stato presentato come una complessa e rigorosa disciplina atta ad assicurare un efficace controllo sull'attività edilizia mediante la previsione di termini e di sanzioni a carico degli organi comunali inadempienti - è quella di venire incontro alle esigenze dei numerosissimi proprietari di immobili abusivamente edificati. La Regione, dimostratasi - secondo le affermazioni del ricorrente - incapace di governare con l'adozione di idonee misure preventive o repressive la ormai generalizzata situazione di dissesto urbanistico, è giunta alla determinazione di concedere il diritto di abitazione ai proprietari degli immobili abusivi, acquisiti al patrimonio indisponibile del Comune, previo pagamento di una indennità ragguagliata agli oneri di urbanizzazione previsti dalla vigente normativa.

Quindi, prosegue il Commissario dello Stato per la Regione Siciliana, la normativa in questione appare come una sanatoria generalizzata e per alcuni versi abnorme.

Inoltre, la Regione avrebbe operato al di là della propria competenza in materia urbanistica ed edilizia, la quale non consente di sovvertire la normativa statale di riferimento (particolarmente la legge n. 47 del 1985, che costituisce legge di riforma economico-sociale). Ed anche a voler riconoscere al legislatore siciliano la facoltà di de terminazione dei tipi e delle modalità delle sanzioni amministrative (nella fattispecie la confisca dell'immobile), la congruità della pena è, tuttavia, censurabile in sede di giudizio costituzionale, qualora le previsioni normative siano irragionevoli e possano condurre a "sperequazioni palesemente inique".

Le norme in questione determinerebbero, pertanto, a favore dei cittadini dell'Isola, una irragionevole situazione di privilegio, che presenta uno sviluppo direttamente proporzionale all'inerzia degli amministratori siciliani e che si rivela determinante nella realizzazione di una situazione di abusivismo "diffuso" e non più "sparso", pervenuto a dimensioni tali da richiedere, a parere del ricorrente, un apposito intervento legislativo.

Infatti le norme oggetto di censura, da tempo annunciate, non sembrano aver dissuaso la persistenza e prosecuzione di moduli comportamentali posti in essere in violazione della vigente normativa ed hanno legittimato il permanere dei comportamenti omissivi degli organi comunali, preposti alla vigilanza circa l'adozione dei provvedimenti sanzionatori di demolizione, in attesa della ormai avvenuta approvazione definitiva della legge.

3. - Il Commissario Straordinario per la Regione Siciliana sottolinea inoltre la scarsa intelligibilità della normativa, che induce a perplessità interpretative circa la concreta possibilità di individuare i soggetti e gli organi destinatari delle norme di favore, ed osserva quanto segue:

- la disposizione contenuta nel 2° comma dell'art. 4, qualora fosse interpretata letteralmente potrebbe dare origine alla cessione del diritto di abitazione relativamente ad un'intera costruzione abusiva costituita anche da una pluralità di unità abitative;

- ad ulteriore sostegno dell'ipotesi che la reale intenzione del legislatore siciliano non sia solo quella di consentire il perdurare del godimento dell'immobile a quei soggetti privi di altra soluzione abitativa, vi è l'intrinseca incongruità derivante dai termini stabiliti per essere ammessi ad usufruire del diritto di abitazione;

- l'apparato normativo, così come delineato, può consentire la precostituzione di situazioni tali da configurare le condizioni previste per l'attribuzione del diritto ex art. 4: unico termine certo è, infatti, quello relativo all'ultimazione dell'immobile entro il 30 settembre 1993;

- il legislatore siciliano, con l'art. 4, 1° comma, della legge in oggetto, pur prevedendo che i consigli comunali possano stabilire di applicare le norme previste dallo stesso articolo, dispone nella sostanza, l'acquisizione al patrimonio comunale di tutti gli immobili realizzati abusivamente senza valutare, caso per caso, se il manufatto contrasti o meno con gli interessi urbanistici e/o ambientali. Da tale norma, deriverebbe, quindi, la violazione dei princìpii costituzionali di cui agli artt. 5, 9 e 97 della Costituzione, dal momento che la stessa sembra far coincidere apoditticamente il "prevalente interesse pubblico" con il mantenimento del possesso della costruzione da parte del soggetto che ha violato la legge e dei suoi familiari, e, quindi, sostanzialmente, il perdurare di una situazione antigiuridica.

Il ricorrente ritiene, pertanto, che la disposizione contenuta nell'art. 4, così come formulata, costituisca una strumentale interversione del titolo del possesso sul bene, finalizzato a garantire il perdurare dello status quo ante e, conseguentemente, esclude ogni intervento normativo atto a ripristinare la turbata legalità.

La disciplina concernente la destinazione e l'uso dell'immobile realizzato abusivamente, inoltre, non sarebbe sussumibile sotto alcun paradigma normativo esistente nel vigente ordinamento giuridico. Infatti, i soggetti interessati all'applicazione dell'art. 4 beneficerebbero di un trattamento di particolare favore, avendo il legislatore regionale creato un'ipotesi di diritto reale di godimento su un bene formalmente confiscato al patrimonio indisponibile, avulso sia dalla disciplina civilistica che da quella pubblicistica.

4. - Per quanto poi attiene alle previsioni di cui agli articoli 6, 2o, 3o, e 4° comma ed 8, il ricorrente ritiene che le stesse appaiano riconducibili piuttosto ad ipotesi di vera e propria sanatoria che non al c.d. abusivismo di necessità.

L'applicazione di tali disposizioni consentirebbe di rendere legittima la condizione di immobili realizzati in difformità dalle vigenti norme edilizie, senza alcun onere per gli interessati alcun vantaggio per la collettività, peraltro lesa nella legittima aspettativa della tutela di un preordinato assetto urbanistico del territorio.

5. - Parimenti, a parere del ricorrente, violerebbe il disposto degli artt. 3 e 97 della Costituzione, l'art. 11, che introduce il 7° comma dell'art. 25 della legge regionale n.71 del 1978, in materia di contributi a carico del bilancio regionale in favore dei comuni per la redazione degli strumenti urbanistici.

La determinazione dei compensi spettanti ai progettisti per la redazione o la revisione dei piani urbanistici secondo parametri legislativamente determinati viene, infatti, demandata al regolamento emanato dal Presidente della Regione.

Siffatta previsione autoritativa dell'onorario da corrispondere ai professionisti sarebbe in contrasto con la disposizione di cui all'art.

5 del testo unico n. 143 del 1949 e violerebbe inoltre il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, precostituendo altresì fondamento e determinazioni non conformi al principio di buon andamento della P.A.

6. - Anche le disposizioni di cui agli artt. 2 e 3 vengono assoggettate a rilievi di carattere costituzionale, sotto il profilo del mancato rispetto dei princìpii di cui agli artt.3, 9 e 97 della Costituzione.

Il ricorrente, premesso che la normativa in esame è riconducibile nei suoi princìpii ispiratori alla recente disciplina statale, di cui ai decreti-legge nn. 180, 280 e 398 del 1993, basata sull'estensione dell'istituto del silenzio- assenso alle procedure per il rilascio delle concessioni edilizie, rileva che tale normativa statale di riferimento viene tempestivamente recepita nell'ordinamento regionale con sostanziali correttivi che finiscono con l'alterarne profondamente le finalità.

Sul punto - a parere del Commissario ricorrente - è determinante la considerazione che il legislatore regionale, a differenza di quello nazionale, non ritiene quale indispensabile presupposto per l'applicazione dell'istituto del silenzio-assenso l'esistenza di strumenti urbanistici approvati e vigenti. Ciò si evince dal 3° comma dell'art. 2, il quale soltanto fa "un tenue riferimento" ad una conformità degli interventi da realizzare alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie.

Inoltre non viene escluso che le richieste di concessione riguardino immobili vincolati ai sensi delle leggi nn. 1089 del 1939, 1497 del 1939 e 431 del 1985 e successive modifiche ed integrazioni, come previsto dal legislatore nazionale con l'ultimo decreto-legge proposto.

7. - Si è costituita la Regione Sicilia, preliminarmente osservando che la censura sarebbe fon data su ragioni di opportunità e di merito politico. In particolare:

a) gli artt. 2 e 3, attinenti alla formazione del silenzio- assenso, sarebbero coerenti con le conformità della concessione edilizia, presupposto dello ius aedificandi, alla normativa urbanistica, come evidenziato dalla lettera delle disposizioni (art. 2, settimo comma, ed art. 3, secondo comma). Le modalità ed i termini dei procedimenti di formazione del silenzio (conformi del resto ad analoga previsione della legislazione nazionale) sarebbero scelte di mero dettaglio, riguardanti il "merito politico";

b) negli artt. 4 e 5 non vi sarebbe alcuna violazione dell'autonomia comunale, attesa la necessità di una specifica delibera per concedere il diritto di abitazione.

In ogni caso le norme si muoverebbero in una "sfera autonoma e distinta rispetto a quella del regime sanzionatorio delle attività edilizie abusive" poichè la concessione del diritto di abitazione interverrebbe dopo l'acquisizione dell'immobile al patrimonio comunale, quindi "a valle" dei procedimenti sanzionatori. Questi ultimi non sarebbero dunque arrestati dalle norme in argomento, come nei casi di sanatoria; anzi la loro conclusione ne sarebbe il presupposto. Anche il diritto di abitazione sarebbe del resto caratterizzato da limitazioni di contenuto e durata; inoltre, la possibilità, di consentire un uso del patrimonio edilizio per "fini comuni" evitando la demolizione dell'opera abusiva, sarebbe già presente nella legislazione.

Le norme non invaderebbero la sfera civile quella penale, come dimostrato dal richiamo alle disposizioni del codice civile di cui all'art. 4, secondo comma, e dalla garanzia di prosecuzione delle attività processuali di cui al comma ottavo;

c) quanto infine agli artt. 6, secondo, terzo e quarto comma, 8 e 7, si osserva che la previsione in tema di mutamento di destinazione d'uso si correla ad una presa d'atto della crescente crisi nelle attività agricole e che la garanzia di continuità dei contratti di utenza è volta a consentire la fruizione dei servizi in immobili che hanno goduto di precedenti sanatorie.

8. - Nell'imminenza dell'udienza l'Avvocatura generale dello Stato, per il Commissario dello Stato, ha depositato un'ulteriore memoria, osservando anzitutto che il diritto di abitazione è "concesso", e non già costituito, a favore non solo di un soggetto ma anche dei componenti del suo nucleo familiare, senza prefissione di termine, dietro pagamento di un'indennità commisurata ai soli oneri di urbanizzazione (e non alla durata del diritto), con obblighi di recupero estetico, completamento esterno ed adeguamento sismico a carico del concessionario, senza coordinamento con le possibilità di sanatoria ex lege n. 47 del 1985.

A ben vedere il diritto de quo, la cui "concessione" non avrebbe molto in comune con il diritto di abitazione, oltre ad incontrare il limite del diritto privato, risulterebbe situazione atipica e non individuata chiaramente. Si rilevano al riguardo la previsione della decadenza e del recesso, estranee alla configurazione civilistica dell'istituto, la incertezza sulla data limite di riferimento, l'indeterminabilità del momento della destinazione ad uso abitativo e della sua idoneità nonchè del concetto di nucleo familiare di fatto, la equivoca formulazione concernente l'acquisizione dell'immobile al patrimonio comunale. Anche l'espressione "legittimo possesso", riferita all'area su cui sorge la costruzione, sarebbe ambigua e pericolosa.

Oscure e equivoche sarebbero poi altre locuzioni normative, concernenti l'accertamento delle condizioni che consentono la concessione del diritto, la sospensione di procedimenti amministrativi, il riferimento ad attività processuali e ad organi della giurisdizione, il parametro del "rilevante pregiudizio" degli interessi urbanistici.

In realtà l'impugnata normativa perseguirebbe una sorta di surrettizio condono edilizio attraverso un sostanziale svuotamento delle sanzioni, con pregiudizio di territorio e paesaggio, ma anche della finanza locale, privata di introiti altrimenti possibili; verrebbero altresì premiati i responsabili degli abusi più gravi e così rendendo anche iniqua la repressione degli abusi meno gravi.

In termini più generali l'Avvocatura, ribadite ancora una volta le incertezze sui tempi e sul linguaggio della legge, osserva che la trasformazione del responsabile dell'abuso (che dovrebbe essere conosciuto dall'ordinamento solo come destinatario di sanzioni) in titolare di situazioni giuridiche vantaggiose pone gravi problemi anche di tecnica giuridica, aprendo la strada ad infinite astuzie (quali ad es. quella di domiciliare un familiare nella seconda casa).

Quanto al silenzio-assenso, l'Avvocatura rileva come l'istituto sia scomparso a seguito delle innovazioni di cui alla legge n. 493 del 1993, ribadendo le censure già contenute nell'atto introduttivo circa l'assenza dei presupposti e limiti di formazione del silenzio stesso.

Particolarmente censurabile e idoneo a possibili strumentalizzazioni risulterebbe poi il termine di trenta giorni dall'inizio dei lavori fissato nell'art. 8.

9. - Anche la Regione Sicilia ha presentato ulteriore memoria nell'imminenza dell'udienza.

La Regione esclude anzitutto che l'art. 4 della legge impugnata sani alcun abuso edilizio; la norma interverrebbe infatti solo dopo la confisca dell'immobile abusivo, con la finalità di "dare una casa a chi ne è privo", escludendo le persone giuridiche e chi abbia edificato a scopo di speculazione.

Inoltre si ricorda ancora che la normativa non è applicabile in presenza di vincoli di edificabilità e se il mantenimento dell'immobile arrechi rilevante pregiudizio alle destinazioni generali di zona: non sarebbe quindi violata la garanzia di tutela del paesaggio.

Quanto al diritto di abitazione (del quale vengono richiamati i tratti essenziali) si fa rilevare come si tratti di situazione di godimento di limitato contenuto, alquanto più fragile del diritto di locazione sia sotto il profilo della successione mortis causa, sia perchè soggetto a decadenza per abuso. si < potranno avere tanti diritti di abitazione quanti sono> i familiari del responsabile dell'abuso, < ma un solo diritto di abitazione costituito in capo all'ex proprietario, del quale sono ammessi a godere anche i suoi familiari>.

Secondo la difesa della Regione, la legge impugnata avrebbe individuato il giusto punto di equilibrio tra esigenza di solidarietà sociale e repressione degli abusi, risultando ingiustificata la censura circa la tolleranza del legislatore regionale connessa al protrarsi delle iniziative nel tempo ed al dilatarsi dei termini per l'approvazione, in quanto al riguardo è stato previsto l'utilizzo come dimora abituale e principale del responsabile dell'abuso, senza - oltretutto - modificare la configurazione privatistica del diritto di abitazione. Priva di consistenza sarebbe poi la pretesa disparità di trattamento rispetto a coloro che si giovarono del condono edilizio, attesa la differente prospettiva in cui si colloca la legge impugnata, destinata ad operare dopo l'acquisizione del bene al patrimonio indisponibile del Comune.

A parere della Regione, poi, la concessione del diritto di abitazione a fronte della perdita della proprietà rivestirebbe pur sempre un'"indubbia e sostanziale portata sanzionatoria ed afflittiva" e non vi sarebbe alcuna interferenza con la materia penale, poichè l'ordine di demolizione emesso dal giudice ex art. 7 della legge n. 47 del 1985, ha un carattere di supplenza rispetto all'inerzia della P.A., la quale è da ritenere necessariamente esclusa nel caso in esame.

Del resto il legislatore regionale, nell'esercizio della sua potestà esclusiva e dell'ampio margine concessogli dalla legge n. 47 del 1985, si sarebbe limitato a riempire il concetto di pubblico interesse (che giustifica il mantenimento delle opere acquisite) con la necessità di assicurare un tetto a chi ne è privo, introducendo anche rigorose prescrizioni (quali ad es. i provvedimenti sanzionatori a carico di sindaci e dipendenti comunali inadempienti) volte a rilanciare la pianificazione territoriale.

In ordine alle altre censure del Commissario, la Regione esclude che tra i presupposti per l'applicazione del silenzio- assenso non vi sia l'esistenza di strumenti urbanistici (la necessità di presentare una perizia giurata attestante la conformità alle prescrizioni urbanistiche proverebbe il contrario) ed osserva che il rilascio di nulla-osta da parte di amministrazioni diverse implica il rispetto dei vari, possibili vincoli.

Quanto al mutamento di destinazione d'uso si rileva che esso è consentito ma solo nell'àmbito dei fini produttivi, con esclusione di altri utilizzi: si tratterebbe quindi di una norma di razionalizzazione.

Per i contratti di utenza l'impugnativa nascerebbe da un equivoco: ciò che il terzo comma dell'art. 7 si proporrebbe è soltanto l'esclusione dei contratti preesistenti dal nuovo e più rigoroso regime.

L'art. 8, poi, concernente il rilascio del certificato di abitabilità sui volumi tecnici, nel rispetto della cubatura esistente, andrebbe riferito alla cubatura realizzata lecitamente.

Infine, sul punto dei compensi ai professionisti, nulla impedirebbe alla Regione di regolare come crede l'attività contrattuale svolta dai propri enti locali con professionisti privati.

Considerato in diritto

1 - Il Commissario dello Stato per la Regione Siciliana impugna le seguenti norme della deliberazione legislativa nn.524, 249, 324, 343, 545, recante "Provvedimenti per la prevenzione dell'abusivismo edilizio e per la destinazione delle costruzioni edilizie abusive esistenti", approvata dall'Assemblea regionale siciliana il 14 ottobre 1993:

1) artt. 2 e 3, che delineano le procedure per il rilascio delle concessioni edilizie e dei certificati di abitabilità, agibilità e conformità, per violazione dell'art. 4 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 398 (in tema di silenzio-assenso) ora convertito, con modificazioni, nella legge 4 dicembre 1993, n. 493, in relazione ai limiti posti dall'art. 14, lettera f), dello statuto speciale della Regione Sicilia, nonchè degli artt. 3, 9 e 97 della Costituzione;

2) artt. 4 e 5, che prevedono la concessione del diritto di abitazione sulle opere edilizie abusive acquisite, per interferenza in materia penale e di diritto privato, per violazione della legge 28 febbraio 1985, n. 47, in relazione ai limiti posti dall'art. 14, lettera f), dello statuto speciale della Regione Sicilia, nonchè degli artt. 3, 5, 9 e 97 della Costituzione;

3) artt. 6, secondo, terzo e quarto comma, e 8, che disciplinano rispettivamente l'autorizzazione al mutamento di destinazione d'uso per gli immobili "edificati a verde agricolo" ed il rilascio del certificato di abitabilità per i volumi tecnici, per violazione della legge n. 47 del 1985 in relazione ai limiti posti dall'art. 14, lettera f), dello statuto speciale della Regione Sicilia, nonchè degli artt. 3, 9 e 97 della Costituzione;

4) art. 7, terzo comma, che fa salvi i contratti di utenza stipulati prima dell'entrata in vigore della legge de qua, per violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione, sempre in relazione ai predetti limiti ex art. 14, lettera f), nonchè in riferimento all'art. 45 della legge n. 47 del 1985;

5) art. 11, che introduce il settimo comma nell'art.25 della legge della Regione Sicilia 27 dicembre 1978, n. 71, determinando i compensi spettanti ai progettisti per la redazione o la revisione dei piani urbanistici, per violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione.

2. - La legge regionale della quale fanno parte le disposizioni impugnate risulta dallo stralcio dei contenuti di numerose iniziative legislative presentate all'Assemblea regionale siciliana tra il marzo del 1992 ed il giugno del 1993. Tutte le proposte si fanno carico delle allarmanti connotazioni che il fenomeno dell'abusivismo edilizio ha assunto in Sicilia. Dai lavori preparatori che hanno preceduto la normativa de qua si colgono ancor meglio alcuni dati, che possono essere come appresso riassunti.

Si è in presenza di una disapplicazione pressochè assoluta delle norme che prevedono la demolizione delle opere abusive; in particolare, le domande di sanatoria presentate sulla base della legge regionale 10 agosto 1985, n. 37 (concernente l'applicazione in Sicilia della legge 28 febbraio 1985, n. 47), risultano in grande misura ancora pendenti, con la conseguenza di rendere di fatto possibile non solo l'utilizzazione ma anche la commerciabilità degli immobili.

Le amministrazioni locali frequentemente appaiono gestire in modo clientelare il fenomeno, in alcuni casi favorendo movimenti ed aggregazioni di massa costituiti da occupanti di immobili abusivi, le quali, sotto il comune denominatore del diritto alla casa, si intrecciano spesso con interessi speculativi e fenomeni malavitosi.

In questo quadro il legislatore della Regione sembra muoversi secondo due linee fondamentali: la responsabilizzazione di sindaci ed amministratori e la salvaguardia di quelle situazioni in cui l'utilizzo dell'opera abusiva risponda ad esigenze abitative primarie.

Ciò premesso, le censure vanno esaminate nell'ordine in cui sono state proposte.

3.1. - Gli artt. 2 e 3 delineano le procedure per il rilascio, rispettivamente, delle concessioni edilizie e dei certificati di abitabilità, agibilità e conformità, secondo il modello procedimentale del silenzio-assenso. Lamenta il ricorrente che, in presenza di una normativa statale, ancora in via di definizione, volta alla semplificazione delle procedure, il legislatore siciliano non abbia previsto, quale presupposto per l'applicazione dell'istituto, l'esistenza di strumenti urbanistici, e non abbia escluso espressamente la possibilità di richiedere la concessione in presenza di vin coli.

L'Avvocatura, nella memoria aggiunta, modifica parzialmente i termini della censura, individuando come norma interposta non già l'art. 4 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n.398, che prevedeva il silenzio-assenso, bensì il nuovo testo del medesimo articolo quale risultante dalla legge di conversione 4 dicembre 1993, n. 493, che introduce la figura del commissario ad acta, espressamente parlando di "nuova disciplina di principio".

Più in dettaglio, l'Avvocatura sottolinea la genericità delle locuzioni legislative concernenti l'inoltro della perizia giurata che asseveri la conformità degli interventi alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie, qualificando tale previsione come un formale e separato dovere del tecnico e progettista, ed assumendo altresì che la fissazione del termine entro cui completare l'esame delle domande implicherebbe l'impossibilità di revocare la concessione assentita, una volta decorso detto termine.

3.2. - Le censure non sono fondate.

La generale previsione del silenzio-assenso contenuta nell'art. 20 della legge 7 agosto 1990, n. 241, sul procedimento amministrativo, è stata recepita dalla legislazione regionale siciliana con la legge 30 aprile 1991, n. 10, così come previsto dall'art. 79 della citata legge n.241 del 1990, che imponeva l'adeguamento degli ordinamenti delle regioni a statuto speciale alle norme fondamentali contenute nella legge stessa. L'art. 23 della legge regionale n. 10 del 1991 prevede appunto l'accoglimento della domanda per l'esercizio di un'attività privata subordinata ad un atto di consenso dell'amministrazione, là dove non intervenga un motivato provvedimento di diniego nel termine previsto dalla normativa specifica. Lo stesso articolo impone all'amministrazione di annullare l'assenso ove essa rilevi dopo la scadenza del termine, che l'attività è illegittimamente esercitata.

Gli impugnati artt. 2 e 3, in una materia come quella urbanistica che è di esclusiva competenza regionale, si conformano ai richiamati princìpii, tracciando un iter procedimentale volto a superare i possibili momenti di inerzia senza pregiudizio per gl'interessi pubblici da tutelare. Si prevede in particolare, sia per il rilascio delle concessioni edilizie sia per i certificati di cui all'art. 3, che la domanda venga integrata (prima dell'inizio dei lavori nel primo caso e in allegato alla richiesta nel secondo) da una perizia giurata che - a firma rispettivamente del progettista e del tecnico responsabile dei lavori - attesti la conformità alla normativa.

In particolare per il rilascio delle concessioni edilizie, si richiede che consti il rispetto delle prescrizioni urbanistiche ed edilizie nonchè delle norme di sicurezza e sanitarie; inoltre la domanda dev'essere corredata dalle autorizzazioni, pareri o nulla-osta relativi alle opere oggetto della concessione. Sempre con riguardo a tale pro cedimento, l'art. 2 impone l'individuazione del responsabile del procedimento stesso con l'obbligo correlativo di questi, di formulare una proposta motivata di provvedimento destinata alla Commissione edilizia comunale. Ove quest'ultima non dovesse rendere il parere di propria competenza, il sindaco è tenuto a provvedere comunque, sulla scorta del primo parere.

La concessione si intende accolta ove non venga comunicato all'interessato il provvedimento motivato di diniego entro centoventi giorni dal ricevimento dell'istanza.

Il complesso di termini che scandisce il procedimento e la connessa previsione di attività sostitutiva, fino alla concessione edilizia assentita con le descritte modalità, trovano il loro logico contrappunto nell'obbligo di completare l'esame delle domande, sancito per entrambe le ipotesi con siderate, rispettivamente nel settimo comma dell'art. 2 e nel quarto comma dell'art. 3. All'eventuale accertamento della mancanza dei requisiti per il rilascio conseguono l'annullamento o la revoca, unitamente all'avvio da parte del sindaco delle procedure necessarie per far valere le responsabilità penali, civili, amministrative e disciplinari di quanti abbiano concorso all'operatività del silenzio-assenso.

Tutto ciò risulta conforme al principio del buon andamento della P.A., sotto il profilo della ragionevolezza delle previsioni, nonchè adeguato ai generali princìpii di legislazione statale e regionale. Il procedimento è volto ad assicurare un meccanismo efficiente che bilanci in modo equilibrato le istanze del cittadino, non più condizionate esclusivamente dall'attività del pubblico amministratore, con le esigenze di controllo di conformità della richiesta alle normative da essa implicate.

3.3. - La censura non potrebbe essere accolta neppure come riformulata dall'Avvocatura.

Si ricorda a tal proposito che in subiecta materia l'istituto del silenzio-assenso fu introdotto dall'art. 8 del decreto-legge 23 gennaio 1982, n. 9, convertito in legge 25 marzo 1982, n. 94, per gli interventi di edilizia residenziale e di recupero del patrimonio esistente, come possibilità limitata nel tempo fino al 31 dicembre 1984. Questa scadenza venne quindi prorogata per ben quattro volte, sino a che l'art. 23, quarto comma, della legge 17 febbraio 1992, n. 179, non la soppresse, mandando così a regime l'istituto.

Successivamente, una serie di decreti-legge (8 aprile 1993, n.101; 7 giugno 1993, n. 180; 6 agosto 1993, n. 280, e, da ultimo, 5 ottobre 1993, n. 398) ridisegnarono in modo più articolato il procedimento de quo, con previsioni sostanzialmente analoghe a quelle oggetto della impugnativa or ora esaminata. Con la legge 4 dicembre 1993, n. 493 (di conversione dell'ultimo dei citati decreti-legge, essendo i precedenti decaduti per mancata conversione), è stata prevista la figura di un commissario ad acta, preposto all'adozione del provvedimento concessorio.

Non si vede come da tale enunciato normativo possa trarsi quell'indicazione assiologica caratteristica di una norma di principio, posto che dalle descritte vicende legislative non è possibile trarre quei criteri di razionalità e coerenza d'insieme che la norma di principio dovrebbe offrire all'ordinamento. Tanto più ove si consideri che l'art. 4 del citato decreto-legge n. 398 del 1993, nel testo risultante dalla legge di conversione, si qualifica come applicabile soltanto in assenza di legislazione regionale, la quale, d'altronde, nella materia urbanistica rientra nella competenza esclusiva, proprio a norma di quell'art. 14, lettera f), dello statuto speciale, che il Commissario ricorrente assume a parametro insieme con gli artt. 3, 9 e 97 della Costituzione.

4.1. - Gli artt. 4 e 5 sono impugnati nella parte in cui prevedono la concessione del diritto di abitazione sulle opere edilizie abusive con esclusione delle costruzioni realizzate su aree sottoposte a vincolo.

Lamenta il Commissario la violazione, da parte della Regione, della ratio della legge n. 47 del 1985, l'interferenza, da parte della stessa, nella materia penale e nel diritto privato, e, infine, la lesione dei precetti di cui agli artt. 3, 5, 9 e 97 della Costituzione.

Le questioni sono fondate nei limiti di cui appresso.

4.2. - L'art. 4 consente ai comuni di destinare le opere edilizie abusive, una volta acquisite al patrimonio comunale, al soddisfacimento della necessità di edilizia residenziale secondo le seguenti procedure:

1) se l'opera abusiva risulti adibita a dimora abituale e principale del responsabile dell'abuso e del suo nucleo familiare, anche di fatto, il sindaco può concedere al responsabile che lo richieda e ai componenti del suo nucleo familiare il diritto di abitazione nei limiti e con i contenuti di cui agli artt. 1022, 1023, 1024 e 1025 cc.;

2) tale concessione è ammessa purchè il mantenimento dell'immobile non arrechi rilevante pregiudizio alle destinazioni generali di zona ed è in ogni caso esclusa per le opere realizzate in zone sottoposte a vincolo d'inedificabilità assoluta o comunque a divieto assoluto di costruzione, mentre, per le zone soggette a vincoli speciali, è richiesto il nulla-osta dell'autorità che gestisce il vincolo;

3) la presentazione delle domande ha effetto sospensivo sui procedimenti amministrativi di repressione dell'abusivismo che siano in corso;

4) viene demandato al Presidente della Regione di fissare condizioni, modalità ed obblighi per l'esercizio del diritto, nonchè i casi di decadenza dallo stesso;

5) sono previste precise condizioni, in particolare:

a) l'ultimazione della costruzione entro il 30 settembre 1993;

b) il pagamento di un'indennità ragguagliata agli oneri di urbanizzazione da parte del concessionario; c) infine che quest'ultimo non sia proprietario di altro immobile idoneo a soddisfare le esigenze abitative e che la costruzione sia stata realizzata su area di cui si aveva il legittimo possesso.

Nel valutare questa normativa, non può ignorarsi che la situazione dell'edilizia abusiva ha assunto in Sicilia i caratteri di ampiezza e gravità già accennati sub 2; come pure è evidente che una politica di corretta gestione del territorio non può realizzarsi senza una contemporanea valutazione dei problemi di ordine pubblico che lo strumento della demolizione può comportare e, più in generale, delle tensioni presenti in aree dove il fenomeno dell'abusivismo è pressochè generalizzato. Parimenti è giustificata la preoccupazione del legislatore regionale circa l'appagamento del diritto all'abitazione, espressa in una valutazione di particolare favore per il cosiddetto "abusivismo per necessità".

Ciò premesso, ritiene la Corte che la normativa de qua superi nelle sue linee essenziali lo scrutinio di costituzionalità cui l'ha sottoposta il Commissario dello Stato ricorrente, ove la si interpreti - come si deve - in modo conforme alla Costituzione e ai princìpii generali del diritto statale; fondate palesandosi le censure soltanto per quanto riguarda il terzo comma, lettere b) e d), nonchè il sesto comma dell'art. 4.

4.3. - Nessuna censura intanto può esser mossa direttamente al primo comma di tale articolo, giacchè esso si limita ad autorizzare i Comuni dell'Isola a stabilire che le procedure successive all'acquisizione al patrimonio comunale delle opere edilizie abusive esistenti alla data dell'entrata in vigore della presente legge, siano regolate dalle disposizioni dei successivi commi, oltre che dalle disposizioni della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e della legge regionale 10 agosto 1985, n. 37, in quanto compatibili.

In tal modo, difatti, si descrive una possibilità ulteriore ed alternativa per la gestione del patrimonio edilizio comunale, di per coerente con la competenza esclusiva della Regione in materia.

4.4. - Il secondo comma, costituente l'obiettivo fondamentale dell'impugnazione, dispone espressamente che l'acquisizione dell'opera abusiva al patrimonio comunale, deve avvenire "ai sensi dell'art. 7, quinto comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47" (legge che, ovviamente nei suoi princìpii fondamentali, è da includere fra le "norme fondamentali di riforma economico-sociale"). Ciò significa che, fermo restando l'obbligo di demolizione dell'opera, il quale in via primaria consegue all'acquisizione dell'opera abusiva, questa può essere conservata al patrimonio comunale e non demolita, quando con deliberazione comunale relativa alla singola opera (e quindi tenuto espressamente conto di tutte le circostanze del caso che giustificano la deroga nonchè in presenza di una esplicita individuazione dell'immobile e delle sue caratteristiche) si ritenga che sussistano prevalenti interessi pubblici alla conservazione e semprechè "l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali". E giova ricordare che taluni di tali vincoli sono più specificamente riprodotti in altre disposizioni della legge impugnata (artt. 4, decimo comma; 5, primo e secondo comma).

Sempre per espressa disposizione del secondo comma, l'opera abusiva può essere acquisita al patrimonio comunale onde essere concessa come abitazione, solo se è adibita a "dimora abituale e principale del responsabile dell'abuso e del suo nucleo familiare, anche di fatto".

Inoltre, dopo l'acquisizione, il sindaco, su richiesta del responsabile dell'abuso, non deve necessariamente, ma "può concedere il diritto di abitazione sull'immobile al richiedente e ai componenti del suo nucleo familiare...".

Da ciò deriva, alla stregua di un'interpretazione conforme a Costituzione, che l'atto di concessione del diritto di abitazione è provvedimento discrezionale, sia relativamente all'an (il sindaco può concedere solo se ricorre l'interesse pubblico primario sotteso all'intera legge regionale, nel senso che sussista l'esigenza di assicurare l'abitazione a chi ne ha bisogno, in considerazione del reddito, delle condizioni di vita, etc.), sia relativamente al quid (il diritto di abitazione può essere concesso solo se l'opera abusiva costituisca già l'effettiva dimora del richiedente e del suo nucleo familiare, proporzionata a quelle esigenze minime rispetto a una vita dignitosa dell'effettivo nucleo familiare, garantite dalla Costituzione e dalla legislazione ordinaria sull'edilizia residenziale pubblica).

Ne consegue altresì che la concessione del diritto di abitazione non può avvenire a favore degli aventi causa a qualsiasi titolo di chi ha commesso l'abuso o di altri possessori successivi, a favore di imprese o società (ancorchè queste abbiano direttamente commesso l'abuso).

Ulteriore implicazione di quanto esposto è che il diritto di abitazione non può esser concesso relativamente a edifici aventi caratteristiche di abitazione di lusso o di "seconda casa": in questi casi, infatti, si esorbiterebbe dall'interesse pubblico (costituzionalmente tutelato) che presiede al provvedimento del sindaco, diretto a soddisfare un'esigenza abitativa primaria, riferibile soltanto ai bisognosi (chi non ha altra casa) e nei limiti di tale diritto sociale (necessità di assicurare un livello di vita che non sia inferiore a quello di una "vita dignitosa").

Nel complesso, dunque, il secondo comma dell'art. 4 - chiarite queste premesse interpretative e ferme le declaratorie di illegittimità di cui infra - contiene un bilanciamento non irrazionale (nell'àmbito del potere che ogni comune ha di utilizzare opere abusive non demolite a fini di soddisfazione dei bisogni di edilizia residenziale pubblica) tra l'esigenza di disciplinare il grave problema dell'abusivismo edilizio e l'esigenza (di rilievo anche costituzionale: v. sentenza n. 49 del 1987) di assicurare un'abitazione ai bisognosi. E solo un'interpretazione non conforme alla Costituzione e ai princìpii generali dell'ordinamento statale potrebbe condurre - come giustamente rileva la difesa della Regione - ai risultati negativi che il Commissario ricorrente indica come giustificativi delle sue censure.

4.5. - Le censure, viceversa, sono fondate per quanto concerne alcune delle condizioni descritte dal terzo comma dello stesso art. 4, e precisamente quelle sub lettera b) e sub lettera d).

Il terzo comma, lettera b), infatti, prevede come condizione per la concessione del diritto di abitazione che l'opera abusiva sia stata ultimata entro il 30 settembre 1993, e non invece entro la data di proposta della legge impugnata.

La fissazione di questo termine è, a giudizio della Corte, inficiata da irrazionalità, in quanto, non precludendo la legittimazione alla proposizione della domanda di concessione del diritto di abitazione nei confronti di quanti abbiano realizzato l'abusivo manufatto, proprio confidando nell'approvazione di un ormai noto disegno di legge, si risolve in un arbitrario incentivo all'abusivismo. Viceversa, rispetto ad ogni iniziativa legislativa diretta ad incidere temporaneamente sulla preesistente disciplina degli effetti di un illecito, in senso soppressivo di alcuno di essi o comunque migliorativo per il trasgressore, si impone la fondamentale esigenza di un adeguato coordinamento con la determinazione della data finale del periodo beneficiato, in guisa tale che ne risulti impedita una siffatta, abnorme conseguenza.

Nel caso in esame, la prima proposta risulta essere stata presentata all'Assemblea regionale il 23 marzo 1992 e, di conseguenza, la detta esigenza poteva essere soddisfatta soltanto fissando la scadenza del periodo considerato in un momento non successivo a tale data.

Il terzo comma, lettera d), poi, è censurabile perchè si limita a prevedere il pagamento di una semplice "indennità ragguagliata agli oneri di urbanizzazione", e dunque non un corrispettivo di valore non irrisorio quale è quello spettante al proprietario che costituisce a favore di altri, non a titolo gratuito, un diritto reale parziario sul proprio bene. Evidente infatti è sul punto la violazione dell'art.97 della Costituzione; tanto più ove si consideri che il diritto concesso può avere anche lunghissima durata e quindi per egual tempo può comprimere la proprietà del Comune su un immobile, che, oltretutto, a norma del comma 9, "entra a far parte del patrimonio indisponibile del Comune" stesso, col conseguente vincolo di destinazione.

4.6. - Censurabile è anche il sesto comma dello stesso art. 4, perchè delega al Presidente della Regione il potere di fissare "le condizioni, modalità ed obblighi per l'esercizio, decadenza e recesso del diritto di abitazione, nei limiti consentiti dalle richiamate norme del codice civile".

Palese infatti è la incongruenza interna della disposizione, che da una parte richiama "i limiti consentiti" dalle norme indicate nel secondo comma, dall'altra si pone subito in contrasto col comma stesso, per il quale il diritto d'abitazione va concesso < nei limiti e con i contenuti di cui agli artt. 1022, 1023, 1024 e 1025 del codice civile>, e perciò non sopporta altri "obblighi" o "condizioni" quali potrebbero essere quelli fissati con decreto del Presidente della Regione. Così come palese è l'irrazionalità della delegata fissazione d'un "recesso dal diritto d'abitazione", che rappresenterebbe un singolare modo di estinzione del diritto reale, del tutto estraneo alla normativa codicistica, la quale verrebbe inammissibilmente modificata da detto decreto.

4.7. - Il settimo comma dell'art. 4 non forma oggetto di puntuale censura; e del tutto fuori dall'impugnazione rimangono il nono e il decimo comma. Sicchè resta da esaminare soltanto l'ottavo, la cui disposizione costituirebbe - a giudizio del ricorrente - "sicuro indizio di incostituzionalità".

Al riguardo è peraltro sufficiente osservare che la sospensione ivi prevista ha, all'evidenza, una portata limitata ai procedimenti amministrativi di competenza della Regione, collocandosi in rapporto di mezzo al fine dell'accertamento di tutte le condizioni utili alla concessione del diritto di abitazione; mentre restano ferme - la norma lo specifica, avrebbe potuto essere altrimenti - le procedure giudiziarie in corso.

D'altro canto, non può negarsi che necessiti di un ragionevole lasso di tempo un'attività complessa che va dalla identificazione del responsabile dell'abuso, alla verifica della sua situazione reddituale e residenziale, fino alla descrizione delle caratteristiche dell'immobile.

Sicchè la censura del ricorrente risulta priva di consistenza.

Scrutinato come sopra l'art. 4, e considerato che nessuna censura viene mossa all'art. 5 se non in mera relazione ai primi due commi dell'art.4, si può passare senz'altro all'esame dell'impugnazione dei successivi articoli.

5.1. - Il ricorrente Commissario impugna altresì l'art.6, secondo, terzo e quarto comma, e l'art. 8 della legge regionale in esame.

La prima di dette disposizioni sostituisce l'art. 22 della legge regionale 27 dicembre 1978, n. 71, il quale consentiva insediamenti manifatturieri, a carattere artigianale ed anche industriale (con il limite di venti unità di personale), nelle zone classificate come verde agricolo fino alla copertura di un terzo dell'area di proprietà proposta per l'insediamento.

Il testo novellato ammette ora un rapporto di copertura non superiore a un decimo, operando alcuni rinvii per la disciplina di distanze e distacchi, ma soprattutto - ed è il punto oggetto della censura - consente che i comuni permettano il cambio di destinazione d'uso per quegli immobili legittimamente edificati in base al previgente art. 22 ed in conformità al piano regolatore, i quali, già ultimati alla data di entrata in vigore della legge, non possono più essere utilmente destinati alle finalità economiche originarie, e purchè la nuova destinazione non sia in contrasto con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali. Resta esclusa la possibilità di consentire destinazioni abitative, alberghiere o ricettive.

Secondo il Commissario, l'applicazione della norma consentirebbe di rendere legittima la condizione d'immobili realizzati in difformità alle prescrizioni edilizie e in violazione degli standards urbanistici.

Le censure non sono fondate.

Questa Corte ha già compiuto un'esegesi dell'art. 25 della legge n.47 del 1985, rilevandone l'indicazione di fondo, espressa dalla necessità che "l'assoggettamento al controllo dell'amministrazione del mutamento di destinazione senza il concorso di opere edilizie" sia "subordinato ad un preventivo apprezzamento d'insieme del territorio".

Tale apprezzamento, diretto a verificare se dalla mutata utilizzazione possano derivare situazioni di incompatibilità con il tessuto urbanistico, si rea lizza nel momento pianificatorio, trovando la sua sede propria nello strumento urbanistico comunale (cfr. sentenza n. 73 del 1991 ). In tale prospettiva ermeneutica il citato art.25 ha quindi stabilito una norma di principio (cfr. sentenza n. 498 del 1993).

Nella specie la legge regionale, nell'introdurre criteri più restrittivi per gl'insediamenti in zone agricole, si limita ad una presa d'atto dell'esistente con riferimento alle costruzioni legittimamente realizzate nella vigenza della precedente normativa. Di queste ultime si consente al Comune di autorizzare il mutamento di destinazione d'uso, non senza però una serie di limitazioni, quali l'esclusione di alcune destinazioni e la valutazione di compatibilità con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali. Con tale precisazione, evidentemente comprensiva del rispetto degli standards urbanistici, la norma si colloca del tutto propriamente nella riserva di cui all'ultimo comma del citato art. 25 della legge n. 47 del 1985, e non fa che ribadire una facoltà già propria del Comune nell'esercizio dei suoi poteri di programmazione del territorio .

5.2. - L'art. 8 viene definito dal Commissario di "oscura e fuorviante formulazione" poichè consentirebbe "in concreto il rilascio del certificato di abitabilità anche ai manufatti non conformi alle vigenti prescrizioni edilizie".

In realtà la norma consente il rilascio del certificato in parola per le abitazioni, con riguardo ai volumi tecnici ricadenti entro il perimetro delle stesse ed in deroga ai requisiti fissati dalle norme regolamentari (ad eccezione di quelle in materia igienico-sanitarie) purchè nei limiti della cubatura esistente e con utilizzazione a servizio esclusivo delle abitazioni a cui afferiscono.

Indubbiamente la norma si presta anche ad una lettura nel senso di costituire una sanatoria gratuita per l'utilizzo abitativo di sottotetti e scantinati. Tuttavia può accogliersi sul punto la tesi difensiva della Regione, in quanto un'interpretazione conforme a Costituzione risulta perfettamente compatibile con il testo della norma: il riferimento alla cubatura esistente deve intendersi come limite all'autorizzazione del mutamento di destinazione ove tale cubatura non sia stata realizzata lecitamente. Inoltre, per un generale principio di corrispettività, l'utilità che per l'incremento di volumetria abitativa il privato viene a conseguire grazie all'autorizzazione (la quale rientra, a questo punto, nei poteri del Comune di cui sub 5.l.) deve necessariamente essere onerosa, comportando un adeguamento degli oneri finanziari dovuti al Comune.

6. - Parimenti necessita di un'opera ermeneutica il terzo comma dell'art. 7, che, a parere del ricorrente, consentirebbe "la prosecuzione di tutti i contratti di utenza esistenti per gli immobili abusivi".

La disposizione deve invero essere letta in correlazione con i due commi precedenti, ove si prevede per la richiesta di somministrazione di servizi pubblici alle aziende erogatrici una disciplina più rigorosa di quella a suo tempo introdotta dall'art. 45 della legge n. 47 del 1985. Si impone in particolare che, in luogo della documentazione "di parte" di cui al secondo comma della norma statale, il richiedente alleghi alla domanda copia della concessione ad edificare o in sanatoria. Parimenti per le opere iniziate anteriormente al 30 gennaio 1977, in aggiunta alla dichiarazione sostitutiva di atto notorio (ex quarto comma art. 45 cit.) è richiesta una perizia giurata attestante che non vi siano stati interventi di ampliamento, ricostruzione o ristrutturazione. Sono altresì imposti all'azienda erogatrice obblighi di verifica e di sospensione del contratto di utenza qualora emergano ragionevoli dubbi sulla veridicità della dichiarazione del richiedente.

Da questa nuova disciplina sono esclusi i contratti di utenza stipulati anteriormente alla legge, i quali - se ne può agevolmente dedurre - restano soggetti al previgente regime. Non si tratta quindi della paventata, indiscriminata sanatoria di utenze relative ad immobili abusivi, bensì della mera demarcazione temporale dell'applicabilità di più rigorose prescrizioni, la cui retroattività sarebbe risultata, all'evidenza, quanto meno problematica.

7. - Viene da ultimo prospettata la violazione degli artt.3 e 97 della Costituzione per effetto dell'art. 11 della legge de qua là dove, nel riformulare l'art. 25 della legge regionale 27 dicembre 1978, n. 71, si demanda ad un regolamento da emanarsi dal Presidente della Regione la determinazione dei compensi spettanti ai progettisti per la redazione o revisione dei piani urbanistici.

A parere del Commissario, tale previsione si porrebbe in palese contrasto con l'art. 5 della legge 2 marzo 1949, n.143, recante l'approvazione della tariffa professionale degli ingegneri e degli architetti, senza consentire l'eventuale verifica della congruità delle tariffe e non garantendo il professionista nella tutela dei propri interessi.

La doglianza non è fondata.

Anche a voler prescindere dal rilievo per cui l'art. 5 della legge n. 143 del 1949 non pare invocato a proposito, in quanto tale norma afferma soltanto che gli onorari in subiecta materia sono stabiliti a discrezione del professionista, e non esclude certo che debba tenersi conto "dell'estensione del territorio comunale e della complessità dei piani urbanistici" (come recita la disposizione impugnata), si osserva che quest'ultima si limita a delegare una fonte regolamentare per la determinazione dei compensi.

In presenza di una competenza legislativa esclusiva, non si vede come una semplice riserva possa concretare la paventata violazione dei richiamati parametri. É chiaro infatti che la delega dovrà essere esercitata "nel rispetto delle tariffe professionali e tenuto conto degli eventuali criteri generali fissati dalle disposizioni statali vigenti", secondo l'espressione correttamente adottata da una analoga legge della Provincia autonoma di Trento (cfr. art.20, ottavo comma, legge provinciale 10 settembre 1993, n. 26, recante norme in materia di lavori pubblici di interesse provinciale e per la trasparenza degli appalti). Tale limite deve considerarsi implicito ogni volta che entrino in gioco valori quali la giusta remunerazione delle attività professionali non suscettibili di valutazioni a priori differenziate sul territorio nazionale, se non legate alla specificità dell'oggetto (piano urbanistico) della prestazione d'opera intellettuale. E ciò a prescindere dalla qualificazione (in termini di norma di principio o meno) che si voglia attribuire al citato art. 5 e dal rango della fonte da cui tale disposizione promana.

Non è ravvisabile alcuna lesione attuale di principi di eguaglianza e di buon andamento della P.A., attesa anche la valenza - non trascurabile in sede di emanazione del regolamento - di indicazioni mutuabili proprio dalla più recente legislazione regionale siciliana. L'art. 22 della legge regionale 12 gennaio 1993, n. 10 (nel sostituire l'art. 5 della legge regionale 29 aprile 1985, n. 21), prevede infatti che i regolamenti che disciplinano le modalità di conferimenti degli incarichi di progettazione di opere pubbliche vengano adottati "sentiti gli ordini e i collegi professionali interessati".

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, comma 3, lettera b) nella parte in cui indica una data successiva al 23 marzo 1992, e lettera d) nella parte in cui non prevede il pagamento di un corrispettivo adeguato al valore del diritto di abitazione, nonchè comma 6, della legge approvata dall'Assemblea regionale siciliana nella seduta del 14 ottobre 1993 (disegno di legge n. 524- 249-324-343-545) recante "Provvedimenti per la prevenzione dell'abusivismo edilizio e per la destinazione delle costruzioni edilizie abusive esistenti";

dichiara non fondate nei sensi di cui in motivazione le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 7, terzo comma, e 8 della stessa legge, sollevate in riferimento agli artt. 3, 9 e 97 della Costituzione, in relazione all'art. 14, lettera f), dello statuto speciale della Regione Sicilia ed in riferimento alla legge 28 febbraio 1985, n.47, dal Commissario dello Stato con il ricorso in epigrafe;

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3, 5, 6, secondo, terzo e quarto comma, dell'art. 11 - sostitutivo dell'art. 25, settimo comma, della legge regionale siciliana 27 dicembre 1978, n.71 -, nonchè dei restanti commi dell'art. 4 della stessa legge, sollevate dal Commissario in riferimento ai medesimi parametri ed in relazione all'art. 4 del decreto legge 5 ottobre 1993, n.398, ed all'art. 45 della citata legge n. 47 del 1985.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27/04/94.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Cesare RUPERTO, Redattore

Depositata in cancelleria il 05/05/94.