ORDINANZA N. 121
ANNO 1994
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Giudici
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
Avv. Massimo VARI
Dott. Cesare RUPERTO
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 710 del codice di procedura civile, come sostituito dall'art. 1 della legge 29 luglio 1988, n. 331 (Modifica dell'articolo 710 del codice di procedura civile in materia di modificabilità dei provvedimenti del tribunale nei casi di separazione personale dei coniugi), promosso con ordinanza emessa il 19 gennaio 1993 dalla Corte di appello di Torino nel procedimento civile vertente tra Messina Giuseppa Rosaria e Mangano Paolo, iscritta al n. 460 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell'anno 1993.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 12 gennaio 1994 il Giudice relatore Vincenzo Caianiello.
Ritenuto che, nel corso di un giudizio per la revisione dei provvedimenti conseguenti alla separazione legale dei coniugi, la Corte di appello di Torino, con ordinanza del 19 gennaio 1993, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 710 codice di procedura civile, come sostituito dall'art. 1 della legge 29 luglio 1988 n. 331;
che nell'ordinanza di rimessione si precisa che uno dei coniugi aveva proposto reclamo contro il decreto del tribunale, con il quale erano stati modificati i provvedimenti in materia economica nonchè le modalità di visita della prole, e che l'altro coniuge, costituitosi in giudizio, aveva eccepito l'inammissibilità del reclamo perchè proposto oltre i dieci giorni previsti nell'art. 739, secondo comma, del codice di procedura civile, donde la rilevanza della questione di legittimità costituzionale della norma denunciata (art. 710 del codice di procedura civile) che, nel prevedere il procedimento in camera di consiglio, implicitamente richiama la disciplina dettata per esso, quanto ai termini, dall'art. 739, secondo comma, del codice di procedura civile;
che nell'ordinanza si premette che un giudizio, avente per oggetto diritti e status, non può essere strutturato in forme camerali, nè assoggettato ad una scarna regolamentazione del contraddittorio, ad una "sorta di indeterminatezza istruttoria" e ad una disciplina dell'impugnativa "polarizzata nel reclamo e contornata dai rimedi della modifica o della revoca", potendo il modello della camera di consiglio essere riservato soltanto per talune materie di giurisdizione volontaria;
che nella stessa ordinanza si richiama la dottrina, secondo la quale per talune situazioni soggettive e per talune materie il rinvio al procedi mento camerale dovrebbe intendersi limitato al richiamo delle regole concernenti la forma dell'atto introduttivo (ricorso, in luogo dell'atto di citazione) e la investitura "integrale" dell'organo giudicante, senza la sua scomposizione nelle due fasi, istruttoria e decisoria, mentre, viceversa, il "diritto vivente" si sarebbe attestato per inerzia su di un'interpretazione tale da presupporre in quei casi il richiamo anche ad "altri e più gravi lineamenti del rito camerale, quelli che riguardano il contraddittorio ed i rimedi del decreto";
che il giudice a quo riconosce che già questa Corte ha affrontato il problema con le sentenze nn. 543 e 573 del 1989, ma le motivazioni usate per rigettare le questioni allora sollevate non sono apparse convincenti, donde la necessità di un "ripensamento radicale della Corte costituzionale sul ricorso da parte del legislatore ordinario alla procedura camerale ex artt. 737 e ss. a tutela di diritti o status";
che, in particolare, nell'ordinanza si ricorda che questa Corte nelle richiamate sentenze ha affermato che, nella specifica materia ivi trattata, il termine per appellare è quello previsto dagli artt. 325 e 326 del codice di procedura civile per le sentenze, e che, ove si ritenga che la forma dell'appello debba essere quella del ricorso e non dell'atto di citazione, detto termine è rispettato col solo deposito tempestivo del ricorso in cancelleria, ben potendo la notifica del ricorso medesimo e del pedissequo decreto presidenziale di fissazione dell'udienza avvenire oltre il termine ordinario per l'appello, purchè entro il termine perentorio fissato dal giudice: ma in tal modo verrebbe rimesso "all'interpretazione dei giudici ordinari l'individuazione della forma dell'atto di appello";
che, inoltre, essendosi dalla Corte ammesso che nel rito camerale sia possibile acquisire ogni specie di prova precostituita o procedere alla formazione di qualsiasi prova, purchè il relativo modo di assunzione sia compatibile con la natura camerale del procedimento, il giudice delle leggi avrebbe eluso "il problema rappresentato dall'essenzialità o meno, ai fini del diritto di difesa, del rispetto delle modalità di assunzione delle prove dettate dagli artt. 191- 266 del codice di procedura civile e dei limiti della incompatibilità di tali modalità con la schematica e rudimentale procedura camerale ex artt.737 e seguenti del codice di procedura civile..., tutta o quasi rimessa alla determinazione discrezionale del singolo giudice";
che, ancora, essendosi ritenuto nelle precedenti decisioni della Corte che, in mancanza di una norma la quale vieti la assistenza tecnica, questa sia implicitamente ammessa, ciò non elimina "l'incongruenza di una disciplina che comporta per le parti la necessità della difesa tecnica solo nel corso del giudizio di primo grado e non anche nel giudizio di appello";
che, infine, in relazione alle ulteriori considerazioni contenute nelle ricordate sentenze, nella medesima ordinanza si sostiene: a) che la possibilità dell'appellato di proporre appello incidentale - ritenuta dalla Corte non incompatibile con il rito camerale - "mediante comparsa depositata direttamente nel corso della prima udienza (art.343, primo comma, del codice di procedura civile...) è incompatibile con quelle esigenze di celerità che nella specie sarebbero alla base del richiamo al rito camerale in appello"; b) e che l'affermazione, secondo cui il principio della pubblicità delle udienze può subire eccezioni giustificate dall'esigenza di assicurare il migliore e più rapido funzionamento del processo, è contraddetta dall'orientamento della Corte inaugurato dal la sentenza n. 212 del 1986 relativamente ai giudizi innanzi alle commissioni tributarie;
che, in relazione alle indicazioni di questa Corte circa l'applicabilità al giudizio camerale di principi e regole del giudizio ordinario per assicurare le garanzie proprie di un processo, si sostiene dal giudice a quo che ciò darebbe luogo ad un "procedimento praeter legem" che "non risulta accettabile" perchè rimetterebbe, "nell'adozione di talune forme", alle determinazioni "discrezionali" del singolo giudice la relativa disciplina, mentre la norma processuale è "di ordine pubblico" e, dovendo essere uniforme, va riservata al legislatore ordinario; rilievo, quest'ultimo, sostenuto anche dalla considerazione che "le sentenze interpretative di rigetto della Corte costituzionale, mentre possono avere una loro giustificazione nel diritto sostanziale, mal si adattano al campo processuale, che costituisce un sistema di garanzie che può essere disciplinato solo dal legislatore e non [...] rimesso all'arbitrio di altri organi privi di poteri normativi";
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, per il tramite dell'Avvocatura generale dello Stato, sostenendo la infondatezza della questione alla luce della costante giurisprudenza della Corte in relazione alle norme che disciplinano il procedimento camerale;
Considerato che l'ordinanza di rimessione affronta nel suo complesso il problema dell'applicabilità del rito camerale in materia di diritti soggettivi e di status e quello del potere del giudice di determinare le forme del procedimento, in quanto le norme (come, nella specie, l'impugnato art. 710 del codice di procedura civile, in materia di modifica dei provvedimenti conseguenti alla separazione dei coniugi) disciplinerebbero il relativo procedimento in modo insufficiente a garantire il diritto di difesa;
che, nel formulare le censure, il giudice rimettente, riproducendo taluni orientamenti critici espressi in dottrina relativamente alle sentenze di questa Corte nn. 543 e 573 del 1989 - che hanno rigettato analoghe questioni di legittimità costituzionale della norma (art. 8 della legge 6 marzo 1987 n.74) la quale prevede che l'appello avverso le sentenze di separazione personale sia deciso in camera di consiglio - non prospetta elementi tali da indurre a mutare opinione rispetto alle precedenti pronunce che pur investono altra disciplina, ma le cui rationes decidendi ricorrono anche con riguardo alla questione ora proposta;
che, difatti, molte delle considerazioni svolte nell'ordinanza di rimessione o sono meramente assertive (come quelle relative alla "scarna regolamentazione del contraddittorio" o alla "indeterminatezza istruttoria", e quelle in materia di assunzione delle prove, di difesa tecnica, di appello incidentale) ovvero ribadiscono le tesi che sono già state disattese nelle richiamate sentenze di questa Corte che, sia pur relativamente ad altra disciplina ed anche, in particolare, per quel che concerne il diritto di prova (sent.n.543 del 1989), ha fornito di essa una interpretazione adeguatrice dalla quale è possibile desumere utili indicazioni per ogni sorta di rito camerale in merito all'adozione di forme e di modalità tali da soddisfare i principi fondamentali del processo, in particolare a garanzia di diritto di azione e di difesa;
che devono in proposito ancora ribadirsi i principi affermati dalla costante giurisprudenza di questa Corte, la quale esclude che soltanto il rito ordinario sia conforme alla Costituzione e quindi l'unico rito idoneo a soddisfare il diritto di difesa, e precisa che la scelta del procedimento camerale per ragioni di celerità sarebbe illegittima solo se, in relazione alle peculiari esigenze dei diversi processi, tale scelta apparisse inidonea ad assicurare lo scopo e la funzione del processo, e, quindi, in primo luogo il contraddittorio (v.sent. n. 543 del 1989 e altre ivi richiamate),dovendosi considerare che, in difetto di esplicite previsioni limitatrici di siffatte forme e modalità, anche quel procedimento "è idoneo ad assicurare tutte le garanzie processuali necessarie a rendere il sistema conforme alle esigenze del diritto di difesa" (sent. 573 del 1989
);che la questione è pertanto manifestamente infondata sotto tutti i profili prospettati.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23/03/94.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Vincenzo CAIANIELLO, Redattore