Sentenza n. 61 del 1994

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SENTENZA N. 61

 

ANNO 1994

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

In nome del Popolo Italiano

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA,

 

Giudici

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

Avv. Massimo VARI

 

Dott. Cesare RUPERTO

 

ha pronunciato la seguente

 

 

SENTENZA

 

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 13, secondo comma, della legge della Regione Piemonte riapprovata il 6 luglio 1993 dal Consiglio regionale, avente per oggetto: < Ricerca, uso e tutela delle acque sotterranee> promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 26 luglio 1993, depositato in cancelleria il 5 agosto successivo ed iscritto al n. 32 del registro ricorsi 1993.

 

Visto l'atto di costituzione della Regione Piemonte;

 

udito nell'udienza pubblica del 14 dicembre 1993 il Giudice relatore Massimo Vari;

 

udito l'avvocato Gustavo Romanelli per la Regione.

 

 

Ritenuto in fatto

 

 

1.- Con ricorso notificato il 26 luglio 1993, il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, secondo comma, della legge della Regione Piemonte riapprovata dal Consiglio regionale il 6 luglio 1993, (Ricerca, uso e tutela delle acque sotterranee), per violazione degli artt. 5, 114, 117 e 128 della Costituzione, nonché delle norme interposte contenute nell'art. 2 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, negli artt. 3, 5, 12, 14, 17 e 18 della legge 18 maggio 1989, n. 183 e nella legge 8 giugno 1990, n. 142.

 

Secondo il ricorso, la norma impugnata porrebbe in essere una illegittima compressione dell'autonomia comunale, là dove attribuisce alla Giunta regionale il potere di stabilire, ai fini della protezione delle aree da riservare alle esigenze idropotabili, in relazione a quanto previsto dagli artt. 7 e 9 del d.P.R. 236 del 1988, vincoli e limitazioni d'uso del territorio che "costituiscono ad ogni effetto variante agli strumenti urbanistici locali".

 

Tutte le "destinazioni" del territorio previste da tali strumenti sarebbero infatti modificabili dalla Giunta regionale sentiti gli enti locali, ma senza il concorso nel procedimento di deliberazioni (ad esempio di "adozione") dei Consigli comunali interessati (art. 32 secondo comma, lettera b della legge n. 142 del 1990). A questo proposito, si rammenta che la Corte costituzionale ha ravvisato una "compressione illegittima dell'autonomia comunale", ogni qualvolta poteri decisionali, attribuiti agli organi comunali da leggi statali recanti principi, sono "trasformati in semplici poteri consultivi e di proposta", mentre la Regione "assume in proprio una competenza di natura provvedimentale" (sentenza n. 157 del 1990), anche perchè dall'art. 3 della legge n. 142 del 1990 "non può trarsi l'attribuzione alla Regione del potere di disporre del contenuto e dell'estensione delle funzioni dei Comuni, per di più senza tenere conto del modo in cui esse si atteggiano nella legislazione statale già vigente" (sentenza n. 212 del 1991).

 

In secondo luogo -osserva sempre il ricorrente- l'utilizzazione delle acque per esigenze idropotabili si inquadra nel più vasto ambito delle attività per la difesa del suolo, disciplinate dalla legge n. 183 del 1989. In particolare, poichè il bacino del fiume Po é qualificato "di rilievo nazionale", il potere attribuito dalla norma impugnata alla Giunta di una delle più Regioni interessate non appare compatibile con "l'ordinamento coordinato delle molteplici funzioni finalizzate alla difesa del suolo e riferite non soltanto al territorio (art. 17, primo comma, della legge n. 183 del 1989)".

 

2.- La Regione Piemonte si é costituita nel giudizio, chiedendo il rigetto del ricorso.

 

Riguardo alla prima censura, la resistente rileva:

 

a.                     che il potere della Regione di individuare caso per caso le aree di salvaguardia, con effetti, ove necessario, anche sugli strumenti urbanistici vigenti, discende direttamente dalle disposizioni del d.P.R. n. 236 del 1988, norma speciale che attribuisce alla Regione una funzione propria, in nome dell'interesse alla tutela della salute pubblica e al miglioramento delle condizioni di vita;

 

b.                    che il superamento degli strumenti urbanistici, disposto dall'art. 13, secondo comma della legge regionale, giustificato dalla prevalenza dell'interesse tutelato rispetto a quello proprio della materia urbanistica, non comporta lesione dell'autonomia comunale che risulta già compressa per espressa volontà del legislatore statale;

 

c.                     che la giurisprudenza costituzionale invocata nel gravame (sentenze n. 157 del 1990 e n. 212 del 1991) non risulta pertinente al caso in esame, riferendosi alla diversa fattispecie di un procedimento speciale in deroga alla ordinaria disciplina urbanistica, mentre qui si tratta di una competenza afferente ad un interesse diverso (ambientale e sanitario), sovraordinato al potere comunale di assetto del territorio;

 

d.                    che la stessa Corte costituzionale, con sentenza n. 499 del 1988, si é pronunciata a favore di una legge regionale che imponeva ai Comuni di adottare varianti ai propri piani regolatori, ai fini di salvaguardia delle risorse estrattive.

 

Quanto alla seconda censura, relativa alla compatibilità fra i poteri attribuiti alla Giunta regionale e le previsioni della legge n. 183 del 1989, recante norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo, la Regione Piemonte deduce: a) che i poteri dell'Autorità di bacino si limitano all'adozione del piano di cui agli artt. 17 e 18 della legge, ma non incidono sul riparto delle competenze previsto dalle vigenti disposizioni; b) che le disposizioni del piano hanno carattere immediatamente vincolante per le amministrazioni e gli enti pubblici, solo se dichiarate di tale efficacia dal piano stesso; c) che, d'altra parte, il piano di bacino del fiume Po non é stato ancora adottato, sicchè non si possono ritenere paralizzate, nel frattempo, le funzioni assegnate alle Regioni dalla normativa vigente.

 

 

Considerato in diritto

 

 

l. - Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna l'art. 13, secondo comma, della legge della Regione Piemonte riapprovata il 6 luglio 1993, nella parte in cui dispone che, ai fini della protezione delle aree da riservare al soddisfacimento delle esigenze idropotabili, < la Giunta definisce, sentiti gli enti locali territorialmente competenti, i vincoli e le limitazioni d'uso del territorio, a norma dell'art. 7 del d.P.R. n. 236 del 1988>, precisando che < tali vincoli e limitazioni costituiscono ad ogni effetto variante agli strumenti urbanistici locali>.

 

2.-Prima di passare al merito dell'impugnativa, conviene accennare brevemente al quadro normativo nel quale si colloca la disposizione denunciata, tenendo conto del rinvio da essa fatto al d.P.R. n. 236 del 1988. Quest'ultimo provvedimento, nel dare attuazione alla Direttiva C.E.E.n. 80/778, concernente la qualità delle acque destinate al consumo umano, ha previsto aree di salvaguardia delle risorse idriche, suddistinte in zone di tutela assoluta, zone di rispetto e zone di protezione (art. 4), specificando, nel contempo, che, in queste ultime zone, possono essere adottate misure relative alla destinazione del territorio interessato, limitazioni per gli insediamenti, civili, produttivi, turistici, agroforestali e zootecnici (art. 7). Ai sensi del successivo art. 9, spetta alla Regione l'individuazione delle aree di salvaguardia e la disciplina delle attività e destinazioni ammissibili, fatte salve le previsioni di cui agli artt. 4, 5, 6, e 7 dello stesso d.P.R. n. 236.

 

Dal canto suo, la Regione Piemonte, con la legge della quale fa parte la norma impugnata, ha inteso, come risulta dall'art. 1, disciplinare e coordinare < l'organizzazione e l'esecuzione delle funzioni avute in delega dallo Stato, a norma dell'art. 90 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, riguardanti la ricerca, l'estrazione e l'utilizzazione delle acque sotterranee, escluse le acque termali, minerali e radioattive o comunque regolate da leggi speciali>.

 

Nell'ambito dell'articolata disciplina recata dalla legge in questione si colloca l'art. 13 che, regolando, per l'appunto, l'esercizio delle competenze affidate dall'art. 9 del d.P.R. n.236, abilita la Giunta regionale a definire i vincoli e le limitazioni d'uso del territorio, a norma dell'art. 7 del menzionato decreto, sia pure sentiti gli enti locali, ma stabilendo che < < tali vincoli e limitazioni costituiscono ad ogni effetto variante agli strumenti urbanistici locali>.

 

3. - Avverso quest'ultima disposizione si rivolgono le doglianze del Presidente del Consiglio, che - lamentando la violazione degli artt. 5, 114, 117 e 128 della Costituzione, e delle norme interposte contenute nell'art. 2 del d.P.R. 24 luglio 1977, n.616, negli artt. 3, 5, 12, 14, 17 e 18 della legge 18 maggio 1989, n. 183 e nella legge 8 giugno 1990, n. 142-prospetta, fondamentalmente, due motivi di censura, attinenti:

 

a) l'uno, alla lesione delle competenze degli enti locali in materia urbanistica, a causa del mutamento delle destinazioni del territorio così come già previste dagli strumenti urbanistici, senza il concorso nel procedimento di deliberazioni dei Consigli comunali interessati;

 

b) l'altro, alla non compatibilità del separato potere a valenza territoriale ed urbanistica, attribuito dalla norma impugnata alla Giunta regionale, con le norme sulla difesa del suolo di cui alla già citata legge n. 183 del 1989.

 

4. - Il primo motivo di ricorso è fondato.

 

Come la Corte ha già avuto occasione di affermare, l'ordine delle competenze fra Regioni e Comuni in materia urbanistica è quello da tempo delineato dalla legislazione statale in materia. Tale ordine, fatto salvo dall'art. 2 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, non è suscettibile di modifica da parte della legge regionale, senza che ne risulti leso l'art.128 della Costituzione, che, nel predetto art. 2, riceve attuazione per quanto si riferisce alla salvaguardia delle funzioni già spettanti ai Comuni in base alla precedente legislazione (sentenza n. 157 del 1990).

 

La norma impugnata-nell'attribuire all'atto con il quale la Giunta regionale individua le zone di protezione delle risorse idriche, l'effetto di incidere immediatamente sugli strumenti urbanistici dell'ente locale, senza necessità di ulteriori, autonomi, interventi deliberativi dell'organo comunale-comporta la sottrazione al Consiglio comunale delle competenze ad esso spettanti nella specifica materia delle varianti (art. 10, ultimo comma e art. 16, ultimo comma, della legge 17 agosto 1942, n.1150), estendendo, nel contempo, l'ambito delle attribuzioni di carattere più generale che, in detta materia, risultano spettare alla Regione, in base agli artt. 80 e segg. del già citato d.P.R.n. 616 del 1977. Obietta la difesa della resistente che il richiamo fatto dal ricorso alle precedenti pronunzie di questa Corte non sarebbe pertinente, in quanto queste si riferirebbero a casi di procedimenti speciali circoscritti nell'ambito della materia urbanistica, mentre qui la Giunta regionale agirebbe per la tutela di interessi d'altro tipo, che si collocano in un livello superiore rispetto a quello comunale. Senonchè, la circostanza che la Giunta, nello stabilire i vincoli e le limitazioni di cui all'art. 7 del d.P.R. n. 236 del 1988, agisca in via primaria per la tutela di interessi diversi da quello urbanistico non sembra al Collegio argomento decisivo per legittimare la configurazione di poteri provvedimentali, quali quelli previsti nella norma denunciata, le cui modalità di esercizio abbiano, comunque, l'effetto di comprimere le competenze costituzionalmente spettanti all'ente locale, sia pure nella differente materia dell'uso del territorio.

 

Può soggiungersi che la lesione delle competenze affidate al Comune, mediante il declassamento del suo potere deliberativo a mera competenza consultiva, appare ancor più grave, ove si consideri che la Regione opera nei limiti di una materia ad essa delegata, quale è da considerare quella dell'art. 9 del d.P.R. n.236 del 1988.

 

5.-La Regione Piemonte, nel resistere al ricorso, deduce, ulteriormente, che in realtà le competenze dell'ente locale risulterebbero già compresse dalla legge statale, e cioé dal d.P.R. n. 236 del 1988, nell'autorizzare la Regione ad apporre vincoli e limiti attinenti al perseguimento di un interesse ambientale e sanitario da ritenere, comunque, sovraordinato al potere comunale di assetto del territorio.

 

La Corte ritiene, invece, che l'art. 9 del d.P.R. n. 236 del 1988, nell'affidare alla Regione la determinazione di detti vincoli, lasci alla discrezionalità del legislatore regionale l'individuazione dei modelli procedimentali nell'ambito dei quali convogliare i vari interessi e le varie competenze che vengono in rilievo.

 

Come si è già avuto occasione di affermare, proprio in una delle sentenze richiamate dalla Regione resistente, la convergenza sul territorio di rilevanti e diversificati interessi, affidati a specifiche competenze, mentre giustifica l'ampliarsi dell'istanza partecipativa o di intesa o di locale subordinazione o più semplicemente di coordinamento, esige che venga assicurato < < l'armonico confluire> degli interessi stessi (sentenza 21 aprile 1988, n. 499). Resta perciò ferma, a garanzia del principio autonomistico previsto dagli artt. 5 e 128 della Costituzione, la necessità che il procedimento che incide sull'approvazione ovvero sulla modifica degli strumenti urbanistici si articoli in maniera tale da assicurare la sostanziale partecipazione, allo stesso, degli enti il cui assetto territoriale è determinato proprio dagli strumenti in questione (sentenza 26 ottobre 1988, n. 1010).

 

Quanto, poi, al modo in cui gli interessi concorrenti nella specifica materia siano da armonizzare, non è questo problema che sia venuto a riguardare la sola Regione Piemonte, come è dato desumere dalla legislazione regionale esistente in materia, che offre una casistica nella quale si rinvengono diversificate soluzioni, non esclusa quella di una fase di adozione della variante demandata al Consiglio comunale, accompagnata, per il caso di inottemperanza entro un certo termine, dall'esercizio di poteri sostitutivi da parte della Regione. Va da sè, comunque, che non spetta alla Corte fornire indicazioni, in quanto la ricerca dei modi attraverso i quali il coinvolgimento dei diversi interessi può essere realizzato non può che rimettersi alla discrezionalità del legislatore regionale, nei limiti, ovviamente, del principio di ragionevolezza.

 

6.-A seguito dell'accoglimento del ricorso per le considerazioni sopra svolte, è da ritenere assorbito l'altro motivo di gravame, attinente, secondo il ricorrente, alla illegittima configurazione di un separato potere a valenza territoriale, che non terrebbe conto delle molteplici funzioni finalizzate alla difesa del suolo, giusta le previsioni dell'art. 17, primo comma, della legge n. 183 del 1989.

 

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITRUZIONALE

 

 

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 13, secondo comma, della legge della Regione Piemonte riapprovata il 6 luglio 1993, recante < Ricerca, uso e tutela delle acque sotterranee>.

 

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10/02/94.

 

Francesco Paolo CASAVOLA , Presidente

 

Massimo VARI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 24/02/94.