SENTENZA N. 426
ANNO 1993
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Giudici
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
Avv. Massimo VARI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 314 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 15 febbraio 1993 dalla Corte d'appello di Roma nel procedimento di riparazione per ingiusta detenzione promosso da Iorio Gaetana nei confronti del Ministero del Tesoro, iscritta al n. 242 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell'anno 1993.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 20 ottobre 1993 il Giudice relatore Mauro Ferri.
Ritenuto in fatto
l.l. La Corte di appello di Roma, nel corso del procedimento per la riparazione di ingiusta detenzione promosso da Iorio Gaetana, ha sollevato, in sede di giudizio di rinvio, questione di legittimità costituzionale "dell'art. 314 c.p.p., con riferimento all'art.3, nonchè 2, in relazione all'art. 24, ultimo comma, della Costituzione":
a) "nella parte in cui non dispone (ovvero se interpretato nel senso in cui non dispone) che la condotta menzognera volta a "depistare" le indagini e ad aiutare altri a eludere le investigazioni dell'autorità o ad evitare che altri sia indagato per delitto escluda, in via generale ovvero quando l'imputazione per reato di favoreggiamento è ormai prescritta, il diritto a un'equa riparazione per la custodia cautelare subita per diversa imputazione";
b) "nella parte in cui non dispone (ovvero se interpretato nel senso in cui non dispone) che la colpa grave dell'agente - che esclude il diritto alla riparazione - possa consistere anche in condotte antecedenti alla assunzione della qualità di imputato o di indiziato, ovvero, più in genere, in condotte diverse dall'attività difensiva propria".
Il remittente - premesso che l'art. 314 del codice di procedura penale riconosce al prosciolto il "diritto ad un'equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave" - osserva che dalla chiara disposizione di legge deriva l'inammissibilità sul piano logico di tesi riduttive che richiedano, per l'esclusione della riparazione, che la colpa sia solo quella che può rinvenirsi nell'attività difensiva dell'accusato e non anche in attività antecedente.
Dalla norma in esame, se interpretata secondo i corretti canoni, si ricava invece che tutto il comportamento del soggetto che precede la detenzione ed è ad essa "ricollegabile" non può essere senza rilievo: da un lato, infatti, già nell'ordine normale cronologico dei fatti storici, l'atteggiamento difensivo segue e non precede l'inizio della custodia cautelare, sicchè, per definizione, non può averla cagionata; dall'altro, l'inesattezza della tesi riduttiva emerge dal rilievo che con essa si realizza una inammissibile disparità di trattamento tra ipotesi dolosa e ipotesi colposa, in quanto per la realizzazione della prima (consistente nell'operare con l'intento di provocare la detenzione) verrebbe in considerazione ogni comportamento antecedente alla custodia e non solo quello tenuto in sede di difesa.
Inoltre, prosegue il remittente, l'anzidetta corretta interpretazione della norma de qua è anche conforme ai principi generali del nostro ordinamento giuridico. Non vi è dubbio che la riparazione pecuniaria prevista dagli artt. 314 e seguenti del codice di procedura penale sia un istituto appartenente all'ampia categoria costituita dal genus degli istituti risarcitori-riparatori del diritto civile che regolano la materia delle restituzioni e dei pagamenti di denaro conseguenti a danni subiti dal singolo per qualsiasi tipo di condotta altrui.
In particolare, il principio generalissimo attinente alla riparazione pecuniaria di qualsiasi tipo di danno si rinviene negli artt.1227 e 2056 del codice civile, i quali prevedono che il concorso del fatto colposo del creditore nel cagionare il danno determina la riduzione o l'esclusione, a seconda dei casi, del risarcimento.
l.2. Tutto ciò premesso in ordine al corretto inquadramento sistematico dell'istituto in esame, il remittente riassume sinteticamente le circostanze di fatto rilevanti in merito alla fattispecie sottoposta al suo giudizio. In particolare, osserva che la Corte d'appello di Roma, con ordinanza del 18 aprile (20 maggio) 1991, aveva respinto la domanda di riparazione per ingiusta detenzione proposta dalla Iorio, ritenendo verificatasi nella con dotta dell'istante l'ipotesi di colpa grave prevista dalla norma, consistita sia nell'aver posto in atto un vero e proprio tentativo di depistaggio delle indagini, sia nell'essere fuggita all'estero, così dando causa alla emissione a suo carico del provvedimento restrittivo della libertà personale.
Senonchè la Corte di cassazione, con sentenza del 20 gennaio (20 febbraio) 1992, aveva annullato con rinvio detta pronuncia, enunciando il seguente principio di diritto: "Il dolo o la colpa grave previsti dall'art. 314 c.p.p. in tanto sussistono in quanto il soggetto inquisito o abbia scientemente operato al fine di creare la fallace apparenza di condizioni nelle quali potesse o dovesse essere adottata o mantenuta una misura cautelare nei suoi confronti (ipotesi dolosa), ovvero abbia mostrato una ingiustificabile e macroscopica trascuratezza nella rappresentazione, all'autorità procedente, una volta reso edotto degli addebiti mossigli, di fatti e circostanze atti a scagionarlo o comunque a consentire il mantenimento o il recupero dello stato di libertà (ipotesi colposa)".
l.3. Il giudice a quo solleva, quindi, due distinte questioni di legittimità costituzionale.
a) La prima scaturisce da quella parte della pronuncia della Corte di cassazione in cui si afferma che la condotta di coprire responsabilità penali altrui non rientra nell'ipotesi di dolo o colpa grave prevista dall'art. 314 del codice di procedura penale per l'esclusione del diritto alla riparazione. Ad avviso del remittente, la tesi secondo cui l'ipotesi della condotta menzognera (volta a depistare le indagini o a evitare che siano indagati o coinvolti nel procedimento penale altri soggetti) non possa ricevere, nell'art. 314 e nel contemperamento degli interessi e nei fini che esso si prefigge, il medesimo trattamento dell'ipotesi di colui che con colpa grave (ovvero con dolo) concorre a dar causa alla sua detenzione, non si sottrae manifestamente a censure di incostituzionalità per irragionevolezza e/o irrazionalità e, in definitiva, per violazione dell'art. 3 della Costituzione. La norma che esclude il diritto alla riparazione, infatti, non sembra solo l'espressione di un onere di diligenza che sia pure nella misura minima incombe all'individuo, ma costituisce anche applicazione della regola generale sopra richiamata secondo cui, in via di principio, il danno risarcibile (in astratto) deve essere sopportato dal suo autore, ovvero viene limitato o escluso il risarcimento del danno causato dallo stesso danneggiato.
L'espressione di detto onere di diligenza può, inoltre, trovare una sua collocazione anche nella norma generale dell'art. 2 della Costituzione, che richiede ai consociati l'adempimento dei doveri di solidarietà politica e sociale, oltre che economica.
Infine, ad avviso del remittente, applicando al caso in esame l'argomento a fortiori, l'ipotesi di condotta menzognera diretta a depistare le indagini o ad evitare che siano indagati altri soggetti, ovvero diretta ad aiutare altri ad eludere le investigazioni dell'autorità penale, dovrebbe, secondo i principi della ragionevolezza, essere considerata fattispecie "maggiore", in un certo senso, e non minore di quelle altre imputabili a colpa grave dell'istante e tali da comportare l'esclusione del diritto alla riparazione.
b) La seconda questione di costituzionalità sollevata dal remittente attiene alla tesi della Cassazione secondo cui l'attività antecedente alla vera e propria difesa avrebbe rilievo solo se dolo sa, in quanto la colpa grave che avrebbe rilevanza sarebbe solo quella riscontrabile nelle dichiarazioni o rappresentazioni difensive all'autorità procedente, una volta che l'indagato sia stato reso edotto degli addebiti mossigli.
Anche in questo caso la norma, così interpretata, sarebbe viziata da irragionevolezza: infatti, non solo si verrebbe ad affermare una incongrua disparità di trattamento nelle ipotesi, pure logicamente congruenti, di verificazione del principio di causalità; non solo si creerebbe una irragionevole disparità con le altre ipotesi di colpa del danneggiato; ma si verrebbero anche a legittimare, ad ogni effetto di diritto civile, le ipotesi o i casi anche più gravi di condotta colposa dell'agente, che abbia creato la più evidente apparenza di responsabilità penale, divenendo così la norma banditore di un principio di irresponsabilità giuridica e sociale, che potrebbe ritenersi in contrasto non solo con l'art. 3 della Costituzione ma anche con l'art. 2 della Carta.
Infine, il remittente rileva che l'art. 24, ultimo comma, della Costituzione prevede che il diritto alla riparazione degli errori giudiziari sia tutt'altro che incondizionato.
2. É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale osserva che la questione è venuta meno in quanto la più recente giurisprudenza della Corte di cassazione ha ribaltato il proprio precedente orientamento, accedendo (quanto meno in ordine alla questione sollevata sub b) alla interpretazione auspicata dal giudice remittente.
Considerato in diritto
l. La Corte di appello di Roma, nel corso di un procedimento di riparazione per ingiusta detenzione, ha sollevato, in sede di giudizio di rinvio, due questioni di legittimità costituzionale dell'art. 314 del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione (anche in relazione all'art. 24, ultimo comma, del la Costituzione medesima).
In particolare, le questioni devono intendersi riferite al primo comma del menzionato articolo 314 e, più precisamente, a quella parte in cui è stabilito che il diritto ad un'equa riparazione per la custodia cautelare subita spetta (in presenza di determinati altri presupposti) purchè il soggetto "non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave".
2. Il giudice a quo opera, come s'è detto, in sede di giudizio di rinvio a seguito di sentenza della Corte di cassazione, la quale - nell'annullare l'ordinanza della Corte d'appello di Roma con cui era stata respinta la domanda di riparazione sulla base della considerazione che l'istante aveva dato causa per colpa grave alla detenzione, in quanto aveva depistato le indagini e poi si era data alla fuga all'estero - ha fissato il seguente principio di diritto: "Il dolo o la colpa grave previsti dall'art. 314 del codice di procedura penale in tanto sussistono in quanto il soggetto inquisito o abbia scientemente operato al fine di creare la fallace apparenza di condizioni nelle quali potesse o dovesse essere adottata o mantenuta una misura cautelare nei suoi confronti (ipotesi dolosa), ovvero abbia mostrato una ingiustificabile e macroscopica trascuratezza nella rappresentazione, all'autorità procedente, una volta reso edotto degli addebiti mossigli, di fatti e circostanze atti a scagionarlo o comunque a consentire il mantenimento o il recupero dello stato di libertà (ipotesi colposa)".
Ad avviso del remittente, la norma, così come interpretata dalla Cassazione nell'enunciato principio di diritto (cui egli è tenuto ad uniformarsi), viola i sopra indicati parametri costituzionali:
a) "nella parte in cui non dispone ... che la condotta menzognera volta a "depistare" le indagini e ad aiutare altri a eludere le investigazioni dell'autorità o ad evitare che altri sia indagato per delitto escluda, in via generale ovvero quando l'imputazione per reato di favoreggiamento è ormai prescritta, il diritto a un'equa riparazione per la custodia cautelare subita per diversa imputazione";
b) "nella parte in cui non dispone ... che la colpa grave dell'agente - che esclude il diritto alla riparazione - possa consistere anche in condotte antecedenti alla assunzione della qualità di imputato o di indiziato, ovvero, più in genere, in condotte diverse dall'attività difensiva propria".
In entrambi i casi risulterebbe violato essenzialmente il principio di ragionevolezza, in quanto non sussisterebbe alcuna razionale giustificazione (anche con riferimento ai principi generali dell'ordinamento in materia di risarcimento del danno) per non comprendere, tra le ipotesi di esclusione del diritto alla riparazione, da un lato la condotta menzognera volta a depistare le indagini o ad evitare che altri soggetti siano coinvolti in procedimenti penali, e, dall'altro, la condotta gravemente colposa tenuta prima o, comunque, al di fuori dell'attività difensiva in senso proprio, laddove una tale limitazione non sussiste per la condotta dolosa; sarebbe altresì violato l'art. 2 della Costituzione, in quanto le censurate interpretazioni della norma in esame si porrebbero in contrasto con il principio dell'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica e sociale, principio che pone a carico dei consociati un generale onere di diligenza e di responsabilità. L'auspicata introduzione delle suddette cause di esclusione del diritto alla riparazione sarebbe, d'altronde, conclude il remittente, pienamente aderente al dettato dell'art.24, ultimo comma, della Costituzione, il quale prevede che il diritto medesimo sia tutt'altro che incondizionato.
3. In ordine di antecedenza logica, va esaminata per prima la censura sopra indicata sub b).
La questione non è fondata.
Il problema della definizione dell'esatto ambito applicativo della norma censurata, con particolare riferimento - per quanto qui interessa - alla determinazione dei criteri identificativi delle condotte gravemente colpose idonee ad escludere il diritto alla riparazione, è stato oggetto di due diversi orientamenti della Corte di cassazione, ciascuno dei quali espresso in più di una pronuncia.
La tesi interpretativa censurata dal giudice a quo si fonda essenzialmente sulla considerazione che nell'attuale contesto ordinamentale in cui la regola è quella della più assoluta libertà di autodeterminazione per ciascun individuo, salvi i limiti espressamente fissati dalla legge a tutela di interessi collettivi, non è configurabile a carico dei consociati un onere di diligenza nell'evitare comportamenti che, in sè e per sè leciti, potrebbero tuttavia dar adito a sospetti ed essere assunti dall'autorità come indicativi dell'avvenuta commissione di reati.
Secondo un altro (e più recente) orientamento, non vi sarebbe invece ragione logica che possa giustificare (ed anzi ciò sarebbe in contrasto con la lettera della norma) un diverso ambito di valutazione tra l'ipotesi della condotta dolosa e quella della condotta gravemente colposa, ben potendo pure quest'ultima essere ravvisata (in applicazione anche dei principi civilistici in materia) in comportamenti tenuti in qualunque momento antecedente l'emissione del provvedimento restrittivo della libertà e quindi anche al di fuori dell'attività difensiva in senso proprio.
Ciò posto, va osservato, in ordine alla prima delle due tesi (che è l'unica a dover essere presa in considerazione in questa sede perchè è quella cui, come detto, il remittente deve uniformarsi, sia pur in presenza di successivi diversi orientamenti della stessa Corte di cassazione: cfr. sent. n. 130 del 1993), che la medesima non può essere ritenuta in contrasto con l'art. 3 della Costituzione per irragionevolezza: essa, invero, risulta ispirata - sia pur implicitamente - da un particolare favor per chi ha subito una detenzione poi comunque rivelatasi "non dovuta" e, in ogni caso, certamente non conduce a conseguenze tali da integrare il denunciato vizio di costituzionalità, tenuto anche conto del rilievo che le ipotesi richiamate a raffronto (condotta dolosa, regime generale del concorso di colpa del danneggiato ai sensi del codice civile) non necessariamente debbono trovare identica disciplina nella particolare fattispecie in esame.
Le anzidette considerazioni valgono, poi, a far ritenere del tutto infondato il riferimento all'art. 2 della Costituzione, essendo costante la giurisprudenza di questa Corte (cfr. sentt. nn. 12 del 1972, 29 del 1977, 252 del 1983) secondo cui solo al legislatore, nell'esercizio della sua sfera di discrezionalità, compete l'individuazione dei doveri inderogabili di solidarietà cui i cittadini sono tenuti, nonchè dei modi e limiti relativi all'adempimento di tali doveri.
4. Una volta accertata la non fondatezza della questione dianzi esaminata (che è l'unica, d'altronde, che scaturisce direttamente dal principio di diritto enunciato dalla Cassazione), anche la rimanente censura, sopra indicata al punto 2 sub a), non può non subire la stessa sorte.
Dall'esame della complessa ordinanza di rimessione deve, infatti, ritenersi che il giudice a quo, nel sollevare tale questione, tenda essenzialmente a far ricadere il comportamento menzognero mirante al "depistaggio" delle indagini al fine di coprire responsabilità altrui nel novero delle condotte gravemente colpose che escludono il diritto alla riparazione (come, del resto, era stato ritenuto dalla medesima Corte d'appello nell'ordinanza annullata); ciò è confermato dal rilievo che il remittente non solo non contesta il principio di diritto fissato dalla Cassazione in relazione alla definizione della condotta dolosa rilevante ai fini di cui trattasi, ma anzi mostra chiaramente, nella motivazione dell'ordinanza, di condividere tale interpretazione. Ne consegue che la questione, così intesa, va considerata compresa nell'altra già esaminata e risolta al punto precedente.
D'altronde, ove l'intenzione del giudice a quo fosse invece quella di chiedere alla Corte una pronuncia additiva diretta ad introdurre nella norma in esame una complessa e dettagliata disciplina di situazioni in essa non contemplate, la questione sarebbe chiaramente inammissibile, in quanto l'intervento della Corte costituirebbe frutto di valutazioni riservate alla discrezionalità del legislatore (cfr. sent. n. 25 del 1991).
É appena il caso di rilevare, infine, che, secondo la costante giurisprudenza in materia, il giudice di rinvio è sì tenuto ad uniformarsi al principio di diritto enunciato dalla Cassazione, ma conserva integri i poteri di accertamento e di valutazione dei fatti, ai fini della formazione del proprio libero convincimento.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art.314 del codice di procedura penale sollevate, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, dalla Corte di appello di Roma con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18/11/93.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Mauro FERRI, Redattore
Depositata in cancelleria il 03/12/93.