Sentenza n. 308 del 1993

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SENTENZA N. 308

 

ANNO 1993

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Prof. Giuseppe BORZELLINO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2, comma primo, lett. d), 12, comma terzo e 15, comma quinto, della legge 23 dicembre 1992, n. 498, recante: "Interventi urgenti in materia di finanza pubblica", promosso con ricorso della Regione Lombardia notificato il 28 gennaio 1993, depositato in cancelleria il 4 febbraio successivo ed iscritto al n. 6 del registro ricorsi 1993.

 

Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 25 maggio 1993 il Giudice relatore Gabriele Pescatore;

 

uditi l'avv. Maurizio Steccanella per la Regione Lombardia e l'avv. dello Stato Sergio Laporta per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. La Regione Lombardia, con ricorso notificato il 28 gennaio 1993, ha impugnato - per violazione degli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione, oltre che per palese irragionevolezza - gli artt. 2, comma primo, lett. d);12, comma terzo e 15, comma quinto, della l. 23 dicembre 1992, n.498.

 

La prima questione di legittimità costituzionale viene prospettata in relazione all'art. 15, comma quinto, il quale così dispone: "Il comma quarto dell'articolo 33 della legge 28 febbraio 1986, n. 41, come modificato dall'articolo 3, comma primo, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n.359, è abrogato. Sono fatti salvi i con tratti per i quali sia già intervenuta l'approvazione in data anteriore a quella di entrata in vigore della presente legge".

 

Si tratta di materia concernente la revisione dei prezzi contrattuali nei pubblici appalti riguardo alla quale le norme abrogate rappresentavano - secondo quanto si espone nel ricorso - il punto di arrivo di una lunga evoluzione della originaria invariabilità dei prezzi negli appalti pubblici, la quale ha trovato la sua duplice ratio nella persistenza del fenomeno inflattivo e nella parallela disciplina dettata dal codice civile in materia di appalti privati, volta a diminuirne l'aleatorietà.

 

Esposti, in sintesi, i momenti fondamentali dell'evoluzione normativa, caratterizzata in un primo tempo dall'istituto della "revisione dei prezzi", la regione ricorrente si sofferma sull'istituzione (art. 33, comma quarto, della l. 28 febbraio 1986, n. 41) del così detto "prezzo chiuso", cioé della facoltà della p.a. committente di stabilire l'incremento "automatico" del cinque per cento del prezzo di aggiudicazione, al netto del ribasso d'asta, per ogni anno intero di effettuazione dei lavori e per il valore delle opere rimaste da eseguire, omettendo qualunque successiva applicazione di qualsivoglia calcolo revisionale.

 

Successivamente il d.l. 11 luglio 1992, n. 333, conv. nella l. 8 agosto 1992, n. 359, ha eliminato per tutti gli appalti pubblici (art. 3, comma primo) l'istituto della revisione dei prezzi, generalizzando il sistema del "prezzo chiuso".

 

Il sopra riportato art. 15, comma quinto, della legge n.498 del 1992, abrogando il comma quarto dell'art. 33 della legge n. 41 del 1986, così come modificato dall'art. 3, comma primo, del d.l. n. 333 del 1992, come convertito nella l. n.359 del 1992, ha abrogato anche il sistema del "prezzo chiuso", maggiorabile in misura predeterminata, ivi previsto.

 

Il sistema risultante, in forza del testo tuttora vigente dell'art. 33 della l. n. 41 del 1986, si applica anche ai pubblici appalti delle regioni, degli enti da esse dipendenti, degli enti locali, ancorchè riguardanti opere e lavori d'interesse regionale.

 

Ciò premesso, la Regione Lombardia lamenta l'invasione della propria competenza legislativa in materia di disciplina delle "opere pubbliche d'interesse regionale", di "amministrazione del patrimonio" regionale e di "lavori pubblici d'interesse regionale", relativamente alle quali è stata emanata la legge regionale 12 settembre 1983, n. 70.

 

Infatti, l'art. 15, comma quinto, della legge impugnata, con una normativa specifica - e non di principio - prevede che qualsiasi contratto di appalto o di affidamento in concessione di lavori ed opere pubbliche, ovvero di appalto di fornitura di beni e di servizi, concluso dalla regione, da enti da essa dipendenti, dalle Uu.ss.ll., ovvero da enti locali allorchè trattisi di esecuzione di lavori ed opere pubbliche di interesse regionale, dovrebbe essere stipulato a "prezzo chiuso" puro, cioé obbligatorio e non più maggiorabile ai sensi dell'art. 33, comma quarto, della l. n. 41 del 1986, nè assoggettabile a "revisione" secondo la normativa precedentemente in vigore.

 

Tale impugnata disposizione sarebbe viziata anche da irragionevolezza, provocando una lievitazione dei prezzi di aggiudicazione nei pubblici appalti.

 

In relazione al profilo dell'invasione delle proprie competenze, la regione cita la sentenza n. 245 del 1984, che avrebbe negato possa ravvisarsi la tutela d'interessi nazionali in normative di dettaglio attinenti alla materia contrattuale delle regioni, le quali altrimenti subirebbero un'ingerenza nella disciplina dell'amministrazione del proprio patrimonio, delle proprie risorse e della propria contabilità.

 

2. Quanto all'impugnativa dell'art. 12, terzo comma, della legge n. 92 del 1988, nel ricorso si osserva che esso dispone che "per la realizzazione delle opere di qualunque importo di cui al comma primo si applicano le norme del decreto legislativo 19 dicembre 1991, n. 406 e della direttiva 90/531/Cee del Consiglio, del 17 settembre 1990, e successive norme di recepimento". Anche in relazione a tale normativa la regione lamenta la violazione degli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, e l'invasione delle proprie competenze nella materia delle "opere e lavori pubblici d'interesse regionale", per effetto dell'art. 12, terzo comma, che dichiara l'applicabilità della disciplina del decreto legisl. n. 406 del 1991 alla legislazione regionale.

 

La regione lamenta, altresì, che la norma impugnata dispone l'applicabilità alle opere pubbliche d'interesse regionale della direttiva Cee n. 90/531, non ancora recepita nell'ordinamento e, quindi, non applicabile per le opere statali in essa prevista, con ulteriore irragionevolezza della disciplina.

 

3. Quanto, infine, all'impugnativa dell'art. 2, comma primo, lett. d) della l. 23 dicembre 1992, n. 498, nel ricorso si espone che esso attribuisce al Governo una delega al fine di disciplinare i vincoli e gli oneri ai quali è sottoposta l'attività di cava in sede di rilascio dell'autorizzazione all'esercizio dell'attività, commisurando l'onere alla quantità dei materiali estratti, alla qualità degli stessi, alle caratteristiche delle aree interessate e fissando, altresì, modalità e condizioni per la conservazione e la manutenzione degli alvei fluviali e delle difese spondali.

 

Secondo la regione, in tal modo verrebbero attribuite alla potestà legislativa del Governo, due materie - "cave e torbiere", e "acque e interne", la prima espressamente enunciata nell'articolo 117 della Costituzione, e la seconda definita dal combinato disposto degli articoli 90 e 91 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 - di competenza regionale. La legge delegata dovrebbe dettare, in proposito, una disciplina di dettaglio, in contrasto con detta competenza, risultando perciò viziata già la legge di delegazione.

 

4. Dinanzi a questa Corte si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, col patrocinio dell'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che tutte le questioni proposte siano dichiarate non fondate.

 

Quanto all'art. 15, quinto comma, nell'atto di costituzione si osserva che la normativa ivi dettata fa parte delle misure urgenti adottate per il contenimento della spesa ed il risanamento delle finanze pubbliche, rispondendo "per ciò stesso ad un palese interesse nazionale".

 

Comunque, anche a voler ritenere la materia de qua di competenza regionale, l'abrogazione della figura del contratto "a prezzo chiuso", maggiorabile in misura predeterminata, disposta dall'art. 15, quinto comma, della legge n.498 del 1992, secondo l'Avvocatura dello Stato costituirebbe normativa di principio, come tale di competenza dello Stato, ai sensi dell'art. 117 della Costituzione, nonchè dell'art. 119 sotto il profilo della riserva allo Stato del coordinamento tra attività finanziarie statali e regionali.

 

Quanto all'asserita irragionevolezza della disciplina, in quanto suscettibile di far lievitare i prezzi, anzichè di contenerli, l'Avvocatura dello Stato la contesta, precisando che la ratio della norma, comunque, non è da ricercarsi solo nel proposito di contenere i prezzi, ma anche di dare certezza ai medesimi e, quindi, ai bilanci degli enti interessati.

 

Riguardo all'impugnazione dell'art. 12, terzo comma, nell'atto di costituzione si osserva che esso va riferito unicamente alle opere "di cui al comma primo", il quale prevede la costituzione di apposite società per azioni per la realizzazione, da parte di province e comuni, di opere necessarie allo svolgimento di servizi pubblici ovvero di infrastrutture ed altre opere d'interesse pubblico, "che non rientrino ai sensi della legislazione statale e regionale, nelle competenze istituzionali di altri enti". La norma, pertanto, sarebbe estranea "alla sfera di attribuzioni della regione ricorrente, che non ha quindi veste od interesse per sollecitare il richiesto sindacato di legittimità".

 

Quanto, infine, alla disposizione dell'art. 2, comma primo, lett. d), della legge n. 498 del 1992 - che attribuisce al Governo una delega ritenuta dalla ricorrente lesiva delle proprie competenze in materia di "cave e torbiere" e di disciplina delle "acque interne" - l'Avvocatura dello Stato deduce che le norme di delegazione non possono essere ritenute di dettaglio, essendo esse sempre di principio.

 

Considerato in diritto

 

1. La Regione Lombardia ha impugnato in via principale gli artt. 15, comma quinto, 12, comma terzo e 2, comma primo, lett. d) della legge 23 dicembre 1992, n. 498.

 

In relazione a tale impugnazione questa Corte è chiamata a decidere:

 

a) se l'art. 15, comma quinto, della legge 23 dicembre 1992, n. 498 - a norma del quale "il comma quarto dell'articolo 33 della legge 28 febbraio 1986, n. 41, come modificato dall'articolo 3, comma primo, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, è abrogato" - eliminando, dalla disciplina dei pubblici appalti, la scelta facoltativa da parte della p.a. del sistema del "prezzo chiuso" con maggiorazione predeterminata, anche con riferimento agli appalti delle regioni e degli enti da esse dipendenti, violi gli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, sotto il profilo della invasione della competenza spettante alle regioni in materia di disciplina degli appalti, con riferimento alle "opere pubbliche d'interesse regionale" ed ai "lavori pubblici d'interesse regionale";

 

b) se detto art. 15, comma quinto, della legge 23 dicembre 1992, n. 498, violi il principio di ragionevolezza in quanto, in contraddizione con la sua ratio, provoca l'aumento, anzichè la riduzione, della spesa pubblica;

 

c) se l'art. 12, terzo comma, della legge 23 dicembre 1992, n. 498 - rendendo applicabili per la realizzazione delle opere di qualunque importo di cui al primo comma le norme del decreto legislativo 19 dicembre 1991, n.406, e della direttiva 90/531/Cee del Consiglio del 17 settembre 1990 e successive norme di recepimento - violi gli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, invadendo la competenza regionale in materia di "opere e lavori pubblici d'interesse regionale", nonchè il principio di ragionevolezza, dettando in materia di appalti per opere pubbliche d'interesse regionale una disciplina deteriore rispetto a quella vigente per le opere pubbliche di competenza dello Stato;

 

d) se l'art. 2, comma primo, lett. d) della legge 23 dicembre 1992, n. 498 - attribuendo al Governo la delega a disciplinare i vincoli e gli oneri ai quali è sottoposta l'attività di cava in sede di rilascio dell'autorizzazione all'esercizio dell'attività, commisurando l'onere alla quantità dei materiali estratti, alla qualità degli stessi, alle caratteristiche delle aree interessate e fissando, altresì, modalità e condizioni per la conservazione e la manutenzione degli alvei fluviali e delle difese spondali, nonchè disciplinando l'eventuale utilizzazione del materiale di risulta in modo che i proventi entrino a far parte delle risorse di cui al secondo comma - violi gli artt. 117 della Costituzione, 90 e 91 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, invadendo le competenze regionali in materia di disciplina delle "cave e torbiere" e delle "acque interne".

 

2. É opportuno far iniziale riferimento alla questione relativa all'art.15, comma quinto, della legge n. 498 del 1992. É da osservare al riguardo che l'art. 33, comma primo, della legge 28 febbraio 1986, n. 41 aveva stabilito che "per i lavori relativi ad opere pubbliche da appaltarsi, da concedersi o da affidarsi dalle amministrazioni e dalle aziende dello Stato, anche con ordinamento autonomo, dagli enti locali o da altri enti pubblici, aventi durata inferiore all'anno, non è ammessa la facoltà di procedere alla revisione dei prezzi".

 

In correlazione con tale esclusione, il comma quarto aveva introdotto, per le amministrazioni pubbliche anzidette, la facoltà di "ricorrere al prezzo chiuso, consistente nel prezzo del lavoro al netto del ribasso d'asta, aumentato del cinque per cento per ogni anno intero previsto per l'ultimazione dei lavori". Per i lavori aventi durata superiore all'anno, la facoltà di procedere alla revisione dei prezzi era ammessa (art.33, comma terzo) a decorrere dal secondo anno successivo all'aggiudicazione e con esclusione dei lavori già eseguiti nel primo anno e dell'anticipazione ricevuta, unicamente ove l'importo fosse aumentato o diminuito in misura superiore al dieci per cento, per effetto di variazioni dei prezzi correnti, intervenute dopo l'aggiudicazione.

 

Successivamente, l'art. 3 comma primo, del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, così come convertito nella legge 8 agosto 1992, n. 359, ha esteso l'abolizione della facoltà di richiedere la revisione dei prezzi nei contratti di appalto previsti dalla legge n. 41 del 1986, eliminando ogni eccezione a tale divieto e generalizzando parimenti la facoltà di procedere alla stipulazione di contratti "a prezzo chiuso", secondo le modalità previste dall'art. 33, quarto comma, della citata legge n. 41 del 1986.

 

L'art. 15, comma quinto, della legge n. 498 del 1992, ha abrogato il "comma quarto dell'art. 33 della legge 28 febbraio 1986, n. 41, come modificato dall'art. 3, comma primo, del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, conv. con modificazioni dalla legge 8 agosto 1992, n. 359", sancendo così l'obbligarietà del sistema dei contratti "a prezzo chiuso", che si può definire puro, cioé non suscettibile delle maggiorazioni previste dal comma quarto dell'art. 33 della legge n. 41 del 1986.

 

Ne deriva che, essendo già intervenuta l'abolizione dell'istituto della revisione dei prezzi, ai sensi del citato art. 3 del d.l. n. 333 del 1992, così come convertito nella legge n. 359 del 1992, negli appalti di opere pubbliche l'esecuzione deve svolgersi, con l'applicazione dell'ora detto "prezzo chiuso" puro.

 

L'impugnativa regionale contesta il riferimento di detta normativa anche agli appalti delle regioni (e degli enti pubblici regionali) ed ha a base la deduzione fondamentale del suo contrasto con le competenze regionali in materia di disciplina di appalti dei lavori pubblici e delle opere pubbliche d'interesse regionale.

 

Al riguardo deve osservarsi che l'art. 117 della Costituzione attribuisce alla competenza legislativa regionale la viabilità, gli acquedotti e i lavori pubblici d'interesse regionale e che il d.P.R. n. 616 del 1977 (art.87) ha inteso tale materia come comprensiva delle opere pubbliche che si eseguono nel territorio di una regione, nonchè di taluni tipi di opere idrauliche (art. 89). A tale materia appartiene la normativa sostanziale e procedimentale concernente gli appalti, per l'inscindibile connessione esistente tra esecuzione dell'opera, titolo contrattuale legittimante e gestione amministrativa della stessa.

 

Essendo la competenza legislativa regionale di tipo concorrente, essa va esercitata "nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato" (art. 117 della Costituzione). Al legislatore statale compete, pertanto, stabilire la normativa di principio anche in relazione agli appalti relativi ai lavori pubblici ed alle opere pubbliche d'interesse regionale, come si evince - tra l'altro - anche dall'art. 35 della legge 19 maggio 1976, n.335, il quale statuisce che i principi fondamentali in materia di contratti delle regioni siano fissati con apposita legge della Repubblica.

 

É sicuramente oggetto di tale normativa di principio il regime giuridico del prezzo d'aggiudicazione nei pubblici appalti in relazione anche alle evenienze sopravvenute alla conclusione del contratto e ai riflessi economici di esse, attenendo a scelte legislative di carattere necessariamente generali, implicanti valutazioni politiche e riflessi finanziari, che non tollerano discipline differenziate nel territorio.

 

Rientra in tale normativa il precetto dell'art.15, comma quinto, della legge n. 498 del 1992 che ha reso obbligatorio, per tutti i pubblici appalti, il sistema del "prezzo chiuso" puro. Di conseguenza, la questione sollevata in relazione ad esso dalla Regione Lombardia, in riferimento agli artt. 117 e 118 della Costituzione, va dichiarata non fondata.

 

Del pari infondata è tale questione in riferimento all'art. 119 della Costituzione, non attenendo la norma impugnata alla finanza regionale, alla quale si riferiscono i primi tre commi dell'art. 119 e non potendo la gestione del patrimonio e del demanio regionale (ai quali si riferisce l'ultimo comma), esplicarsi in contrasto con le norme di principio della legislazione statale. Inoltre, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la legislazione statale in materia finanziaria ha funzione prioritaria di inquadramento e segna limiti qualitativi e quantitativi all'autonomia regionale, anche a livello di normazione non di principio (in dirizzo consolidato a partire dalla sent. 19 dicembre 1986, n.271).

 

La censura è altresì infondata in riferimento all'art. 3 della Costituzione, rientrando nella discrezionalità legislativa la scelta delle modalità per il contenimento della spesa pubblica e non essendo irragionevole il perseguimento di tale finalità anche attraverso la previsione del sistema obbligatorio del "prezzo chiuso" puro nell'aggiudicazione dei pubblici appalti.

 

3. Non fondata è anche la questione relativa all'art. 12, terzo comma, della legge n. 498 del 1992, secondo il quale "per la realizzazione delle opere di qualunque importo di cui al comma primo, si applicano le norme del decreto legislativo 19 dicembre 1991, n. 406, e della direttiva 90/531/Cee del Consiglio, del 17 settembre 1990, e successive norme di recepimento".

 

La Regione Lombardia lamenta in proposito la lesione delle proprie competenze nella materia delle "opere e lavori pubblici di interesse regionale", dato che la norma impugnata stabilisce l'applicabilità della disciplina del d.legisl. n.406 nell'anzidetta materia. Sarebbe violato, altresì, il principio di ragionevolezza, mentre l'Avvocatura generale dello Stato rileva che la norma non sarebbe lesiva della sfera delle attribuzioni regionali.

 

Osserva la Corte che il contenuto precettivo della norma è testualmente circoscritto alla "realizzazione delle opere di cui al comma primo", che non concerne materia di interesse regionale. Tali opere sono affidate ad apposite società per azioni costituite da province e comuni; sono necessarie al corretto svolgimento di servizi pubblici; si concretano in infrastrutture e in vari interventi d'interesse pubblico "che non rientrino ai sensi della vigente legislazione statale e regionale nelle competenze di altri enti" (diversi, cioé dalla province e dai comuni).

 

Nello stabilire la sfera di operatività del detto d.legisl. n. 406 il n. 3 dell'art. 12 in esame fa riferimento alle opere "di cui al comma 1". Come si è già notato, tali opere sono di esclusiva pertinenza comunale e provinciale. Il successivo n. 4 riferisce e circoscrive la sua sfera di operatività a "gli interventi di cui al presente articolo", e cioé alle ora dette opere interessanti enti locali diversi dalla regione. Inoltre, nella determinazione delle tariffe relative ai servizi, ai quali le opere si riferiscono, non è in alcun modo coinvolto l'elemento dell'appartenenza di queste, nè è posta alcuna modifica circa i soggetti pubblici interessati.

 

Pertanto la lesione di attribuzioni regionali non sussiste sotto alcun profilo.

 

4. Fondata è, invece, la questione relativa all'art. 2, primo comma, lett.d) della legge n. 498 del 1992.

 

Va preliminarmente respinta l'eccezione dell'Avvocatura generale dello Stato secondo la quale, ponendo la legislazione di delega norme di principio, la lesione delle competenze regionali si attua soltanto a seguito della emanazione della norma delegata.

 

Ha rilevato la Corte (sent. n. 224 del 1990), che le leggi di delega non sono caratterizzate da elementi differenziali rispetto alle altre leggi, che le rendano non impugnabili dalle regioni, ex se, in via principale, mentre ai fini della sussistenza dell'interesse ad agire, è rilevante il particolare contenuto dei principi e dei criteri direttivi da esse posti, quanto al loro grado di determinatezza e di incidenza.

 

Nel caso concreto tale interesse sussiste, essendo la norma impugnata caratterizzata da contenuti specifici, ben definiti ed idonei a ledere attribuzioni costituzionalmente garantite alle regioni.

 

Invero, il citato art. 2, nella parte impugnata, prevede che, "ai fini della ottimale e razionale utilizzazione delle risorse naturali, anche per conseguire obiettivi di risparmio e di uso qualificato dei beni naturali da parte del sistema produttivo e dei cittadini, nonchè per realizzare il principio che chiunque arrechi pregiudizio all'ambiente è tenuto a ripristinare la situazione precedente, nonchè a corrispondere un indennizzo adeguato", il Governo è delegato ad adottare uno o più decreti legislativi. Tali decreti sono intesi a disciplinare, tra l'altro, "i vincoli e gli oneri ai quali è sottoposta l'attività di cava in sede di rilascio dell'autorizzazione all'esercizio dell'attività, commisurando l'onere alla quantità dei materiali estratti, alla qualità degli stessi, alle caratteristiche delle aree interessate e fissando, altresì, modalità e condizioni per la conservazione e la manutenzione degli alvei fluviali e delle difese spondali, nonchè disciplinando l'eventuale utilizzazione del materiale di risulta in modo che i proventi entrino a far parte delle risorse di cui al comma secondo".

 

La materia delle "cave e torbiere" è fra quelle attribuite alla potestà legislativa regionale dall'art. 117 della Costituzione e le correlative funzioni amministrative sono state interamente trasferite alle regioni a statuto ordinario, dapprima con il d.P.R. 14 gennaio 1972, n. 2 e poi con l'art. 62 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (cfr. da ultimo le sentenze n.148 del 1993; n. 499 e n. 221 del 1988).

 

Il legislatore statale, pertanto, in tale materia, può emanare solo norme di principio. La delega contenuta nell'impugnato art. 2, lett. d) della legge n. 498 del 1992, invece, demanda al Governo di determinare vincoli e oneri ai quali l'attività di cava deve essere sottoposta, specificandone il contenuto e stabilendo dettagliatamente gli elementi ai quali deve essere commisurato il canone per l'autorizzazione, nonchè la specifica e completa destinazione di esso. In tal modo, la norma impugnata attribuisce al decreto delegato il potere di stabilire norme di dettaglio - e in parte le fissa essa stessa - ledendo attribuzioni regionali costituzionalmente garantite.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma primo, lett. d) della legge 23 dicembre 1992, n. 498 (recante "Interventi urgenti in materia di finanza pubblica");

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, comma terzo, della legge 23 dicembre 1992, n. 498, sollevata dalla Regione Lombardia, in riferimento agli artt. 3, 117, 118 e 119 della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.15, comma quinto, della legge 23 dicembre 1992, n. 498, sollevata dalla Regione Lombardia, in riferimento agli artt. 3, 117, 118 e 119, con il ricorso indicato in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 11/06/93.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Gabriele PESCATORE, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 09/07/93.