Sentenza n. 111 del 1993

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SENTENZA N. 111

 

ANNO 1993

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Giuseppe BORZELLINO

 

Giudici

 

Dott. Francesco GRECO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 468, primo comma e 507 del codice di procedura penale, promossi con ordinanze emesse l'8 novembre 1991 dal Pretore di Palermo (n. 2 ordinanze), il 24 settembre 1991 dal Tribunale di Verona, il 28 ottobre 1991 dal Tribunale di Torino, il 15 ottobre 1991 dal Pretore di Modena, il 29 gennaio ed il 16 marzo 1992 dal Tribunale di Padova, il 9 giugno 1992 dal Tribunale di Roma ed il 5 giugno 1992 dal Tribunale di Rimini (n. 2 ordinanze), rispettivamente iscritte ai nn. 73, 74, 102, 110, 155, 166, 293, 393, 488 e 489 del registro ordinanze 1992 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn.9, 10, 13, 14, 22, 35 e 39, prima serie speciale, dell'anno 1992.

 

Visti l'atto di costituzione di Azzari Alberto nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 3 novembre 1992 il Giudice relatore Ugo Spagnoli;

uditi l'avv. Piero Longo per Azzari Alberto e l'Avvocato dello Stato Oscar Fiumara per il Presidente del Consiglio dei ministri

 

Ritenuto in fatto

1.- Nel corso di un procedimento penale nel quale aveva dichiarato inammissibile, per mancata osservanza del termine di deposito, (art. 468 cod. proc. pen.) la lista dei testimoni presentata dal pubblico ministero, il Tribunale di Torino, rilevato che costui non aveva dimostrato l'impossibilità di rispettare il termine nè disponeva di altre prove - onde, in mancanza di assunzione di prove ex officio ai sensi dell'art. 507 cod. proc. pen., si imponeva l'assoluzione del prevenuto - ha sollevato, con ordinanza del 28 ottobre 1991 (r.o. n. 110/1992), una questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dei predetti artt. 468, primo comma (nella parte in cui non prevede ipotesi di sanabilità della sanzione di inammissibilità del deposito intempestivo della lista testimoniale) e 507, assumendone il contrasto con gli artt. 112, 76 e 3 Cost..

 

Il criterio di disponibilità della prova cui l'art. 468 risponde - osserva il Tribunale - incontra nel codice varie eccezioni, tra le quali spicca quella contenuta nell'art. 507, che stabilisce che il giudice, terminata l'acquisizione delle prove, può, nei casi di assoluta necessità, disporre l'assunzione di nuovi mezzi di prova. L'ampia portata di tale norma è, secondo autorevole dottrina, coerente all'indisponibilità dell'oggetto del giudizio e rappresenta un correttivo di tipo inquisitorio all'eventuale inerzia o incompletezza nell'iniziativa delle parti. Ma sul punto se tale potere d'integrazione probatoria d'ufficio possa essere esercitato per supplire alla tardività del deposito della lista testimoniale, la Corte di cassazione (sez. III, 3 dicembre 1990, Ventura) ha condiviso la tesi di chi ritiene che la soluzione positiva vanificherebbe la sanzione di inammissibilità di tali prove - che non potrebbe perciò ritenersi sanabile, in ossequio al divieto di prove a sorpresa - e contraddirebbe al principio informatore del nuovo codice che affida alle parti l'iniziativa e l'onere dell'indicazione dei mezzi di prova: sicchè, prevedendo l'art.507 l'assunzione di "nuovi" mezzi di prova, esso non potrebbe essere utilizzato in caso di inesistenza dell'istruttoria dibattimentale per inerzia delle parti.

 

Così intesa, la norma confligge però, ad avviso del Tribunale rimettente, con l'obbligatorietà dell'azione penale (art. 112 Cost.), che sarebbe in concreto vanificata se non fossero possibili rimedi endoprocessuali - quali quelli previsti per il controllo sulle archiviazioni e sulla qualificazione giuridica del fatto - all'inerzia del pubblico ministero nel deposito delle liste testimoniali: rimedi non surrogabili con l'eventuale responsabilità disciplinare, che non ha rilievo processuale e può anche non sussistere se il mancato deposito dipende da disfunzioni dell'ufficio.

 

Se intesa restrittivamente, la norma confliggerebbe, inoltre, con la direttiva n. 73 (art. 2) della legge delega n. 81 del 1987, dato che in questa il "potere del giudice di disporre l'assunzione di mezzi di prova" non è assoggettato alla condizione che altri ne siano stati già acquisiti ed assunti e dovrebbe consentire, in quanto è finalizzato alla "ricerca della verità", di supplire ad eventuali carenze o insufficienze delle parti.

 

Sarebbe inoltre ipotizzabile - pur non rilevando nel caso di specie - una violazione dell'art. 24 Cost., se la prova liberatoria decisiva non potesse essere espletata perchè non tempestivamente dedotta nelle liste testimoniali. Ma soprattutto, sarebbero violati i principi di uguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), non apparendo giustificabile la diversità di trattamento processuale e sanzionatorio che, in termini di condanna o assoluzione, verrebbe riservato a due imputati versanti in situazioni analoghe (ad es., coimputati dello stesso reato raggiunti da identici elementi di prova testimoniale, nei confronti dei quali si proceda separatamente), a seconda che la lista sia depositata tempestivamente per l'uno e per l'altro no. Nè sarebbe giustificabile che l'acquisibilità di altre prove possa farsi dipendere dall'essere stato effettuato solo nei con fronti di uno di costoro un precedente atto processuale (ad es., sequestro del corpo del reato). Più in generale, non sarebbe ammissibile che l'accertamento della verità ed il conseguente esito del procedimento possano variare a seconda della negligenza o meno del pubblico ministero nel deposito della lista testimoniale o a seconda del verificarsi di circostanze del tutto casuali, senza che il giudice possa in qualche modo intervenire, esercitando il potere conferitogli dal legislatore delegante di disporre l'assunzione di mezzi di prova.

 

2.- Della legittimità costituzionale dell'art. 507 cod. proc. pen., < < nella parte in cui limita l'esercizio dei poteri istruttori di ufficio da parte del giudice al caso in cui sia "terminata l'acquisizione delle prove" richieste dalle parti con esclusione del caso in cui le parti, pur potendolo, non abbiano richiesto acquisizione di prova alcuna>>, dubita anche il Tribunale di Verona con ordinanza del 24 settembre 1991 (r.o. n.102/1992), emessa nel corso di un giudizio per sfruttamento della prostituzione (art. 3, n. 8, legge 20 febbraio 1958, n. 75) in cui il pubblico ministero, dopo aver indicato a testimoni, nelle liste depositate a norma dell'art. 468 cod. proc. pen., la persona offesa ed il di lei marito, aveva poi dichiarato, in sede di richiesta di prove ex art. 493 cod. proc. pen., di non volerne assumere alcuna in quanto si era convinto dell'inattendibilità dei predetti. Il Tribunale, dopo aver respinto, perchè tardiva, un'istanza di prova tendente a corroborare tale ritenuta inattendibilità, osserva che il nuovo codice, pur se incentrato sul rito accusatorio, fa ampia applicazione di meccanismi tipici del rito inquisitorio e che, in questo quadro, la norma di cui all'art.507, per la sua portata generale, riferibile a qualsiasi mezzo di prova, svolge un ruolo di clausola di chiusura del sistema e vale a definire l'intervento d'ufficio del giudice, non solo come eccezionale, ma anche come residuale rispetto all'iniziativa delle parti. Essa è, cioè, destinata ad operare come "ex trema ratio", quando il giudice rilevi che in concreto le prove già acquisite su richiesta di parte richiedono un'integrazione assolutamente necessaria ad assicurare la funzione conoscitiva del processo ed a garantire quindi che esso tenda effettivamente alla ricerca della verità.

 

Peraltro, data la sua formulazione letterale, la norma dovrebbe essere intesa nel senso che il giudice non possa esercitare il potere di disporre d'ufficio nuove prove se non quando sia stata conclusa l'acquisizione delle prove richieste dalle parti e non anche nel caso che prove le parti - non ostante il rinvio a giudizio - non ne abbiano richieste affatto. Ed in ragione di tale limitazione essa, ad avviso del Tribunale rimettente, si pone in contrasto con una serie di principi costituzionali, e cioé: a) con l'art. 3 Cost., sia sotto il profilo della coerenza interna del sistema e dunque della ragionevolezza della norma stessa, che sotto il profilo della disparità di trattamento di situazioni analoghe, non essendovi alcun ragionevole motivo acchè non sia equiparata al fatto che il giudice ritenga incompleta la prova richiesta dalle parti la situazione in cui le parti, totalmente inerti, non consentano al giudice di conoscere alcunchè della vicenda sostanziale; b) con l'art. 112 Cost., risolvendosi la situazione di stallo determinata dalla scelta processuale delle parti in un solo apparente esercizio dell'azione penale; c) con gli artt. 25 e 3 Cost., dati i nessi tra l'obbligatorietà dell'azione penale ed i principi di legalità e di eguaglianza posti in luce nella sentenza n. 88 del 1991 di questa Corte ) con l'art. 101, secondo comma, Cost., sia perchè ne risulterebbe lesa la posizione di istituzionale indipendenza del pubblico ministero e la sua funzione di tutela dell'interesse generale all'osservanza della legge (cfr. sentenza cit.), sia perchè il giudice verrebbe ad essere vincolato, in ordine alla decisione nel merito della causa, delle scelte di carattere processuale, per ipotesi anche immotivate, delle parti; e) con l'art. 76 Cost. dato che il sistema della legge delega è imperniato sul controllo esterno da parte del giudice sull'operato del pubblico ministero (direttive nn. 37, 42, 49, 50, 51, 52) e sull'attribuzione di poteri istruttori di ufficio al giudice, ed esprime anche il criterio (direttiva n. 73) dell'utilità ai fini della ricerca della verità, criterio del tutto vanificato in caso di scelte strategiche delle parti svincolate da qualsiasi potere d'intervento del giudice.

 

3.- Nel corso di due procedimenti penali nei quali nessuna delle parti aveva chiesto, nel termine prescritto a pena di inammissibilità degli artt. 468 e 567 cod. proc. pen., l'esame di testimoni in ordine ai fatti storici oggetto delle contestazioni (concernenti, rispettivamente, i reati di cui agli artt.570 e 641 cod. pen.), il Pretore di Palermo - nel presupposto interpretativo che non fosse, di conseguenza, ammissibile neppure l'esame, in qualità di teste, della persona offesa (cfr. Cass., 12 luglio 1990, Malena) e che il potere di assunzione d'ufficio di "nuovi" mezzi di prova di cui all'art.507 cod. proc. pen. non possa essere esercitato se le parti non abbiano richiesto alcuna prova (cfr. Cass., 3 gennaio 1991, Ventura) - ha sollevato, con due ordinanze di identico tenore emesse l'8 novembre 1991 (r.o. nn. 73 e 74/1992), una questione di legittimità costituzionale del medesimo art.507, assumendone il contrasto con gli artt. 76, 3, 101, 111 e 112 Cost..

 

Sarebbe violata, innanzitutto, la direttiva n. 73 (art. 2) della legge delega - e quindi l'art. 76 Cost. - dato che la sua formulazione letterale evidenzia, ad avviso del rimettente, che si intendeva attribuire al giudice un ampio potere di disporre l'assunzione di mezzi di prova secondo le necessità evidenziate dal processo, sicchè sarebbe arbitraria la sua subordinazione alla preventiva acquisizione di prove che è in facoltà delle parti offrire o meno, quale si evince dall'inciso "Terminata l'acquisizione delle prove.." e dall'aggettivo "nuovi" (riferito ai mezzi di prova) contenuti nell'art. 507 cod. proc. pen..

 

Sarebbe altresì violato l'art. 3 Cost., in quanto, nel caso di due imputati che si trovino nella medesima situazione giuridica ma siano giudicati separatamente, l'esito dei rispettivi processi resta affidato alla decisione discrezionale ed immotivata del pubblico ministero di chiedere o meno l'ammissione di prove, senza che il giudice possa recuperare la parità processuale tra gli imputati disponendo, d'ufficio, quelle prove che si appalesano necessarie per conoscere del fatto contestato.

 

Sarebbero violati, inoltre, gli artt. 101 e 111 Cost., dato che il potere del giudice viene subordinato all'esercizio meramente discrezionale di un potere di parte e che la decisione assolutoria basata sulla totale assenza di prove sarebbe motivata solo formalmente.

 

La norma violerebbe, infine, anche l'art. 112 Cost. dato che di fatto consente al pubblico ministero (che ometta immotivatamente di richiedere l'ammissione di prove) l'elusione sostanziale dell'obbligo di esercitare l'azione penale.

 

4.- Una questione di legittimità costituzionale dell'art.507 cod. proc. pen. è stata altresì sollevata, con ordinanza del 29 gennaio 1992 (r.o. n. 166/1992), dal Tribunale di Padova che, dopo aver dichiarato l'inammissibilità della prova testimoniale richiesta dal pubblico ministero, osserva che l'utilizzo dei poteri conferiti da tale norma (che nella specie avverrebbe in carenza di ogni altra prova e dovrebbe avere ad oggetto le medesime prove non ammesse) è precluso dal fatto che essa dispone che le prove devono essere nuove - e cioé diverse da quelle che le parti hanno indicato o avrebbero potuto indicare in base agli atti a loro disposizione - e possono essere ammesse solo dopo l'acquisizione delle prove assunte ad iniziativa delle parti. Di qui, la ritenuta violazione dell'art. 76 Cost., dato che tali limiti non sarebbero desumibili dalla già citata direttiva n. 73 della legge delega.

 

5.- In un procedimento penale nel quale aveva dichiarato inammissibile, per la sua genericità, l'unica richiesta di prova testimoniale avanzata dal pubblico ministero, il Pretore di Modena, assumendo di non poter introdurre d'ufficio tale prova ai sensi dell'art. 507 cod. proc. pen., perchè non potrebbe considerarsi "nuova" quella già oggetto di richiesta delle parti e perchè tale potere non sarebbe esercitabile in ipotesi di totale carenza di prove, ha sollevato, con ordinanza del 15 ottobre 1991 (r.o. n.155/1992) una questione di legittimità costituzionale della predetta norma, assumendone il contrasto con gli artt. 112 e 76 Cost..

 

Il sistema costituzionale - osserva il Pretore - impone l'indisponibilità dell'azione penale e quindi del tema del processo, sicchè scelte o atteggiamenti negligenti del pubblico ministero non possono impedire che su di esso il giudice pervenga ad un'effettiva pronuncia di merito: onde la necessità di garantire a questi un potere di controllo e di intervento sostitutivo, per riaffermare le garanzie di legalità ed uguaglianza, impedire che l'esercizio dell'azione penale resti meramente apparente ed evitare che una speculare inattività della difesa conduca a violare il principio di indisponibilità della libertà personale (art.13 Cost.).

 

Poichè inoltre le predette preclusioni non figurano nella direttiva n. 73 della legge delega, il rimettente la ritiene violata - e, con essa, l'art.76 Cost. - dato che, per il carattere strutturale e sistematico e per i decisivi effetti che hanno sull'esito del giudizio, esse non avrebbero potuto non essere espressamente previste.

 

6.- Nel corso di un procedimento penale nel quale la posizione dell'imputato Azzari Alberto era stata separata da quella degli altri imputati e poi riunita in fase predibattimentale, il Tribunale di Padova dichiarava inammissibili nei confronti del primo - per mancato deposito della lista ex art. 468 cod. proc. pen. - le prove (testi e consulenza tecnica) già ammesse nei confronti degli altri. Ritenendo che le medesime prove non potessero essere introdotte d'ufficio ex art. 507 cod. proc. pen. perchè non nuove nè successive ad altre (nella specie mancanti) introdotte dalle parti, il Tribunale, con ordinanza del 16 marzo 1992, (r.o. n.293/1992), censura il medesimo art. 507 per violazione:

 

a) dell'art. 76 Cost., dato che la citata direttiva n. 73 non conterrebbe i suddetti limiti;

 

b) dell'art.112 Cost., perchè in caso di mancata richiesta della prova o di decadenza dalla stessa ex art. 468, il rispetto dell'obbligo di esercitare l'azione penale sarebbe solo apparente; c) dell'art. 3 Cost., in quanto la norma sarebbe irragionevole e fonte di disparità di trattamento di casi consimili: ciò che sarebbe particolarmente evidente nel caso di specie, dato che l'Azzari, a differenza degli altri imputati, dovrebbe essere immediatamente prosciolto ex art. 129 cod. proc. pen. per il solo fatto della tardiva presentazione della lista testimoniale nei suoi confronti.

 

7.- In un procedimento penale nel quale alla dichiarata inammissibilità delle prove testimoniali richieste dal pubblico ministero per tardività di presentazione della lista ex art. 468 cod. proc. pen. sarebbe conseguita una pronuncia assolutoria per carenza di prove, il Tribunale di Roma, ritenendo di non poter esercitare il potere di cui all'art. 507 cod.proc. pen. perchè limitato ad un mero intervento integrativo di una precedente attività istruttoria svolta a richiesta di parte, ha sollevato, con ordinanza del 9 giugno 1992 (r.o. n. 393/1992), una questione di legittimità costituzionale di detta disposizione, assumendone il contrasto: a) con l'art.76 Cost., perchè la citata direttiva n. 73 non confina il potere del giudice nei limiti di una attività integrativa delle richieste istruttorie delle parti, cui non può essere riconosciuta la disponibilità del processo penale in ragione della indisponibilità degli interessi protetti; b) con l'art. 112 Cost., dato che questo comporta che l'azione penale, una volta esercitata (con la richiesta di rinvio a giudizio), è irretrattabile, mentre l'inerzia del pubblico ministero nel richiedere tempestivamente le prove si traduce in un sostanziale ritiro dell'istanza di punizione; c) con l'art. 102 Cost., perchè la funzione giurisdizionale non può essere razionalmente esercitata se al giudice viene resa impossibile una compiuta conoscenza delle circostanze di fatto su cui deve pronunciarsi e perchè in mancanza di prove la decisione assolutoria di merito finisca in realtà per avere un contenuto esclusivamente processuale (e ciononostante preclude un secondo giudizio art. 649 cod. proc. pen.); d) con l'art. 111 Cost., dato che l'obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali presuppone un'adeguata conoscenza dei fatti da giudicare.

 

8.- Ritenendo che il potere di assunzione d'ufficio di "nuovi" mezzi di prova di cui all'art. 507 cod. proc. pen. sia riservato alle ipotesi eccezionali in cui, all'esito dell'acquisizione delle prove dibattimentali, emerga l'assoluta necessità di integrazione dell'istruzione attraverso mezzi di prova che le parti non avevano potuto richiedere fin dagli atti preliminari al dibattimento nei termini fissati a pena di decadenza, e che perciò tale potere non possa essere utilizzato - come nei casi di specie richiedeva il pubblico ministero - per sopperire a lacune istruttorie delle parti ovvero per eludere le preclusioni in cui esse siano incorse, il Tribunale di Rimini, con due ordinanze di identico tenore emesse il 5 giugno 1992 (r.o. nn.488 e 489 del 1992), ha sollevato una questione di legittimità costituzionale di detta disposizione, assumendone il contrasto con gli artt. 2, 24, secondo e quarto comma, 77, primo comma e 112 Cost..

 

Ad avviso del rimettente, l'introduzione del requisito della "novità" della prova da assumere contrasterebbe con l'assenza di limitazioni nella corrispondente direttiva (n. 73) della legge delega. Inoltre, una disciplina ispirata al principio della essenziale disponibilità delle parti in me rito all'assunzione delle prove sarebbe incompatibile con il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale (art. 112 Cost.). Infine, poichè lo scopo del processo penale resta pur sempre l'accertamento della verità, la comminatoria di decadenze assolute ed insanabili in materia di assunzione di prove decisive potrebbe anche compromettere, nell'ipotesi di negligente difesa, il diritto alla prova riconosciuto all'imputato, garantito come diritto inviolabile dagli artt. 2 e 24, secondo comma, Cost. anche per l'esigenza di evitare errori giudiziari, sancita dall'art.24, secondo comma, Cost..

 

9.- Nel giudizio instaurato con la seconda delle ordinanze del Tribunale di Padova si è costituita la parte privata Azzari Alberto, rappresentata e difesa dall'avv. Piero Longo.

 

Ad avviso della difesa, non sussiste la dedotta violazione della legge delega perchè l'attribuzione al giudice di poteri più ampi di quelli integrativi conferitigli dall'art. 507 sconvolgerebbe l'intimo tessuto del sistema accusatorio e contrasterebbe con l'esigenza che egli non abbia una pregressa conoscenza dei fatti di causa. Nè essi potrebbero giustificarsi con le esigenze di ricerca della verità, dato che - come dimostrano istituti quali le decadenze, le nullità, le inammissibilità e simili - il fine cui il processo tende è la verità legale e non quella storica.

 

D'altra parte, la censura di violazione dell'art. 112 Cost. sarebbe frutto di confusione tra l'esercizio dell'azione penale e la ritualità e conformità alle norme di esso. Nè sarebbe fondato il sospetto di disparità di trattamento, dato che, nel giudizio a quo, ad una analogia di posizioni sostanziali tra gli imputati fa riscontro una diversità di situazioni processuali.

 

10.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, è intervenuto in tutti i predetti giudizi con memorie di identico contenuto.

 

Ad avviso dell'Avvocatura, le censure mosse dai giudici a quibus all'art. 507 cod. proc. pen. sono infondate perchè muovono da un'interpretazione restrittiva di tale norma, non ispirata a criteri di ragionevolezza e coerenza sistematica e contraria alla sua ratio.

 

Il requisito dell'esaurimento dell'istruzione dibattimentale, infatti, mira solo ad impedire che il giudice, attraverso il potere di integrazione, possa interferire nell'esercizio del diritto alla prova riconosciuto alle parti; ma sarebbe del tutto irragionevole - proprio perchè si tratta di un potere configurato come extrema ratio ed ancorato a parametri di "assoluta necessità" - precluderne l'esercizio proprio nelle ipotesi in cui, a causa dell'inerzia delle parti, l'esigenza di un tale intervento è più radicale.

 

Anche per quanto attiene al requisito della "novità", una lettura ragionevole e sistematicamente corretta della norma porta, secondo l'Avvocatura, a concludere che il requisito della "novità" debba essere riferito alle prove effettivamente assunte e che sia consentito al giudice ammettere d'ufficio qualsiasi prova "nuova", anche quella dalla quale le parti siano decadute per irritualità della richiesta.

 

A conforto di tale interpretazione sta, secondo l'interveniente, la ratio della citata direttiva n. 73 che, preordinando l'attribuzione al giudice di poteri di impulso e di integrazione dell'attività delle parti al fine della "ricerca della verità", assegna ad essi proprio una funzione "suppletiva" dell'inerzia delle parti. In questo senso è, del resto, la più recente giurisprudenza della Corte di cassazione (sez. II, 4 novembre 1991, Paoloni) che - abbandonando il precedente orientamento restrittivo, recepito dai giudici a quibus - ha sottolineato come questo contrasti con i principi informatori del nuovo rito "proteso all'accertamento della verità nell'aperta e leale dialettica tra le parti", ed ha evidenziato che, considerato nell'ottica del perseguimento di tale fine, il parametro dell'"assoluta necessità" impone, "secondo logica", di superare ogni altro ostacolo, così intendendo riferirsi alle preclusioni determinate dall'inerzia delle parti. Inoltre, con riferimento al parametro della "novità", la Corte ha chiarito come debbano essere considerate "nuove" tutte le prove non vietate dalla legge, ancorchè anteriormente ritenute inammissibili o inconferenti. Sia nella delega che nel codice è, cioé, riconosciuto al giudice nella fase dell'istruttoria dibattimentale un ruolo "che non è quello di un semplice controllore o di un direttore di orchestra" e i cui poteri officiosi in ordine alla ammissione delle prove, proprio perchè residuali e delimitati entro rigorosi confini, non possono che essere svincolati dal potere dispositivo delle parti.

 

Considerato in diritto

 

l.- Dato che le dieci ordinanze di rimessione indicate in epigrafe investono la medesima disposizione di legge e prospettano questioni identiche o analoghe, è opportuna la riunione dei relativi giudizi.

 

2.- L'art. 507 del codice di procedura penale stabilisce che "Terminata l'acquisizione delle prove, il giudice, se risulta assolutamente necessario, può disporre anche di ufficio l'assunzione di nuovi mezzi di prove". Le ordinanze di rimessione muovono dal presupposto interpretativo che le con dizioni alle quali tale norma subordina il potere del giudice di assunzione d'ufficio di mezzi di prova - e cioè che l'acquisizione delle prove richieste dalle parti sia terminata e che si tratti di prove "nuove" - siano da intendere nel senso che tale potere non possa essere esercitato nè nel caso in cui da tali prove le parti siano decadute per la mancata o tardiva indicazione dei testimoni nella lista prevista dall'art. 468 cod. proc.

 

pen., nè nel caso in cui non via sia stata ad iniziativa di esse una qualunque attività probatoria.

 

Sulla base di tale presupposizione, i giudici a quibus propongono ora l'una, ora l'altra di una serie di censure di costituzionalità, con le quali, considerandole cumulativamente, si dubita che il predetto art. 507 contrasti:

 

- con l'art. 76 Cost. (secondo tutte le ordinanze, o l'art. 77, primo comma per le ordd. nn. 488 e 489/1992), dato che la direttiva n. 73 della legge delega (art. 2) non pone tali limitazioni al potere del giudice di disporre l'assunzione di mezzi di prova, che dovrebbe invece consentire, in quanto finalizzato alla "ricerca della verità", di supplire ad eventuali inerzie o insufficienze delle parti; ed inoltre perchè il sistema della delega è imperniato sul controllo esterno da parte del giudice sull'operato del pubblico ministero (direttive nn. 37, 42, 49, 50, 51, 52: ord.n. 102/1992) e non consente di confinare il potere del giudice nei limiti di un'attività integrativa delle richieste istruttorie delle parti, alle quali, in ragione dell'indisponibilità degli interessi protetti, non può essere riconosciuta la disponibilità del processo penale (ordd. nn. 155, 166, 293 e 393/1992);

 

- con l'art. 112 Cost. (tutte le ordinanze, salvo la n.166/1992), dato che l'inerzia del pubblico ministero nel richiedere (tempestivamente) l'ammissione delle prove si risolve in esercizio solo apparente dell'azione penale e si traduce in sostanziale ritiro dell'istanza di punizione, contrario all'irretrattabilità conseguente al principio di obbligatorietà dell'azione penale; e perchè è incompatibile con detto principio una disciplina ispirata al principio di disponibilità dell'oggetto del processo;

 

- con gli artt. 25 e 3 Cost., dati i nessi tra obbligatorietà dell'azione e principi di legalità ed uguaglianza posti in luce nella sentenza n. 88 del 1991 (ord. n. 102/1992);

 

- con l'art. 3 Cost. (ordd. nn.73, 74, 102, 110, 293/1992), in quanto non è razionalmente giustificabile la diversità di trattamento che, in termini di condanna o assoluzione, consegue all'essere stata la lista testimoniale depositata tempestivamente o no (in particolare, nel caso di coimputati dello stesso reato nei cui confronti si sia proceduto separatamente: ord. n. 293/1992); e perchè non è ragionevole che tale diversità possa dipendere da scelte discrezionali, immotivate e in sindacabili del pubblico ministero, nè è coerente al sistema un diverso trattamento a seconda che le prove siano incomplete ovvero mancanti per inerzia delle parti;

 

- con l'art. 101, secondo comma, Cost., perchè il potere del giudice di decisione del merito della causa viene ad essere vincolato all'esercizio meramente discrezionale di un potere delle parti (ordd. nn. 73, 74/1992) ed alle scelte di carattere processuale, in ipotesi anche immotivate, di costoro (ord. n. 102/1992);

 

- con l'art. 102 Cost., perchè la funzione giurisdizionale non può essere razionalmente esercitata se al giudice viene resa impossibile una compiuta conoscenza delle circostanze di fatto su cui deve pronunciarsi e perchè in mancanza di prove la decisione assolutoria di merito finisce in realtà per avere un contenuto esclusivamente processuale (ord. n. 393/1992);

 

- con l'art. 111 Cost., perchè una decisione assolutoria fondata sulla totale assenza di prove risulta motivata solo formalmente (ordd. nn. 73, 74/1992) e perchè l'obbligo di motivazione presuppone un'adeguata conoscenza dei fatti da giudicare (ord. n. 393/1992);

 

- con gli artt. 2 e 24, secondo e quarto comma, Cost., perchè, dato che lo scopo del processo penale resta pur sempre l'accertamento della verità, la comminatoria di decadenze assolute ed insanabili in materia di assunzione di prove decisive potrebbe anche compromettere, nell'ipotesi di negligente difesa, il diritto alla prova riconosciuto all'imputato, garantito come diritto inviolabile anche per l'esigenza di evitare errori giudiziari (ordd.nn. 488,489/1992).

 

In aggiunta a ciò, il Tribunale di Torino (ord. n. 110/1992) dubita anche che l'art. 468 cod. proc. pen., in combinato disposto con il predetto art.507, contrasti, per i motivi predetti, con gli artt. 112, 76 e 3 Cost., nella parte in cui non prevede ipotesi di sanabilità della sanzione di inammissibilità per intempestivo deposito della lista testimoniale.

 

3.- Fin dall'entrata in vigore del nuovo codice, l'interpretazione dell'art. 507 è stata oggetto di un vivace dibattito in dottrina e di contrasti in giurisprudenza, tanto di merito che di legittimità. In seno alla Corte di cassazione, in particolare, alcune pronunce hanno sostenuto l'interpretazione restrittiva fatta propria dai giudici rimettenti, mentre altre ne hanno adottato una più ampia, che intende in modo assai diverso i presupposti per l'esercizio del potere giudiziale in questione.

 

A dirimere il contrasto così insorto è intervenuta, nell'imminenza della decisione di questa Corte, la sentenza 6 novembre - 21 novembre 1992, n.11227 delle Sezioni Unite penali della Corte di cassazione, la quale ha stabilito: a) che il potere del giudice di assunzione, anche d'ufficio, di mezzi di prova ben può essere esercitato anche se si tratti di prove dalle quali le parti siano decadute - per mancata o irrituale indicazione nella lista di cui all'art. 468 cod. proc. pen. - dovendo intendersi per prove "nuove" ai sensi dell'art. 507 (così come dell'art. 603) tutte quelle precedentemente non disposte, siano esse preesistenti o sopravvenute, conosciute ovvero sconosciute; b) che tale potere suppletivo non trova ostacolo nella circostanza che non vi sia stata alcuna acquisizione probatoria ad iniziativa delle parti, dato che la locuzione "terminata l'acquisizione delle prove" indica non il presupposto per l'esercizio del potere del giudice, ma solo il momento dell'istruzione dibattimentale a partire dal quale - nell'ipotesi normale in cui tali acquisizioni vi siano state - può avvenire l'assunzione delle nuove prove.

 

Nonostante l'autorevolezza della decisione delle Sezioni Unite, la diffusione che ha avuto, in più direzioni, l'opposto indirizzo interpretativo fatto proprio dai giudici a quibus rende necessario che questa Corte proceda a verificare la coerenza dell'uno o dell'altro orientamento, nei loro fondamenti ed esiti, con la legge delega e con i principi costituzionali che questa espressamente richiama (art. 2, prima parte).

 

4.- Considerata nelle sue premesse ispiratrici, l'interpretazione dell'art.507 cui i giudici rimettenti aderiscono, secondo la quale il potere del giudice di assumere d'ufficio mezzi di prova sarebbe precluso dalla carenza di attività probatorie delle parti e dalle decadenze in cui queste siano incorse, muove - come rilevano le Sezioni Unite della Cassazione - da una concezione alla stregua della quale il nuovo codice processuale "non tenderebbe alla ricerca della verità ma solo ad una decisione correttamente presa in una contesa dialettica tra le parti, secondo un astratto modello accusatorio nel quale "un esito vale l'altro, purchè correttamente ottenuto"".

 

Detto in altri termini, un processo penale rispondente a tale modello sarebbe una tecnica di risoluzione dei conflitti nel cui ambito al giudice sarebbe riservato essenzialmente un ruolo di garante dell'osservanza delle regole di una contesa tra parti contrapposte, ed il giudizio avrebbe la funzione non di accertare i fatti reali onde pervenire ad una decisione il più possibile corrispondente al risultato voluto dal diritto sostanziale, ma di attingere - nel presupposto di un'accentuata autonomia finalistica del processo - quella sola "verità" processuale che sia possibile conseguire attraverso la logica dialettica del contraddittorio e nel rispetto di rigorose regole metodologiche e processuali coerenti al modello.

 

In questa prospettiva, si assume che la caratterizzazione del nuovo processo come processo di parti comporta l'operatività di un principio dispositivo sotto il profilo probatorio. A ciò consegue, da un lato, l'espansione degli spazi di discrezionalità della parte pubblica e l'accentuazione dell'oralità come strumento della formazione della prova in dibattimento; dall'altro, la configurazione del potere di intervento del giudice in materia di prova come eccezionale, e perciò precluso dall'inattività delle parti o dall'inosservanza da parte di esse delle regole poste a presidio della correttezza della loro "contesa".

 

5.- Va premesso, sul piano metodologico, che la considerazione dell'ordinamento processual-penale italiano va condotta, a prescindere da astratte modellistiche, sulla base del tessuto normativo positivo, la cui interpretazione e comprensione non può che derivare da un'attenta lettura dei principi e criteri direttivi enunciati nella legge delega e dei principi costituzionali di cui questa, come si è detto, richiede l'attuazione. Non va, cioè, dimenticato che < < il sistema processuale delineato nella legge delega e poi concretamente attuato nel codice è tutt'affatto originale, dato che tende bensì (art. 2, primo comma) ad attuare "i caratteri del sistema accusatorio", ma "secondo i principi ed i criteri" specificati nelle direttive che seguono>> (sentenza n. 88 del 1991); e che, poichè la stessa norma detta ancor prima l'obbligo di "attuare i principi della Costituzione", un'adeguata considerazione dell'ordinamento effettivamente vigente non può prescindere dagli interventi correttivi che questa Corte si è trovata a dover apportare.

 

6.- Alla luce di tale premessa, mette conto innanzitutto di notare che la stessa caratterizzazione del processo penale italiano come "processo di parti", nella misura in cui evoca lo schema di una contesa tra parti contrapposte operanti sul medesimo piano, non può non considerare che il pubblico ministero è un magistrato indipendente appartenente all'ordine giudiziario che "non fa valere interessi particolari ma agisce esclusivamente a tutela dell'interesse generale all'osservanza della legge" (sentenza n. 88 del 1991 cit.), cui è perciò demandato anche il compito di svolgere gli "accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini" (art. 358 cod. proc. pen.).

 

Inoltre, a salvaguardia del principio di obbligatorietà dell'azione penale, gli spazi di discrezionalità della parte pubblica sono stati rigorosamente contenuti, circondando il potere di archiviazione con una fitta rete di controlli e dettando in materia una regola di giudizio rispettosa di tale principio (cfr. sentenza n. 88 del 1991, cit.). E questa Corte, dal canto suo, ha riscontrato l'"incompatibilità con un ordinamento costituzionale fondato sui principi di uguaglianza e di legalità della pena, di una disciplina" (del giudizio abbreviato) "che affida(va) a scelte discrezionali - immotivate e, quindi, insindacabili - del pubblico ministero l'accesso dell'imputato ad un rito dal quale scaturiscono automaticamente rilevanti effetti sulla determinazione della pena" (cfr. sentenza n. 92 del 1992).

 

7.- Quanto, poi, alla tecnica del processo, è ben vero che l'esigenza di accentuare la terzietà del giudice - perciò programmaticamente ignaro dei precedenti sviluppi della vicenda procedimentale - ha condotto ad introdurre, di massima, un criterio di separazione funzionale delle fasi processuali, allo scopo di privilegiare il metodo orale di raccolta delle prove, concepito come strumento per favorire la dialettica del contraddittorio e la formazione nel giudice di un convincimento libero da influenze pregresse. Ma tale opzione metodologica non ha fatto, nè poteva far trascurare che "fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità" (sentenza n. 255 del 1992), e che ad un ordinamento improntato al principio di legalità (art. 25, secondo comma, Cost.) - che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate - nonchè al connesso principio di obbligatorietà dell'azione penale (cfr. sentenza n. 88 del 1991 cit.) non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione (cfr. la sentenza n. 255 del 1992).

 

Simili regole di predeterminazione legale del valore persuasivo delle prove sono, d'altra parte, dissonanti rispetto ai principi di fondo del nuovo codice, che "fa salvo (e, in aderenza ai principi costituzionali, non poteva essere altrimenti) il principio del libero convincimento, inteso come libertà del giudice di valutare la prova secondo il proprio prudente apprezzamento, con l'obbligo di dar conto in motivazione dei criteri adottati e dei risultati conseguiti" (art. 192 cod. proc. pen.; cfr. sent. n. 255 del 1992, cit.). Più in generale - come si è chiarito nella stessa decisione - il nuovo codice, se ha prescelto la dialettica del contraddittorio dibattimentale ed il metodo orale quali criteri maggiormente rispondenti all'esigenza di ricerca della verità, ha però nel contempo provveduto a temperarne opportunamente la portata in riferimento agli elementi di prova non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili con tale metodo, adottando per essi un principio di non dispersione degli elementi di prova.

 

8.- La configurazione del potere istruttorio conferito al giudice dall'art.507 come eccezionale, e quindi da escludere in caso di decadenza o inattività delle parti, discende, nella logica presupposta dai giudici rimettenti, dall'assunzione dell'immanenza nel nuovo codice, come conseguenza della scelta accusatoria, di un principio dispositivo in materia di prova. Si tratta, però, di un assunto che non trova riscontro nè nei principi della delega nè nel tessuto normativo concretamente disegnato nel codice.

 

É, per la verità, incontroverso che sarebbe contrario ai principi costituzionali di legalità e di obbligatorietà dell'azione concepire come disponibile la tutela giurisdizionale assicurata dal processo penale. Ciò, invero, significherebbe, da un lato, recidere il legame strutturale e funzionale tra lo strumento processuale e l'interesse sostanziale pubblico alla repressione dei fatti criminosi che quei principi intendono garantire; dall'altro, contraddire all'esigenza, ad essi correlata, che la responsabilità penale sia riconosciuta solo per i fatti realmente commessi, nonchè al carattere indisponibile della libertà personale.

 

Sotto questo profilo, è significativo che il nuovo codice non conosca procedure in cui la concorde richiesta delle parti vincoli il giudice sul merito della decisione; prova ne sia che ad un simile esito non conduce neanche l'istituto dell'applicazione di pena su richiesta (cfr. sentenza n. 313 del 1990).

 

Ma un principio dispositivo non può dirsi esistente neanche sul piano probatorio, perchè ciò significherebbe rendere disponibile, indirettamente, la stessa res iudicanda.

 

Ed anche qui la riprova si ha nell'altro rito speciale in cui maggior spazio è riservato alla volontà delle parti, e cioé nel giudizio abbreviato, dato che in esso l'accordo di queste sulle prove utilizzabili non vincola il giudizio sulla loro concludenza; ed anzi non può neanche essere inteso - come ripetutamente segnalato da questa Corte (sentenze nn. 92 del 1992 e 56 del 1993) - come assolutamente preclusivo delle integrazioni probatorie eventualmente necessarie, pena la sua incompatibilità coi principi costituzionali.

 

Ma l'assunzione di un principio dispositivo in materia di prova non trova riscontro nella normativa positiva neanche sul terreno del giudizio ordinario. Il metodo dialogico di formazione della prova è stato, invero, prescelto come metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente idoneo al loro per quanto più possibile pieno accertamento, e non come strumento per far programmaticamente prevalere una verità formale risultante dal mero confronto dialettico tra le parti sulla verità reale: altrimenti, ne sarebbe risultata tradita la funzione conoscitiva del processo, che discende dal principio di legalità e da quel suo particolare aspetto costituito dal principio di obbligatorietà dell'azione penale.

 

In questo quadro, il diritto alla prova delle parti ha certamente, nella struttura del processo, un ruolo centrale, dato che le loro richieste sono assistite da una presunzione (relativa) di ammissibilità (art.190, primo comma) e che per garantire la correttezza del loro confronto dialettico è stato introdotto un rigoroso regime di decadenza dalle prove (art. 468).

 

Ma altro è assicurare la pienezza e lealtà del contraddittorio delle parti, altro è inferirne che un tale regime abbia anche un effetto preclusivo dell'introduzione ad iniziativa del giudice delle prove necessarie all'accertamento dei fatti, rispetto alle quali le parti siano rimaste inerti o dalle quali siano decadute. Che l'assunzione del metodo dialettico non precluda al giudice gli interventi necessari ad acclarare la vicenda ipotizzata nell'imputazione lo si desume, innanzitutto, dal principio che collega l'assunzione delle prove non disciplinate dalla legge alla loro idoneità "ad assicurare l'accertamento dei fatti" (art. 189) e dall'enunciazione generale sull'ammissione delle prove d'ufficio nei casi stabiliti dalla legge che, non a caso, segue immediatamente quella sul riconoscimento del diritto delle parti alla prova (art. 190, secondo comma, cod. proc. pen.); e, quanto alla fase dibattimentale, dal potere del giudice di disporre d'ufficio perizie senz'altro presupposto che non sia quello della loro rilevanza (art. 508, primo comma); dalle ipotesi in cui alle acquisizioni dibattimentali tramite lettura di atti si può procedere ex officio (artt. 511, 511 bis); dal potere riconosciuto al giudice d'appello (art. 603, terzo comma) di procedere alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale quando la ritenga "assolutamente necessaria", disponendo all'uopo anche le prove che, benchè conosciute, non erano state assunte in primo grado.

 

Del resto, se è vero che il codice detta per l'istruzione dibattimentale regole minuziose sull'ordine di assunzione delle prove e sull'avvicendamento delle parti in tale assunzione al fine di garantire l'attendibilità delle conoscenze giudiziali da queste offerte, è anche vero che, riconoscendo al giudice il potere di indicare alle parti stesse temi di prova nuovi o più ampi e di rivolgere domande alle persone interrogate (art.506), consente gli adattamenti a tali sequenze correlati all'esercizio di detti poteri, e perciò non lascia alle sole parti lo sviluppo dell'attività probatoria da esse promossa.

 

Ma è soprattutto dall'art. 507 che si desume l'inesistenza di un potere dispositivo delle parti in materia di prova.

 

Questa Corte ha già avuto modo di dire, nella sentenza n. 241 del 1992, che tale norma - inserita "in un sistema processuale imperniato su un ampio riconoscimento del diritto alla prova e nel quale l'acquisizione del materiale probatorio è rimessa in primo luogo all'iniziativa delle parti" - "conferisce al giudice il potere-dovere d'integrazione, anche d'ufficio, delle prove per l'ipotesi in cui la carenza o insufficienza, per qualsiasi ragione, dell'iniziativa delle parti impedisca al dibattimento di assolvere la funzione di assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto del processo, onde consentirgli di pervenire ad una giusta decisione". E che essa debba essere intesa in tal modo, lo dimostrano esaurientemente, nella sentenza più volte citata, le Sezioni Unite della Corte di cassazione, quando ricordano che la lata previsione - contenuta nella direttiva n. 73 della legge delega (da cui l'art. 507 promana) - del "potere del giudice di disporre l'assunzione di mezzi di prova", fu introdotta - e poi mantenuta senza ripensamenti - in coerenza "con una visione più realistica della funzione del giudice, che può e deve essere anche di supplenza dell'inerzia delle parti e deve esplicarsi in modo che tutto il tema della decisione gli possa essere chiarito". Il legislatore delegante ha cioè esattamente considerato - in armonia con l'obiettivo di eliminazione delle disuguaglianze di fatto posto dall'art. 3, secondo comma, Cost. - che la "parità delle armi" delle parti normativamente enunciata può talvolta non trovare concreta verifica nella realtà effettuale, sì che il fine della giustizia della decisione può richiedere un intervento riequilibratore del giudice atto a supplire alle carenze di taluna di esse, così evitando assoluzioni o condanne immeritate.

 

Il potere conferito al giudice dall'art. 507 è, dunque, un potere suppletivo, ma non certo eccezionale. Che poi esso sia connotato da un criterio che la norma pleonasticamente definisce di "assoluta necessità" - e che peraltro la delega neppure prevede - si spiega considerando che il suo esercizio si colloca in una fase in cui è "terminata l'acquisizione delle prove" che siano state svolte ad iniziativa delle parti (artt. 468, 493, 495) o su indicazione del giudice (cit. 506)": ditalchè le "nuove prove" la cui possibile esistenza ed esperibilità emerga dal materiale a disposizione del giudice sono soggette, rispetto a quelle inizialmente richieste dalle parti, ad "una più penetrante e approfondita valutazione della loro pertinenza e rilevanza che è correlativa alla più ampia conoscenza dei fatti di causa che il giudice ha ormai conseguito in tale momento" (cfr. sentenza n. 241 del 1992, cit.).

 

É, del resto, evidente che sarebbe contraddittorio, da un lato, garantire l'effettiva obbligatorietà dell'azione penale contro le negligenze o le deliberate inerzie del pubblico ministero conferendo al giudice per le indagini preliminari il potere di disporre che costui formuli l'imputazione (art. 409, quinto comma); e, dall'altro, negare al giudice dibattimentale il potere di supplire ad analoghe condotte nella parte pubblica.

 

L'attribuzione di tale potere ha, anzi, un fondamento maggiore, perchè i principi di legalità ed uguaglianza - di cui quello di obbligatorietà dell'azione è strumento (cfr. sentenza n. 88 del 1991) - esigono che il giudice sia messo in grado di porre rimedio anche alle negligenze ed inerzie del difensore.

 

Deve quindi convenirsi con le conclusioni cui le Sezioni Unite della Cassazione sono pervenute: che, cioé, "se si dovessero ritenere possibili entrambe le contrapposte interpretazioni dell'art. 507, dovrebbe optarsi per quella che esclude qualunque preclusione legata all'inerzia delle parti perchè essa sola appare conforme alla direttiva n. 73 ed in grado quindi di far escludere una violazione della delega". Tale conclusione va anzi integrata con la considerazione che un'interpretazione diversa da quella qui illustrata contraddirebbe non solo tale direttiva, ma anche i principi costituzionali richiamati nella presente decisione.

 

Pertanto, poichè le questioni sollevate muovono da premesse interpretative erronee, esse vanno dichiarate non fondate nei sensi di cui in motivazione.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 507 del codice di procedura penale - nonchè dell'art. 468 dello stesso codice: ord. n. 110/1992 - sollevate, in riferimento a tutti od alcuni degli articoli 2, 3, 24, 25, 76, 77, 101, 102, 111 e 112 della Costituzione, dai Tribunali di Torino, Verona, Padova, Roma e Rimini e dai Pretori di Palermo e Modena con ordinanze emesse, rispettivamente, il 28 ottobre 1991 (r.o. n. 110/1992), 24 settembre 1991 (r.o. n. 102/1992), 29 gennaio 1992 (r.o. n. 166/1992), 16 marzo 1992 (r.o.n. 293/1992), 9 giugno 1992 (r.o. n. 393/1992), 5 giugno 1992 (r.o.nn.488 e 489/1992), 8 novembre 1991 (r.o. nn. 73 e 74/1992) e 15 ottobre 1991 (r.o. n. 155/1992).

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il

 

Giuseppe BORZELLINO, Presidente

 

Ugo SPAGNOLI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 26 marzo 1993.