Sentenza n. 454 del 1992

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SENTENZA N. 454

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-          Dott. Aldo CORASANITI, Presidente

-          Prof. Giuseppe BORZELLINO

-          Dott. Francesco GRECO

-          Prof. Gabriele PESCATORE

-          Avv. Ugo SPAGNOLI

-          Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

-          Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-          Avv. Mauro FERRI

-          Prof. Enzo CHELI

-          Dott. Renato GRANATA

-          Prof. Giuliano VASSALLI

-          Prof. Francesco GUIZZI

-          Prof. Cesare MIRABELLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1, secondo comma, della legge 21 marzo 1988, n. 93 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 8 febbraio 1988, n. 25, recante norme in materia di assistenza ai sordomuti, ai mutilati ed invalidi civili ultrasessantacinquenni) e 13 della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica), promossi con ordinanze emesse il 31 gennaio 1992 dal Pretore di Pisa e il 5 marzo 1992 (n.3 ordinanze) dal Pretore di Parma, rispettivamente iscritte ai nn.187, 218, 219 e 220 del registro ordinanze 1992 e pubblicate nelle Gazzette Ufficiali della Repubblica nn. 16 e 19, prima serie speciale, dell'anno 1992.

Visti gli atti di costituzione di Barbi Norina, Bocchi Lina e dell'I.N.P.S. nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 6 ottobre 1992 il Giudice relatore Ugo Spagnoli;

uditi gli avvocati Franco Agostini per Barbi Norina, Bocchi Lina, Giancarlo Perone per l'I.N.P.S. e l'Avvocato dello Stato Antonio Bruno per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.-Dovendo giudicare una domanda di riconoscimento del diritto alla pensione sociale c.d. sostitutiva della pensione di inabilità prevista dall'art. 19 della legge 30 marzo 1971, n. 118, proposta in sede amministrativa nel dicembre 1987 da un'invalida ultrasessantacinquenne in possesso dei requisiti reddituali richiesti per il conseguimento della pensione di inabilità civile, il Pretore di Pisa, con ordinanza del 31 gennaio 1992 (r.o. n. 187 del 1992), ha rilevato che la materia è ora regolata dall'art.13, comma terzo, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica), che ha stabilito l'interpretazione autentica dell'art. 1, comma secondo, della legge 21 marzo 1988, n. 93 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto- legge 8 febbraio 1988, n. 25, recante norme in materia di assistenza ai sordomuti, ai mutilati ed invalidi civili ultrasessantacinquenni), disponendo che tale norma deve essere interpretata "nel senso che la salvaguardia degli effetti giuridici derivanti dagli atti e dai provvedimenti adottati durante il periodo di vigenza del decreto legge 9 dicembre 1987, n. 495, resta delimitata a quelli adottati dal competente ente erogatore delle prestazioni". Di conseguenza - osserva il giudice a quo - il diritto alla pensione sociale c.d. sostitutiva della pensione di invalidità, per gli invalidi che ne abbiano fatto domanda dopo il sessantacinquesimo anno, resta salvaguardato soltanto se entro il termine di vigenza del citato decreto-legge n. 495 del 1987 - che non era stato convertito - sia intervenuto il provvedimento concessivo dell'I.N.P.S., mentre la salvaguardia non opera nei confronti di coloro che, entro il medesimo termine abbiano proposto la domanda in sede amministrativa e neppure nei confronti di coloro che pur abbiano ottenuto il riconoscimento dell'invalidità ad opera del competente Comitato provinciale di assistenza e beneficenza pubblica.

La disposizione interpretativa impugnata si pone - secondo il giudice a quo - in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui introduce un discrimine collegato non al momento della presentazione della domanda in sede amministrativa, ma ad un evento, quello dell'avvenuta adozione del provvedimento di concessione ad opera dell'I.N.P.S., dipende, in sostanza, dalla maggiore o minore celerità che, per i più svariati motivi, può avere assunto la complessa procedura burocratica prevista per il riconoscimento del beneficio in oggetto.

Il Pretore di Pisa chiede alla Corte anche di valutare se il sistema oggi risultante dalla normativa denunciata non si ponga in contrasto con l'art.38 della Costituzione, secondo le indicazioni fornite dalla Corte stessa nelle sentenze nn. 769 del 1988 e 75 del 1991, per le quali il legislatore avrebbe dovuto provvedere ad uniformare il trattamento per gli invalidi e per i pensionati sociali c.d. puri equiparando i rispettivi requisiti di reddito.

2. - Anche il Pretore di Parma, con tre ordinanze di identico tenore emesse il 5 marzo 1992 (r.o. nn. 218, 219 e 220 del 1992), ha sollevato questione di costituzionalità del medesimo art. 13, comma terzo, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, con riferimento agli artt. 3, 38 e 101 della Costituzione.

Il contrasto della norma impugnata con gli indicati parametri costituzionali deriva, secondo il giudice a quo, dal fatto che il legislatore, attribuendo ad una norma sostanzialmente innovativa una falsa veste interpretativa, senza alcuna giustificazione logico-giuridica, invade un'area riservata al potere giurisdizionale (che - si legge nell'ordinanza - già aveva dato un'interpretazione senza incertezze alla norma interpretata) superando i limiti e violando i criteri enunciati, a proposito delle leggi interpretative, dalla sentenza di questa Corte n. 123 del 1987.

3.-Nel giudizio davanti alla Corte si sono costituite - svolgendo identiche difese e ribadendo le tesi esposte nelle ordinanze di remissione - Norina Barbi, ricorrente nel procedimento instaurato davanti al Pretore di Pisa (r.o. n. 187 del 1992), e Lina Bocchi, che aveva promosso davanti al Pretore di Parma il giudizio nel corso del quale era stata pronunziata l'ordinanza di rimessione iscritta al n. 218 del 1992.

In particolare la difesa delle ricorrenti richiama l'attenzione sulla peculiarità della questione in esame, che riguarda in realtà - a suo dire - una norma di interpretazione autentica di altra norma di interpretazione autentica (quale era da considerare l'art. 1, comma secondo, della legge n.93 del 1988, in quanto recepiva l'art. 1 del decreto-legge n. 495 del 1987).

4.-Nel giudizio relativo all'ordinanza del Pretore di Pisa si è costituito l'I.N.P.S., chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, in subordine, manifestamente infondata.

La difesa dell'istituto rileva che la questione di costituzionalità sollevata in via principale dal giudice a quo era stata già dichiarata non fondata dalla Corte con le sentenze nn. 286 del 1990 e 75 del 1991, che dell'art. 1, comma secondo, della legge n. 93 del 1988 avevano preso in considerazione proprio l'interpretazione poi recepita nell'art. 13, comma terzo, della legge n. 412 del 1991. Per quanto invece riguardava la seconda questione sollevata dal Pretore di Pisa - quella relativa alla legittimità costituzionale ex art. 3 e 38 di una disciplina differenziata dei requisiti reddituali richiesti per la pensione di inabilità civile e per la pensione sociale - l'I.N.P.S. ha rilevato che essa era stata già risolta con la sentenza n. 88 del 1992.

5.-In tutti i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata e riservandosi di illustrare in seguito le proprie ragioni.

6.- Prima dell'udienza le parti hanno depositato memorie illustrative, nelle quali hanno più ampiamente illustrato le ragioni esposte nelle precedenti difese.

Considerato in diritto

1.- Le ordinanze di rimessione sottopongono a questa Corte questioni identiche o analoghe. Pertanto i relativi giudizi possono essere riuniti e decisi con un'unica sentenza.

2.- Per rendere più agevolmente comprensibili i termini delle questioni sottoposte all'esame della Corte, appare opportuno premettere, ancora una volta, una sintesi sommaria della vicenda legislativa che ha preceduto l'emanazione della norma impugnata.

L'art. 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153 istituì la pensione sociale in favore dei cittadini ultrasessantacinquenni sprovvisti di reddito. Per aver diritto al trattamento occorreva che il reddito di cui il cittadino ultrasessantacinquenne godeva non superasse due distinti livelli, il primo dei quali riferito al solo reddito personale del soggetto, il secondo al reddito cumulato con quello del suo coniuge.

Nel dettare una nuova disciplina delle provvidenze a favore dei mutilati e invalidi civili, la legge 30 marzo 1971, n. 118 previde la concessione - a carico dello Stato e a cura del Ministero dell'interno - di una pensione di invalidità ai mutilati ed invalidi civili totalmente inabili al lavoro (art. 12) e la corresponsione, nei periodi di non collocamento al lavoro, di un assegno mensile ai mutilati ed invalidi civili la cui capacità lavorativa fosse ridotta in misura superiore a due terzi (art. 13).

Le condizioni economiche richieste per l'assegnazione di tali prestazioni erano le stesse stabilite per il diritto alla pensione sociale.

Correlativamente, al compimento del sessantacinquesimo anno di età cessava la corresponsione della pensione di invalidità o dell'assegno mensile e, in sostituzione di tali prestazioni, i mutilati e gli invalidi civili venivano ammessi (art. 19) al godimento della pensione sociale (alla quale essi avrebbero avuto comunque diritto in ragione della loro età e delle loro condizioni economiche).

Con successivi interventi legislativi (a partire dalla legge n. 29 del 1977 e dal decreto-legge n. 663 del 1979, convertito nella legge n. 33 del 1980), le condizioni reddituali richieste per la pensione di inabilità e per l'assegno mensile vennero rese diverse e meno restrittive rispetto a quelle previste per il diritto alla pensione sociale; in particolare venne eliminata la capacità ostativa del reddito del coniuge, quale che ne fosse il livello.

Ne conseguiva che la pensione sociale sostitutiva, prevista dal citato art.19 della legge n. 118 del 1971, veniva ad essere corrisposta anche a soggetti (i titolari di pensione di inabilità e di assegno mensile) che potevano non essere in possesso dei requisiti economici valevoli per la generalità dei cittadini ultrasessantacinquenni.

Di qui il quesito se questo vantaggio spettasse soltanto a coloro che al compimento dell'età di sessantacinque anni, erano già titolari di pensione di inabilità o di assegno mensile ovvero si estendesse anche a coloro la cui inabilità al lavoro venisse riconosciuta con decorrenza successiva al compimento del loro sessantacinquesimo anno.

La prassi amministrativa adottò, in un primo tempo, la soluzione più aperta, ma fu smentita e quindi arrestata da un parere del Consiglio di Stato e dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo cui coloro ai quali venisse riconosciuta l'inabilità al lavoro con decorrenza successiva al compimento del sessantacinquesimo anno potevano conseguire la pensione sociale soltanto secondo la normativa generale e quindi solo se in possesso dei più restrittivi requisiti reddituali previsti per tutti i cittadini ultrasessantacinquenni.

In questa situazione, intervenne il decreto-legge 9 dicembre 1987, n. 495 stabilendo invece (art. 1, comma primo) che "Gli artt. 10 e 11 della legge 18 dicembre 1973, n. 854, devono intendersi nel senso che i sordomuti e i mutilati ed invalidi civili, anche se siano stati riconosciuti tali a seguito di istanza presentata alle apposite commissioni sanitarie dopo il compimento dei 65 anni di età, sono ammessi al godimento della pensione sociale a carico del fondo di cui all'articolo 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153, in base ai limiti di reddito stabiliti per l'erogazione delle prestazioni economiche da parte del Ministero dell'interno alle rispettive categorie di appartenenza".

Il decreto suddetto non venne peraltro convertito in legge. Alla scadenza del suo termine di efficacia ne venne emanato un altro, il decreto-legge 8 febbraio 1988, n. 25, il cui art. 1, comma primo, disponeva che l'I.N.P.S. era autorizzato a corrispondere le prestazioni già liquidate in favore degli invalidi civili anche se erano stati riconosciuti tali dopo il compimento del sessantacinquesimo anno di età. Il comma secondo disponeva poi, che l'istituto avrebbe dovuto provvedere anche alla liquidazione della pensione sociale "sostitutiva" in favore degli invalidi civili riconosciuti tali dopo il compimento del sessantacinquesimo anno, ma ciò limitatamente ai casi in cui prima dell'entrata in vigore del decreto fosse pervenuta all'I.N.P.S. la delibera di riconoscimento dello stato di invalidità da parte del Comitato provinciale di assistenza e beneficenza pubblica. L'operatività di quest'ultima disposizione era peraltro circoscritta e condizionata dal comma terzo, secondo cui la corresponsione delle prestazioni liquidate ai sensi del comma secondo avrebbe dovuto avvenire "nei limiti delle disponibilità del proprio bilancio".

L'articolo unico della legge di conversione del 21 marzo 1988, n.93, soppresse i commi secondo e terzo ora riportati, sicchè acquistò efficacia definitiva il solo comma primo. Ma l'art. 1 della legge di conversione conteneva anche un secondo comma, che così stabiliva "Restano validi gli atti ed i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodotti ed i rapporti giuridici sorti sulla base del decreto-legge 9 dicembre 1987, n. 495".

L'interpretazione di tale disposizione dette luogo a contrasti giurisprudenziali sia in sede di merito che nell'ambito della stessa Sezione lavoro della Corte di cassazione. Secondo la prima tesi interpretativa la disposizione stessa doveva essere considerata una mera clausola di stile, sicchè la sanatoria era da intendersi limitata - secondo l'esplicita statuizione dell'art. 1, comma primo, del decreto-legge convertito e in conformità alla volontà del legislatore, quale risultante con chiarezza dagli atti parlamentari - ai casi in cui prima dell'8 febbraio 1988 fosse stato emanato il provvedimento di liquidazione ad opera dell'I.N.P.S.. La seconda tesi interpretativa, invece, sosteneva che la volontà del legislatore non si era tradotta in un testo normativo con essa compatibile e che non era legittimo dare al comma secondo dell'art.1, della legge n. 93 del 1988 un'interpretazione tale da rendere la disposizione stessa superflua (perchè di contenuto coincidente con quello del comma primo, dell'art. 1 del decreto-legge convertito) e come tale priva di significato precettivo: doveva quindi ritenersi - in ragione della disposta salvezza dei "rapporti giuridici sorti sulla base del decreto- legge 9 dicembre 1987, n. 495" - che avessero diritto alla pensione sociale sostitutiva anche tutti gli invalidi civili ultrasessantacinquenni che avevano presentato domanda fino allo scadere del periodo di vigenza del decreto-legge n. 495 del 1987.

In ragione del perdurare di tale contrasto, la Sezione lavoro della Cassazione, con ordinanza n. 712 del 7 settembre 1991, dopo aver illustrato con puntualità termini e ragioni del dissenso, dispose la rimessione degli atti al Primo Presidente della Corte affinchè valutasse l'opportunità di investire le Sezioni Unite per la risoluzione di tale questione di diritto.

É invece intervenuto nuovamente il legislatore: l'art. 13 della legge finanziaria del 30 dicembre 1991, n. 412, stabilisce al comma terzo che "L'articolo 1, comma 2, della legge 21 marzo 1988, n. 93, si interpreta nel senso che la salvaguardia degli effetti giuridici derivanti dagli atti e dai provvedimenti adottati durante il periodo di vigenza del decreto-legge 9 dicembre 1987, n. 495, resta delimitata a quelli adottati dal competente ente erogatore delle prestazioni".

É quest'ultima la disposizione che i giudici remittenti sottopongono al vaglio di questa Corte.

3.- Secondo il Pretore di Pisa la norma impugnata violerebbe l'art.3 della Costituzione a causa del carattere irrazionale del discrimine da essa stabilito. La norma, infatti, limiterebbe la salvezza del diritto alla pensione sociale sostitutiva (per gli invalidi che avevano presentato domanda dopo il compimento del sessantacinquesimo anno di età) alle sole ipotesi in cui entro il termine di vigenza del decreto-legge n. 495 del 1987, non convertito, fosse intervenuto il provvedimento di liquidazione dell'I.N.P.S., escludendo, quindi tutte le altre ipotesi in cui entro il medesimo termine, fosse stata presentata la domanda alla competente autorità amministrativa (domanda che, in presenza delle condizioni di invalidità e di reddito richieste dalla legge, rappresenta il momento perfezionativo della fattispecie costitutiva del diritto alla prestazione).

In tale modo, rileva il giudice a quo, la salvaguardia del diritto è stata collegata ad un elemento variabile e casuale, quale la maggiore o minore celerità del procedimento amministrativo, del tutto inidoneo a giustificare il discrimine così operato.

La questione è stata già sottoposta a questa Corte negli stessi termini e con gli stessi argomenti, pur se con riferimento all'art. 1, comma primo, del decreto-legge n. 25 del 1988, ovvero all'art. 1, comma secondo, della legge 21 marzo 1988, n. 93 (sulla base, peraltro, di un'interpretazione della normativa suddetta coincidente con quella poi recepita dal legislatore con la norma di interpretazione autentica qui impugnata).La Corte, con le sentenze nn. 88 del 1992, 286 del 1990 e 75 del 1991 dichiarò non fondata la questione stessa.

Il Pretore di Pisa, che pure non prospetta profili sostanzialmente nuovi rispetto a quelli già vagliati in tali pronunzie, ritiene che la questione sia tuttavia meritevole di riesame in ragione del rilievo che la regola posta dal decreto-legge n. 495 del 1987, lungi dal costituire una mera sanatoria di una prassi amministrativa illegittima, come la Corte aveva ritenuto, rappresentava invece la conferma legislativa della legittimità di tale prassi, posto che, secondo la legge n. 118 del 1971, la pensione di inabilità competeva effettivamente anche a chi avesse presentato la domanda dopo il sessantacinquesimo anno. Infatti - osserva il Pretore - mentre l'art. 13 della legge del 1971 prevedeva espressamente che il diritto all'assegno mensile spettasse ai cittadini parzialmente inabili di età compresa tra i 18 e i 65 anni, l'art. 12 non contemplava il limite del sessantacinquesimo anno per il diritto degli invalidi totali alla pensione di invalidità, essendo soltanto prevista la trasformazione di quest'ultima in pensione sociale ai sensi del successivo art. 19.

La Corte osserva che l'interpretazione sostenuta dal Pretore di Pisa si pone in contrasto con quella reiteratamente affermata dalla Corte di cassazione nell'esercizio della funzione nomofilattica ad essa assegnata dall'ordinamento (per tutte, tra le ultime, Cass., 24 aprile 1991, n. 4488 e Cass., 9 giugno 1989, n. 2808) e ciò senza che il giudice prenda in considerazione gli argomenti ermeneutici esposti dalla Cassazione stessa a sostegno del proprio indirizzo.

In queste condizioni, l'assunto interpretativo enunciato dal giudice a quo non può costituire una ragione adeguata per indurre questa Corte a mutare le proprie decisioni.

La questione deve quindi essere dichiarata non fondata.

4.- Il Pretore di Pisa chiede inoltre che la Corte valuti se il sistema oggi risultante dalla normativa denunziata non si ponga in contrasto con l'art.38 della Costituzione, secondo le indicazioni fornite da questa Corte, con le sentenze nn. 769 del 1988 e 75 del 1991, circa la necessità di porre rimedio all'incoerenza del sistema dei requisiti reddituali fissati per il conseguimento, rispettivamente, dei trattamenti di inabilità e della pensione sociale, mediante un appropriato riequilibrio che realizzi un adeguato contemperamento degli interessi in gioco.

La questione - sulla quale, peraltro, questa Corte si è già di recente pronunziata con la sentenza n. 88 del 1992 - è in questa sede infondata, posto che la disciplina dei requisiti reddituali per il conseguimento delle prestazioni suddette non ha la sua fonte nella norma impugnata.

5.- Il Pretore di Parma ritiene invece che la norma impugnata sia in contrasto con gli artt. 3, 38 e 101 della Costituzione, per il fatto di non aver effettivamente fornito un'interpretazione autentica dell'art.1, comma secondo, della legge n. 93 del 1988, avendo invece disposto, con effetto retroattivo, una disciplina innovativa, difforme rispetto a quella risultante dall'interpretazione che, senza possibilità di incertezze, doveva essere data ed era stata data alla norma del 1988. Il contrasto con le norme costituzionali citate deriverebbe quindi dall'uso irrazionale che il legislatore avrebbe fatto, in questo caso, del potere di emanare leggi di interpretazione autentica.

Anche tale questione deve ritenersi non fondata.

A sostegno della denunzia, il giudice a quo, richiama quanto affermato, in tema di interpretazione autentica, dalle sentenze di questa Corte nn. 123 del 1987, 233 del 1988, 283 del 1989 e 155 del 1990.

La censura è peraltro contraddetta proprio dal principio enunciato ripetutamente da questa Corte (da ultimo con le sentenze nn. 155 del 1990 e 233 del 1988) secondo cui va riconosciuto carattere di interpretazione autentica - per quanto tale qualificazione possa rilevare in ordine alla legittimità costituzionale della norma - soltanto ad una legge che, fermo il tenore testuale della norma interpretata, ne chiarisce il significato normativo ovvero ne privilegia una tra le tante interpretazioni possibili.

La norma impugnata corrisponde invero esattamente a tali caratteri ed il ricorso all'interpretazione autentica appare giustificato, nel caso in esame, anche secondo le più restrittive concezioni circa la legittimità costituzionale di interventi legislativi di tale natura.

Non spetta alla Corte, in questa sede, accertare quale fosse la lettura più plausibile dell'art. 1, comma secondo, della legge n. 93 del 1988. Ma è sufficiente l'ordinanza della Cassazione n. 712 del 1991 (di cui già si è fatto cenno sopra), per rendere palese che della norma suddetta era possibile una duplicità di interpretazioni, tanto che essa aveva dato luogo a contrasti giurisprudenziali nell'ambito della stessa Sezione lavoro della Cassazione. Non solo, ma la tesi che sosteneva la soluzione interpretativa opposta a quella poi autoritativamente adottata dal legislatore con la norma impugnata assumeva di basarsi sul vincolo derivante dal tenore della disposizione, ma riconosceva che esso era il frutto di una carente tecnica legislativa, tale da aver impedito al legislatore di tradurre in norma la propria volontà effettiva.

In questa situazione, non può non riconoscersi come pienamente legittimo il ricorso alla legge di interpretazione autentica dell'art. 1, comma secondo, della legge n. 93 del 1988, al fine di evitare che si determini, contro la volontà effettiva del Parlamento, una integrale convalida, sia pure solo per il passato, dell'efficacia normativa di un decreto che il Parlamento stesso non aveva inteso convertire in legge.

Nè può sostenersi che tale intervento legislativo sia in questo caso irrazionale in relazione al fatto che la stessa norma interpretata era a sua volta una norma interpretativa. É sufficiente osservare, al riguardo, che la norma autenticamente interpretata dall'impugnato art. 13, comma terzo, della legge n. 412 del 1991 è rappresentata dall'art. 1, comma secondo, della legge n. 93 del 1988, che non è norma di interpretazione autentica.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art.13, terzo comma, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica), sollevate dal Pretore di Pisa con ordinanza del 31 gennaio 1992 e dal Pretore di Parma con tre ordinanze del 5 marzo 1992.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 04/11/92.

Aldo CORASANITI, Presidente

Ugo SPAGNOLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 04/11/92.