SENTENZA N. 388
ANNO 1991
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Dott. Aldo CORASANITI Presidente
Dott. Francesco GRECO Giudice
Prof. Gabriele PESCATORE “
Avv. Ugo SPAGNOLI “
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA “
Prof. Antonio BALDASSARRE “
Prof. Vincenzo CAIANIELLO “
Avv. Mauro FERRI “
Prof. Luigi MENGONI “
Prof. Enzo CHELI “
Dott. Renato GRANATA “
Prof. Giuliano VASSALLI “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2, terzo comma, della legge 23 aprile 1981, n. 154 (Norme in materia di ineleggibilità ed incompatibilità alle cariche di consigliere regionale, provinciale, comunale e circoscrizionale e in materia di incompatibilità degli addetti al servizio sanitario nazionale) promosso con ordinanza emessa il 20 febbraio 1991 dal Tribunale di Firenze nel procedimento civile vertente tra Del Lungo Claudio e Regione Toscana, iscritta al n. 278 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell'anno 1991;
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nella camera di consiglio del 19 giugno 1991 il Giudice relatore Mauro Ferri;
Ritenuto in fatto
1. - Il Tribunale di Firenze, nel ricorso promosso da Claudio Del Lungo per la dichiarazione di nullità delle delibere della giunta per le elezioni della Regione Toscana e del Consiglio Regionale Toscano con le quali era stato disposto l'annullamento (rectius: dichiarata la decadenza) della sua elezione a consigliere regionale, ha sollevato questione di legittimità, in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione, dell'art. 2, terzo comma, della legge 23 aprile 1981 n. 154, nella parte in cui dispone che la causa di ineleggibilità del dipendente della regione a consigliere regionale cessi solo con le dimissioni e non anche con il collocamento in aspettativa, alla data fissata per la presentazione delle candidature.
2. - In particolare il giudice remittente, premesso che la decadenza del Del Lungo dalla carica di consigliere regionale è stata dichiarata perché il medesimo, dipendente dell'Ente Toscano per lo sviluppo agricolo e forestale, si trovava alla data di presentazione delle candidature solo in posizione di aspettativa ma non dimissionario, ha osservato che la differenziata disciplina in ordine alla cessazione delle cause di ineleggibilità delle varie categorie di pubblici dipendenti non è sorretta da alcuna ragione: a suo avviso non è comprensibile il motivo in base al quale il pericolo di inquinamento della volontà elettorale, che la legge presume esistente per una serie di categorie di pubblici dipendenti, nel momento in cui ne sancisce l'ineleggibilità, debba ritenersi cessato per alcune categorie con la mera aspettativa, che non preclude la conservazione del posto di lavoro, mentre per altre solo con il più drastico provvedimento di dimissioni.
Detta disciplina, prosegue il Tribunale di Firenze, sembra configurare altresì una violazione dell'art. 51, ultimo comma, della Costituzione: il principio costituzionale secondo cui chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto alla conservazione del posto di lavoro non può dirsi osservato da una norma che impone le dimissioni quale condizione per l'esercizio del diritto di elettorato passivo, e ciò addirittura al momento della presentazione della candidatura; con la conseguenza che se la sperata elezione non diventa realtà il non eletto rimane sprovvisto dei normali mezzi di sussistenza.
In conclusione la norma viene ritenuta irragionevole poiché impone al dipendente regionale di scegliere tra due valori costituzionalmente rilevanti (il diritto di elettorato passivo e quello alla conservazione del posto di lavoro) i quali alla luce dell'art. 51, ultimo comma, della Costituzione devono poter essere garantiti contemporaneamente.
Né è sufficiente, a parere del remittente, ad incidere sul profilo della non manifesta infondatezza della questione, la circostanza che la L.R. Toscana 21 agosto 1989 n. 51 (Testo unico delle leggi sul personale) preveda all'art. 161 la riammissione in servizio, in alcune ipotesi, del dipendente cessato dall'impiego per dimissioni o per decadenza.
Detta disciplina appresterebbe una forma di tutela parziale, certamente non in grado di eliminare la presumibile violazione dell'art. 51, ultimo comma, della Costituzione; ciò in quanto la riammissione stessa viene configurata non quale diritto soggettivo del dipendente bensì, al più, quale diritto affievolito, essendo condizionata alle esigenze dell'ufficio (art. 161 della legge citata, primo comma). Inoltre la medesima norma prevede espressamente, al secondo comma, che l'anzianità di servizio decorra non dalla cessazione del rapporto, ma dalla riammissione.
3. - È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'infondatezza della questione.
Rileva la difesa del Governo che non tutte le cause di ineleggibilità previste dall'art. 2 della legge 23 aprile 1981, n. 154 sono riconducibili all'intenzione di impedire condizionamenti alla libertà del voto.
Nel caso del divieto in esame la ratio legis andrebbe ricercata in una pluralità di motivi.
Non è solo l'intento di evitare una captatio benevolentiae o un metus potestatis ma anche di evitare che si determinino possibili conflitti di interesse o di funzioni, con conseguente compromissione dei precetti costituzionali espressi agli artt. 48, 51 e 97 della Costituzione.
Al riguardo viene rammentato, richiamando la giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 189 del 1971), che possono configurarsi cause di ineleggibilità in cui concorrano, con la esigenza di non creare indebite influenze sugli elettori, la considerazione del conflitto di interessi in cui verrebbe a trovarsi il candidato, ove eletto.
Nell'ipotesi in cui il dipendente regionale risulti eletto, la posizione di amministratore viene a coincidere con quella di amministrato; detto inconveniente si sarebbe potuto evitare configurando una causa di incompatibilità, con conseguente applicazione del terzo comma dell'art. 6 della legge n. 154 del 1981 e, quindi, con la possibilità di evitare la decadenza dalla carica con il collocamento in aspettativa, ma l'operazione, ad avviso dell'Avvocatura, avrebbe avuto un esito solo apparente e parzialmente risolutivo.
Apparente, perché con il collocamento in aspettativa permane il rapporto di impiego con la Regione e quindi il conflitto di interessi che si voleva evitare.
Parzialmente risolutivo, perché la possibile incidenza negativa sulla libertà del voto non sarebbe stata eliminata; anche il dipendente regionale in aspettativa avrebbe infatti la possibilità, per la propria posizione di lavoro nell'ambito dell'amministrazione regionale, di incidere in misura apprezzabile sulla genuinità della competizione elettorale.
In questi casi, prosegue l'Avvocatura, potenzialmente plurioffensivi dell'ordinamento costituzionale, non sarebbe possibile in radice un raffronto con altre situazioni diversamente disciplinate ai fini della verifica della conformità della norma al principio di eguaglianza, proprio perché si tratta di posizioni differenti.
Il Tribunale di Firenze invece, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, avrebbe assimilato due situazioni radicalmente disomogenee e conseguentemente come tali valutate dal legislatore nella disciplina della ineleggibilità giacché, mentre il caso assunto a termine di paragone, e cioè quello dei dipendenti delle UU.SS.LL., concerne situazioni di collegamento solo indiretto con l'ente territoriale per la cui carica si è candidati (e analoga connotazione rivestirebbero i casi trattati allo stesso modo: nn. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 8, 9, 10 e 11 dell'art. 2 della legge n. 154 del 1981), il caso oggetto di giudizio, e cioè quello di dipendente dell'Ente Regione, è ontologicamente diverso e non consente per definizione una coesistenza, in capo allo stesso soggetto, della qualità di titolare dell'ufficio elettivo e contemporaneamente di dipendente, posto che il collocamento in aspettativa pone solo in situazione di quiescenza ma lascia intatta la continuità del rapporto e della funzione rivestita.
Sarebbe dunque del tutto ragionevole il diverso trattamento accordato all'ipotesi in esame, del resto equiparata, per l'aspetto censurato, al caso della contemporaneità di doppia carica di consigliere regionale prevista all'art. 2, n. 12, della citata legge.
Quanto, infine, alla dedotta violazione dell'art. 51 della Costituzione, l'Avvocatura osserva che non è corretto dedurre una compromissione del diritto di elettorato passivo e di quello alla conservazione del posto di lavoro durante lo svolgimento del munus elettivo, posto che la disposizione denunziata non impedisce la candidatura e l'elezione in ogni altra Regione, e cioè in Enti nei quali non sussiste la contraddizione logico-giuridica che sostanzia la causa di ineleggibilità.
Considerato in diritto
1. - Il Tribunale di Firenze solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, terzo comma, della legge 23 aprile 1981, n. 154 nella parte in cui dispone che la causa di ineleggibilità a consigliere regionale del dipendente regionale cessi solo con le dimissioni e non anche con il collocamento in aspettativa, alla data fissata per la presentazione della candidatura.
Alla stregua delle prospettazioni enunciate nell'ordinanza di rimessione, questa Corte è chiamata a decidere se la norma impugnata contrasti con gli artt. 3 e 51 della Costituzione, per irragionevole disparità di trattamento con tutte le altre categorie di pubblici dipendenti per le quali è previsto che il collocamento in aspettativa sia sufficiente a far cessare la causa di ineleggibilità, e perché l'esigenza delle dimissioni dall'impiego contraddice radicalmente il principio costituzionale secondo cui chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto alla conservazione del posto di lavoro.
2. - La questione è fondata.
I due parametri costituzionali invocati possono essere valutati congiuntamente, giacché, nel caso in esame, appaiono collegati fra loro, quanto meno nel senso che l'art. 3, sia sotto il profilo della disparità di trattamento, sia sotto il profilo dell'irragionevolezza, va letto alla luce dei diritti affermati nell'art. 51.
Con la legge n. 154 del 1981 sono state concentrate in un unico testo le norme in materia di ineleggibilità ed incompatibilità alle cariche di consigliere regionale, provinciale, comunale e circoscrizionale, precedentemente contenute nelle diverse leggi elettorali. Per quanto concerne la questione che è oggetto del presente giudizio, va ricordato che le cause di ineleggibilità a consigliere regionale erano elencate nella legge 17 febbraio 1968 n. 108, la quale all'art. 5, quinto comma, lett. a) stabiliva l'ineleggibilità a consigliere regionale di "coloro che ricevono uno stipendio o salario dalla regione o da enti, istituti o aziende dipendenti, sovvenzionati o sottoposti a vigilanza della regione stessa ..'
La norma così formulata è letteralmente ripresa dall'art. 15 n. 3 del T.U. approvato con d.P.R. 16 maggio 1960 n. 570 delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali, che a sua volta riproduceva le disposizioni originariamente contenute negli artt. 26 e 28 del T.U. approvato con R.D. 4 febbraio 1915 n. 148, punto d'arrivo dell'elaborazione legislativa dello Stato liberale nella materia.
La legge n. 154 del 1981 ha adottato una formulazione diversa con l'art. 2, primo comma n. 7, ma ha mantenuto invariata la sostanza della norma prevedendo la ineleggibilità de "i dipendenti della regione, della provincia e del comune per i rispettivi consigli".
Il legislatore del 1981, tenendo conto delle numerose pronunce di questa Corte in argomento, si è tuttavia preoccupato di regolare espressamente la cessazione delle cause di ineleggibilità, consentendo a chi voglia presentarsi candidato di rimuovere la causa stessa attraverso la cessazione dalle funzioni "per dimissioni, trasferimento, revoca dell'incarico o del comando, collocamento in aspettativa non oltre il giorno fissato per la presentazione delle candidature" (art. 2, secondo comma, per le cause previste nei nn. 1), 2), 3), 4), 5), 6), 8), 9), 10), 11)) ovvero "per dimissioni" entro il medesimo termine (art. 2, terzo comma, per le cause previste nei nn. 7) e 12)). Il quinto comma dell'art. 2 dispone inoltre che la pubblica amministrazione debba adottare i provvedimenti di propria competenza entro cinque giorni dalla richiesta: in mancanza "la domanda di dimissioni o aspettativa accompagnata dalla effettiva cessazione delle funzioni ha effetto dal quinto giorno successivo alla presentazione". In questo modo è stata soddisfatta l'esigenza che colui che ricopra cariche o uffici pubblici dai quali derivi una causa di ineleggibilità sia in condizioni di rimuovere detta causa con atti e comportamenti propri, senza che questi possano essere resi inefficaci da inerzia o ritardi della pubblica amministrazione (cfr. sentenza n. 309 del 1991).
3. - I richiami suesposti valgono quale premessa per meglio valutare la fondatezza della questione sottoposta all'esame della Corte.
Il giudice a quo non lamenta che sia stata mantenuta la causa di ineleggibilità per il Consiglio regionale derivante dall'essere dipendente della regione: la sua censura si incentra sulla norma (art. 2, terzo comma) secondo cui detta causa può essere rimossa esclusivamente mediante cessazione dalle funzioni per dimissioni, vale a dire ponendo fine al rapporto di impiego. Per tutte le altre cause di ineleggibilità derivanti da pubblici uffici che presuppongono l'esistenza di un rapporto di impiego pubblico, la legge (art. 2, secondo comma) ha invece previsto che sia sufficiente, perché esse non abbiano effetto, la cessazione dalle funzioni per collocamento in aspettativa; in tal modo il rapporto di impiego resta in vita e l'interessato può riprendere il proprio posto, sia in caso di mancata elezione, sia alla scadenza del mandato.
Il legislatore ha dunque ritenuto che il pericolo di inquinamento del voto derivante da indebite pressioni sul corpo elettorale e, comunque, da impulsi all'orientamento del suffragio impliciti in eventuali candidature di pubblici funzionari - quali, il capo e i vice capi della polizia, gli ispettori generali di pubblica sicurezza che prestano servizio presso il Ministero dell'interno, i direttori generali, i capi di gabinetto dei ministri, gli ufficiali generali, gli ammiragli e gli ufficiali superiori delle Forze Armate, i prefetti, i vice prefetti e i funzionari di pubblica sicurezza, ed inoltre i magistrati addetti alle Corti di Appello, ai Tribunali, alle Preture, ai tribunali regionali amministrativi, (per citare gli esempi più significativi cui si riferisce il secondo comma dell'art. 2) - possa essere rimosso, con il conseguente venir meno della causa di ineleggibilità, mediante il semplice collocamento in aspettativa. La disposizione più rigorosa adottata nei confronti dei dipendenti della regione, i quali possono far cessare la causa di ineleggibilità soltanto con le dimissioni dall'impiego, non trova quindi una razionale giustificazione dato che non può certamente configurarsi una diversa e maggior possibilità di condizionamento del voto nella sussistenza del rapporto di impiego con la regione, per giunta a qualsiasi livello di importanza e di responsabilità.
4. - L'Avvocatura dello Stato, nell'atto di intervento del Presidente del Consiglio, sostiene che le dimissioni sarebbero necessarie allo scopo di mettere fine ad un rapporto di impiego che determinerebbe un conflitto di interessi fra il candidato al Consiglio regionale, dipendente della Regione, e l'Ente stesso di cui il Consiglio costituisce l'organo rappresentativo dotato del potere legislativo e dei maggiori poteri amministrativi; tale conflitto comprometterebbe i precetti costituzionali di cui agli artt. 48, 51 e 97 della Costituzione, perché "nell'ipotesi che il dipendente regionale risulti eletto, viene a coincidere la posizione di amministratore con quella di amministrato".
Questa tesi non regge ad un esame appena approfondito.
Si è detto innanzi che la causa di ineleggibilità di cui si discute discende dalla identica previsione contenuta nella vecchia legge comunale e provinciale; essa riflette quindi - come questa Corte ha già avuto modo di affermare nella sent. n. 97 del 1991 - una concezione degli enti locali "quali mere articolazioni amministrative di uno Stato fortemente unitario ed anzi autoritario e accentratore" e coerente a tale concezione era altresì "l'idea, connessa all'originario collegamento della rappresentanza con la contribuzione, che gli organi degli enti locali siano investiti sostanzialmente della tutela degli interessi patrimoniali dei contribuenti". Trattasi di una concezione ormai superata dall'odierna visione delle comunità locali e delle rispettive rappresentanze quali espressioni "degli interessi generali delle dette comunità viste nell'interezza della popolazione di cui si sostanziano" (cfr. citata sentenza n. 97 del 1991).
Se tanto vale per i comuni e per le province, a maggior ragione deve affermarsi per le regioni e per i rispettivi Consigli, la cui istituzione voluta e regolata dalla Costituzione ha innovato profondamente la struttura dello Stato unitario.
Non si ravvisa pertanto un ragionevole fondamento della norma con cui si pretende, attraverso le dimissioni dell'interessato, la risoluzione del rapporto di impiego prima della presentazione della candidatura. La irragionevolezza risulta poi ancor più evidente ove si raffronti la norma predetta con la disciplina prevista per tutte le altre cause di ineleggibilità che scaturiscono da una posizione ancorata ad un rapporto di pubblico impiego. In tutti questi casi, si è visto, è sufficiente il collocamento in aspettativa perché la ineleggibilità sia rimossa.
5. - Ma l'argomento conclusivo che induce ad escludere che il legislatore abbia operato una scelta legittima nell'esercizio del potere espressamente riconosciutogli dall'art. 51, primo comma, della Costituzione, più volte analizzato dalla giurisprudenza di questa Corte, è offerto dalla lettura del terzo comma dello stesso art. 51. Il diritto ivi sancito per chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive "di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro" costituisce una innovazione di vasta portata nell'ordinamento positivo italiano ed appare del resto una coerente e necessaria derivazione dei principi e valori supremi e fondamentali affermati negli artt. 1, 2, 3 e 4 della Costituzione. Questa Corte già con la sentenza n. 6 del 1960, dopo avere affermato che l'art. 51, terzo comma, attribuisce direttamente al cittadino, che è chiamato a funzioni pubbliche elettive, il diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento ed il diritto di conservare il suo posto di lavoro, ha sottolineato che la norma stessa "non contiene un rinvio alla legge ordinaria per la disciplina dell'esercizio dei diritti da essa garantiti"; e, pur non escludendo "la possibilità che la legge ordinaria emani norme relative alle modalità di esercizio dei detti diritti individuali", ha voluto ribadire "a condizione, s'intende, che tali norme non siano tali da menomare i diritti stessi".
La garanzia costituzionale alla conservazione del posto di lavoro per gli eletti alle cariche pubbliche pone in essere un limite vincolante all'esercizio del potere attribuito al legislatore dal primo comma dell'art. 51 di determinare i requisiti per l'accesso alle cariche elettive e quindi le cause di ineleggibilità.
Ciò non significa beninteso che non possano configurarsi cause di ineleggibilità per chi ricopra uffici o cariche che presuppongono anche l'esistenza di un rapporto di impiego: una siffatta previsione non contrasta con la norma costituzionale, purché essa sia legata all'esercizio dell'ufficio o della funzione, di guisa che l'ineleggibilità venga rimossa con la cessazione di tale esercizio, senza però compromettere la permanenza del rapporto di impiego e quindi la conservazione del posto di lavoro.
Lo stesso costituente aveva inteso in questo modo il diritto enunciato dal terzo comma dell'art. 51: il relatore della prima sottocommissione aveva infatti osservato che scopo della norma è "di fissare il principio che, quando un lavoratore viene ad essere investito di una carica pubblica non deve essere per questo licenziato ma ritenuto in congedo o in aspettativa per modo che quando cessi l'incarico pubblico egli possa riprendere il suo posto" (cfr. Assemblea Costituente, prima sottocommissione, pag. 391).
Del resto la legge n. 154 del 1981 si è in generale attenuta al criterio del collocamento in aspettativa, come si è detto sopra, quale strumento idoneo a far cessare la causa di ineleggibilità prevista per uffici che presuppongono l'esistenza di un rapporto di impiego. La diversa e più rigida disciplina sancita per i dipendenti della regione (nonché della provincia e del comune, che esulano dal giudizio a quo, per i rispettivi consigli), oltre a contrastare con l'art. 51, terzo comma, della Costituzione, risulta del tutto irragionevole. Deve quindi essere dichiarata l'illegittimità costituzionale della norma impugnata con la conseguente estensione ai dipendenti della regione della possibilità di far cessare, anche mediante il collocamento in aspettativa, la prevista causa di ineleggibilità.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, terzo comma, della legge 23 aprile 1981, n. 154 (Norme in materia di ineleggibilità ed incompatibilità alle cariche di consigliere regionale, provinciale, comunale e circoscrizionale e in materia di incompatibilità degli addetti al servizio sanitario nazionale) nella parte in cui non prevede che la causa di ineleggibilità a consigliere regionale del dipendente regionale cessi anche con il collocamento in aspettativa ai sensi del secondo comma dello stesso art. 2.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 9 ottobre 1991.
Aldo CORASANITI - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA - Giuliano VASSALLI.
Depositata in cancelleria il 17 ottobre 1991.