Sentenza n. 53 del 1991

 

 CONSULTA ONLINE 

 

SENTENZA N. 53

ANNO 1991

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. Giovanni CONSO                                              Presidente

Prof. Ettore GALLO                                                   Giudice

Dott. Aldo CORASANITI                                              “

Prof. Giuseppe BORZELLINO                                       “

Dott. Francesco GRECO                                                 “

Prof. Gabriele PESCATORE                                           “

Avv. Ugo SPAGNOLI                                                    “

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA                               “

Prof. Antonio BALDASSARRE                                     “

Prof. Vincenzo CAIANIELLO                                       “

Prof. Luigi MENGONI                                                    “

Prof. Enzo CHELI                                                           “

Dott. Renato GRANATA                                                “

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

nel giudizio promosso con ricorso della Regione Lombardia notificato il 28 settembre 1990, depositato in Cancelleria l'8 ottobre 1990, per conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato in relazione agli artt. 2, quinto comma, 4, sesto comma, e 6, primo, secondo e terzo comma, del decreto del Ministro dell'ambiente 12 luglio 1990, intitolato "Linee guida per il contenimento delle emissioni inquinanti degli impianti industriali e la fissazione dei valori minimi di emissione", ed iscritto al n. 33 del registro conflitti 1990;

Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nell'udienza pubblica dell'11 dicembre 1990 il Giudice relatore Antonio Baldassarre;

Uditi l'Avvocato Valerio Onida per la Regione Lombardia e l'Avvocato dello Stato Pier Giorgio Ferri per il Presidente del Consiglio dei ministri;

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Con ricorso regolarmente notificato e depositato, la Regione Lombardia ha proposto conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato in relazione al decreto del Ministro dell'ambiente 12 luglio 1990, intitolato "Linee guida per il contenimento delle emissioni inquinanti degli impianti industriali e la fissazione dei valori minimi di emissione", domandando che sia dichiarata l'incompetenza dello Stato in relazione ai poteri esercitati con gli artt. 2, quinto comma, 4, sesto comma, e 6, primo, secondo e terzo comma, del suddetto decreto, articoli dei quali chiede consequenzialmente l'annullamento. La ricorrente ritiene, infatti, che con le disposizioni appena citate lo Stato abbia violato gli artt. 117 e 118 della Costituzione, nell'attuazione ad essi data dall'art. 101 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, e dall'art. 4 del d.P.R. 24 maggio 1988, n. 203, che attribuiscono alle regioni la tutela dell'ambiente dall'inquinamento atmosferico.

Ad avviso della ricorrente, oltre che tardivo, ripetitivo e incompleto, il decreto ministeriale impugnato, il quale è stato emanato a norma dell'art. 3, secondo comma, del d.P.R. n. 203 del 1988, conterrebbe una puntuale violazione dell'art. 4, primo comma, lettera d), del medesimo decreto n. 203 del 1988, nel disporre, all'art. 2, quinto comma, che le regioni possono fissare i valori limite di emissione "per le sole sostanze previste" nello stesso decreto ministeriale o in altri emanati allo stesso titolo, anziché per tutte le sostanze emesse nell'atmosfera, come sembrerebbe richiesto dal citato art. 4, che, nel punto prima ricordato, significativamente tiene fermi, in assenza di determinazioni regionali, i valori di emissione definiti nelle linee guida. A conferma di ciò, la ricorrente rammenta l'esistenza a livello comunitario di un principio, ora codificato negli artt. 130 e 100 A, terzo comma, del Trattato CEE, introdotti con l'Atto Unico del 1986, relativo alla "concorrenza" fra Comunità, Stato e regioni al fine del raggiungimento della massima tutela ambientale possibile.

Sempre ad avviso della ricorrente, illegittimo sarebbe altresì l'art. 4, sesto comma, del decreto impugnato, il quale dispone che "un valore limite di emissione si intende rispettato quando risulta inferiore o uguale al valore medio dei risultati ottenuti dall'analisi dei campioni prelevati (...)". Tale disposizione, letteralmente intesa, sembrerebbe dire che le emissioni di un impianto, nel loro valore medio, possano superare i valori limite di emissione, dal momento che questi si intendono rispettati se risultano eguali o inferiori al valore medio. In realtà, per essere legittimo, l'articolo impugnato dovrebbe disporre, secondo la ricorrente, che il valore limite è rispettato se il valore medio di emissione è ad esso valore limite eguale o inferiore, vale a dire se questo non è superato.

Infine, la Regione Lombardia ritiene lesivo delle proprie competenze l'art. 6 del decreto impugnato. Nei suoi primi due commi, tale articolo prevede, rispettivamente: a) che con l'entrata in vigore del decreto impugnato "cessano di avere efficacia i provvedimenti regionali difformi da quanto stabilito nel decreto medesimo"; b) che le regioni possono riapprovare in tutto o in parte i provvedimenti preesistenti che riguardino valori-limite più restrittivi, ma solo "in relazione a determinate aree" o "per talune categorie di impianti che richiedano la determinazione di particolari condizioni di costruzione o di esercizio".

Secondo la ricorrente, non avrebbe alcun fondamento giuridico - o, quantomeno, questo non si rinviene né nell'art. 4 del d.P.R. n. 203 del 1988, né nel d.P.C.M. 21 luglio 1989 - la pretesa ministeriale di far decadere hic et nunc tutti i provvedimenti regionali difformi da quanto previsto nel decreto impugnato, senza nemmeno distinguere tra provvedimenti regionali più o meno restrittivi. Questa disposizione, continua la ricorrente, verrebbe a creare un illegittimo "effetto ghigliottina", che produrrebbe immediatamente un "vuoto" provvedimentale, per il quale, incongruamente, centinaia di provvedimenti decadranno e dovranno di volta in volta essere nuovamente riadottati. Più corretto sarebbe stato, secondo la ricorrente, che si fosse lasciato svolgere il principio già esistente, e riformulato nel secondo comma dell'articolo in esame, che impone alle regioni di adeguarsi alla normativa statale.

Un'ulteriore illegittimità sussisterebbe in relazione all'art. 6, secondo comma, in quanto, in difformità dall'art. 4, primo comma, lettera e), del d.P.R. n. 203 del 1988, che autorizza le regioni a fissare valori limite delle emissioni più restrittivi dei valori minimi definiti nelle linee guida "per zone particolarmente inquinate o per specifiche esigenze di tutela ambientale", la disposizione impugnata concede la stessa facoltà "in relazione a determinate aree" o per talune categorie di impianti richiedenti particolari condizioni di costruzione e di esercizio.

Infine, ad avviso della ricorrente, sarebbe illegittimo anche l'art. 6, terzo comma, il quale creerebbe un grave "vuoto" di tutela ambientale, considerato che per esso le disposizioni regionali più restrittive cessano di avere efficacia "comunque dal 30 aprile 1991", anche in assenza dei piani di risanamento previsti dall'art. 4, lettera e, del d.P.R. n. 203 del 1988.

2. - Il Presidente del Consiglio dei ministri si è costituito in giudizio chiedendo che il ricorso sia dichiarato per più profili inammissibile e, comunque, non fondato.

Inammissibili sarebbero, ad avviso dell'Avvocatura dello Stato, le censure relative all'art. 2, quinto comma, e all'art. 4, sesto comma: le prime, infatti, concernerebbero il merito della disposizione e non inciderebbero sulle competenze regionali; le altre, invece, si risolverebbero semplicemente in una critica della formulazione tecnica di quanto disposto.

Non fondate sarebbero, in ogni caso, le contestazioni mosse all'art. 2, quinto comma, considerato che quest'ultimo riprodurrebbe sostanzialmente la ripartizione di competenze già disposta dall'art. 4 del d.P.R. n. 203 del 1988, che questa Corte ha ritenuto non contraria a Costituzione con la sentenza n. 101 del 1989. Secondo tale ripartizione, confermata dal d.P.C.M. 21 luglio 1989, allo Stato spettano la fissazione delle linee guida, la determinazione dei valori minimi e massimi di emissione, nonché l'individuazione dei criteri temporali per l'adeguamento progressivo degli impianti esistenti rispetto alla nuova normativa. È solo all'interno di questo quadro che le regioni possono adottare le proprie determinazioni, soprattutto per quanto riguarda la fissazione dei valori di emissione, salvo i poteri derogatori ad esse attribuiti in relazione alle zone particolarmente inquinate o a specifiche esigenze di tutela ambientale, ove ciò si renda necessario per l'attuazione dei piani di risanamento. In base a ciò, l'art. 2 del decreto impugnato ha definito le linee generali di contenimento delle emissioni limitatamente agli impianti esistenti e con riferimento a un notevole numero di sostanze, anche se non esaustive di tutti i fenomeni inquinanti (tanto che sono espressamente previsti successivi aggiornamenti e integrazioni). In altri termini, in sede di prima regolamentazione e in presenza di una tecnologia ancora in fase di perfezionamento e non definita nelle sue concrete possibilità antinquinamento, non sono state imposte agli imprenditori scelte di specifiche tecnologie, ma, oltre all'indicazione di alcuni criteri generali, sono stati fissati solamente i valori minimi e massimi di emissione per le sostanze inquinanti, di notevole numero, per le quali le conoscenze scientifiche consentono un'adeguata valutazione degli effetti nocivi. Su tali premesse, conclude l'Avvocatura dello Stato, le potestà regionali possono venir esercitate soltanto all'interno dei parametri fissati dallo Stato e soltanto dopo che questi siano stati definiti per tutto il territorio nazionale, onde non creare disparità di condizioni nella concorrenza fra le imprese (v. sent. n. 101 del 1989 di questa Corte).

Del pari infondata sarebbe pure la censura mossa all'art. 4, sesto comma, poiché tale disposizione, secondo l'Avvocatura dello Stato, tenderebbe semplicemente a disciplinare la tecnica di controllo del rispetto dei valori limite di emissione, nel senso che la verifica ivi prevista dovrebbe esser fatta con riferimento al valore medio dei risultati ottenuti dall'analisi dei campioni prelevati.

Infine, relativamente alle censure mosse all'art. 6, l'Avvocatura dello Stato osserva che le disposizioni impugnate salvaguardano pienamente le competenze delle regioni, consentendo a queste di riesaminare la propria normativa alla luce delle nuove disposizioni statali e di rimettere in vigore valori limite più restrittivi in considerazione delle particolari esigenze locali.

3. - Nel corso della discussione orale nella pubblica udienza, mentre la Regione Lombardia ha sottolineato che nel decreto impugnato non sono stabilite le linee guida per la determinazione delle quali il Ministro dell'ambiente era autorizzato ad adottare l'atto contestato, l'Avvocatura dello Stato, invece, ha osservato che all'art. 6 del decreto impugnato dovrebbe riconoscersi un valore meramente dichiarativo, nel senso che le disposizioni ivi contenute sarebbero una conseguenza dell'esigenza che, dovendo esserci una previa disciplina statale, è solo in relazione a quest'ultima che dovrebbe verificarsi l'incompatibilità e la conseguente cessazione di efficacia delle disposizioni regionali.

 

Considerato in diritto

 

1. - La Regione Lombardia ha elevato conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato in relazione al decreto del Ministro dell'ambiente 12 luglio 1990 (Linee guida per il contenimento delle emissioni inquinanti degli impianti industriali e la fissazione dei valori minimi di emissione), chiedendo, sul presupposto che lo Stato abbia illegittimamente esercitato i poteri svolti con gli artt. 2, quinto comma, 4, sesto comma, e 6, primo, secondo e terzo comma, che questi ultimi siano annullati. La ricorrente, infatti, ritiene che le disposizioni appena citate abbiano menomato le competenze in materia di tutela dell'ambiente dall'inquinamento atmosferico, attribuite alle regioni dagli artt. 117 e 118 della Costituzione, come attuati dall'art. 101 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, e dall'art. 4 del d.P.R. 24 maggio 1988, n. 203.

2. - Il primo profilo di contestazione delle competenze esercitate dallo Stato con il decreto del Ministro dell'ambiente 12 luglio 1990 concerne l'art. 2, quinto comma, del medesimo decreto, il quale dispone testualmente che "le regioni fissano i valori limite di emissione ai sensi dell'art. 4, lettera d), del decreto del Presidente della Repubblica 24 maggio 1988, n. 203, per le sole sostanze previste dal presente decreto e da altri decreti emanati ai sensi dell'art. 3, comma secondo, lettera a), del citato decreto del Presidente della Repubblica". Secondo la Regione Lombardia, tale disposizione violerebbe l'art. 4, primo comma, lettera d), del decreto n. 203 del 1988, in quanto prevede che le regioni fissino i valori limite "per le sole sostanze previste dal presente decreto", o da altri decreti emanati allo stesso titolo, e non per tutte le sostanze nocive emesse nell'atmosfera, come esigerebbe il citato art. 4, lettera d), che, nell'ultima parte, sembra riferirsi a limiti da valere in ogni caso.

La censura proposta è priva di fondamento.

2.1. - Come questa Corte ha riconosciuto in una precedente pronunzia (v. sent. n. 101 del 1989), la ripartizione delle competenze tra Stato e regioni in relazione alla tutela dell'ambiente dall'inquinamento atmosferico è data essenzialmente dal d.P.R. 24 maggio 1988, n. 203, emanato in attuazione delle direttive CEE numeri 80/779, 82/884, 84/360 e 85/203.

Sulla base dell'art. 3, comma secondo, di tale atto legislativo il Ministro dell'ambiente, nel rispetto delle vigenti norme di legge e del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri volto a fissare e aggiornare i valori limite e i valori guida della qualità dell'aria validi per tutto il territorio nazionale (ora vigente come d.P.C.M. 21 luglio 1989), è chiamato a determinare e ad aggiornare, con proprio decreto, "le linee guida per il contenimento delle emissioni, nonché i valori minimi e massimi di emissione" (lettera a), e a stabilire, sempre con proprio decreto, "i criteri temporali per l'adeguamento progressivo degli impianti esistenti" rispetto alla nuova normativa (lettera d).

Ai sensi del successivo art. 4, le regioni sono competenti a fissare "i valori delle emissioni di impianti, sulla base della migliore tecnologia disponibile e tenendo conto delle linee guida fissate dallo Stato e dei relativi valori di emissione" (lettera d), salva la facoltà, per le stesse, di stabilire valori limite delle emissioni più restrittivi dei valori minimi di emissione definiti nelle linee guida in relazione a zone particolarmente inquinate o per specifiche esigenze di tutela ambientale, nell'ambito dei piani di rilevamento, prevenzione, conservazione e risanamento del proprio territorio (lettera e).

Lo stesso d.P.R. n. 203 detta, inoltre, una specifica disciplina per gli impianti esistenti prevedendo un sistema di autorizzazioni provvisorie finalizzato al contenimento delle emissioni entro i limiti fissati dalla normativa statale e dalle prescrizioni regionali.

Il successivo atto di indirizzo e coordinamento approvato con il d.P.C.M. 21 luglio 1989, oltre a richiamare la medesima ripartizione delle competenze e a ribadire che "le regioni stabiliscono i valori limite di emissione in via generale per categorie d'impianti e per sostanze inquinanti nel quadro delle linee guida e dei valori minimi e massimi stabiliti dallo Stato" (punto 5), prevede, sulla scorta di quanto disposto in via di principio dal d.P.R. n. 203 del 1988, un articolato regime tanto per quel che riguarda l'esercizio delle competenze regionali (punti 6 e 7), quanto per quel che riguarda il progressivo adeguamento degli impianti esistenti alle prescrizioni poste sia a livello statale sia a livello regionale (punti 14 e seguenti).

Il punto 6 determina, infatti, un regime provvisorio, in attesa della emanazione dei decreti ministeriali di fissazione delle linee guida e dei valori minimi e massimi di emissione, stabilendo che le autorizzazioni devono essere rilasciate sulla base dell'osservanza delle norme contenute nel d.P.R. n. 203 del 1988, di altri atti normativi e di indirizzo ivi indicati e delle leggi regionali vigenti anteriormente al ricordato d.P.R. n. 203. Successivamente alla emanazione da parte dello Stato delle linee guida per il contenimento delle emissioni e dei valori limite minimi e massimi di emissione (punto 7), le autorizzazioni regionali debbono essere rilasciate nel rispetto delle prescrizioni poste dallo Stato, salvo che non si tratti di emissioni inquinanti per le quali non esistano specifici valori limite di emissione, al cui riguardo le regioni sono tenute a conformare le autorizzazioni ai limiti previsti per sostanze similari dal punto di vista chimico e degli effetti biologici e ambientali.

Per quanto riguarda il graduale adeguamento degli impianti esistenti agli obiettivi di contenimento delle emissioni in relazione alle caratteristiche e allo stato degli impianti stessi (migliori tecnologie disponibili, oneri economici, volume annuale di produzione, ammortamento e durata della vita residua dell'impianto, eventuali rilocalizzazioni, ampliamenti o riduzioni di attività produttiva, etc.), il punto n. 14 del d.P.C.M. 21 luglio 1989, in diretta attuazione degli artt. 12 e 13 del d.P.R. n. 203 del 1988, dispone che "indipendentemente dalla emanazione del decreto di cui all'art. 3, comma secondo, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica n. 203 e dalla presentazione del progetto di adeguamento (...), la regione, in conformità al disposto di cui al punto n. 6, può rilasciare un'autorizzazione provvisoria, con la quale stabilisce contestualmente i limiti di emissione provvisori per l'impianto, i metodi di campionamento e analisi, le prescrizioni tecniche attraverso le quali ottenere una riduzione delle emissioni, nonché i tempi e i modi per l'adeguamento degli impianti", tempi e modi che in ogni caso "dovranno conformarsi alle linee guida statali, ove emanate".

L'autorizzazione provvisoria è sostituita da quella definitiva, sia quando le prescrizioni contenute nella stessa siano state osservate, sia quando sia inutilmente decorso il termine concesso alle autorità competenti per il rilascio dell'autorizzazione provvisoria e l'impresa interessata abbia eseguito il progetto di adeguamento degli impianti esistenti (art. 13, terzo comma, d.P.R. n. 203 del 1988). In questi casi, la regione può dettare prescrizioni integrative, tenendo anche conto della fissazione dei valori limite della qualità dell'aria e delle emissione, sempreché tale fissazione sia stata compiuta dallo Stato.

2.2. - Dall'insieme delle disposizioni citate si deduce un quadro normativo estremamente preciso nella ripartizione delle competenze e particolarmente attento ad assicurare che gli enti investiti delle competenze in materia di protezione dell'ambiente siano messi nella condizione di apprestare forme di tutela realistiche ed effettive.

Sotto il primo profilo, infatti, il d.P.R. n. 203 del 1988 ha distribuito le competenze fra Stato e regioni, non già ritagliando per l'uno e per le altre distinti ambiti oggettivi, ma ammettendo i poteri dell'uno e delle altre nello stesso settore materiale e dividendoli secondo il loro grado di astrattezza. In tal modo, mentre ha attribuito allo Stato la determinazione delle linee guida e dei valori minimi e massimi di emissione per ogni tipo di sostanze inquinanti, nello stesso tempo ha conferito alle regioni la fissazione dei valori di emissione per categorie di impianti e per sostanze inquinanti nel quadro delle direttive e dei limiti (minimi e massimi) posti dallo Stato. In altri termini, poiché le competenze regionali possono essere esercitate all'interno degli spazi posti dallo Stato nello svolgimento delle proprie attribuzioni, non si può non condividere l'affermazione fatta dall'Avvocatura dello Stato, secondo la quale le regioni sono poste in grado di esercitare le competenze previste dall'art. 4 del d.P.R. n. 203 del 1988 soltanto dopo che lo Stato abbia determinato i valori limite, minimi e massimi, di propria spettanza.

Questa considerazione corrisponde, del resto, alla posizione generale che il d.P.R. n. 203 del 1988 assicura allo Stato. A norma dell'art. 3, secondo comma, lettera d), di tale decreto, a quest'ultimo spetta la determinazione dei criteri temporali per l'adeguamento progressivo degli impianti esistenti ai nuovi principi legislativi, in armonia con la configurazione normativa dello Stato come il soggetto che scandisce i tempi, oltreché per l'applicazione delle modalità generali, per l'attuazione della complessiva tutela ambientale di fronte alle emissioni atmosferiche inquinanti. Esaminata alla luce dei principi costituzionali, la posizione dello Stato come ente di programmazione generale dell'adeguamento progressivo degli impianti esistenti ai nuovi principi posti in materia di tutela dall'inquinamento atmosferico è tutt'altro che irrazionale. Essa, infatti, è pienamente giustificata tanto dal fatto che lo Stato è in possesso di strumenti ufficiali di conoscenza sulle caratteristiche inquinanti delle sostanze e sulle migliori tecnologie applicabili per contenerne o eliminarne la nocività, i quali sono incomparabilmente superiori a quelli disponibili da parte delle regioni, quanto dal fine di garantire sull'intero territorio nazionale un trattamento uniforme alle varie imprese operanti in concorrenza fra loro, onde non produrre arbitrarie disparità sulle ragioni dei costi aziendali in dipendenza di vincoli imposti in modo differenziato sia sotto il profilo spaziale, sia sotto quello temporale (v. anche sent. n. 101 del 1989).

Né si può dire, come adduce la ricorrente, che limitare la determinazione dei valori limite di emissione alle sole sostanze previste dal decreto impugnato o da altri adottati allo stesso titolo comporti una menomazione all'esercizio delle competenze regionali in materia di tutela dell'ambiente dall'inquinamento atmosferico.

Le considerazioni già svolte e le norme citate nel punto precedente della motivazione portano, innanzitutto, ad affermare, contro gli argomenti proposti dalla ricorrente, che in materia opera un principio di gradualità nell'attuazione della tutela ambientale in ragione del complesso bilanciamento dei numerosi e contrastanti interessi in gioco, coinvolgente, da un lato, l'utilizzabilità di conoscenze scientifiche certe e di tecnologie efficaci e, dall'altro, il calcolo dei costi umani e sociali legati agli oneri economici comportati e, in particolare, alle riduzioni e alle rilocalizzazioni delle attività produttive, alle possibilità di sfruttamento degli impianti da tempo operanti, alle riconversioni della produzione e così via. Sicché non è affatto irrazionale, come osserva l'Avvocatura dello Stato, che, per un verso, in sede di prima definizione dei valori minimi e massimi di emissione, il Ministro dell'ambiente abbia fatto riferimento alle sostanze inquinanti, invero in numero non trascurabile, di fronte alle quali le conoscenze scientifiche e le tecnologie applicabili garantiscono un'effettiva e sicura tutela e, per altro verso, si sia lasciato alle regioni la libertà di scelta, da esercitarsi caso per caso in sede di autorizzazione, sui mezzi più opportuni e sulle tecnologie più adeguate per raggiungere in tempi realistici gli obiettivi posti.

Del resto, l'ampiezza del potere autorizzatorio attribuito alle regioni rivela, in modo decisivo, come non possa avere alcuno spazio la preoccupazione della ricorrente relativa alla possibile mancanza di tutela ambientale in conseguenza della delimitazione alle sole sostanze previste dal decreto impugnato della fissazione dei valori limite. Infatti, dal d.P.R. n. 203 del 1988 e dal successivo atto di indirizzo e coordinamento si deduce chiaramente, come si è mostrato nella illustrazione del quadro normativo vigente, che in relazione alle sostanze per le quali lo Stato non abbia fissato le linee guida e i valori di emissione minimi e massimi, la tutela ambientale è assicurata dalle regioni in sede di rilascio delle autorizzazioni.

3. - Inammissibile è la censura che la Regione Lombardia muove all'art. 4, sesto comma, del decreto impugnato, dal momento che i rilievi sollevati dalla ricorrente non hanno alcun rapporto con le norme costituzionali relative alla ripartizione delle competenze fra Stato e regioni in materia di tutela dell'ambiente dall'inquinamento atmosferico.

La Regione Lombardia, infatti, contesta la formulazione della disposizione impugnata, la quale, affermando che "un valore limite di emissione si intende rispettato quando risulta inferiore o uguale al valore medio dei risultati ottenuti dall'analisi dei campioni prelevati secondo le indicazioni del manuale U.N.I. CHIM. n. 158/88", lascia indubbiamente spazio, nella sua lettera, alla possibilità interpretativa che le emissioni di un impianto, nel loro valore medio, possano superare i valori limite di emissione. Ma, per quanto si possa condividere l'osservazione che tale disposizione sulla disciplina del metodo di campionamento non sia sufficientemente chiara allo scopo di affermare che il valore limite può esser considerato rispettato solo se non è superato dal valore medio di emissione, essa tuttavia non è in grado di involgere alcuna lesione delle attribuzioni costituzionalmente garantite alle regioni.

4. - Se pure per motivi di carattere più generale di quelli addotti dalla ricorrente, va invece accolta la contestazione in relazione alle norme transitorie contenute nei primi tre commi dell'art. 6 del decreto impugnato.

Al primo comma, tale articolo dispone che con l'entrata in vigore del decreto considerato "cessano di avere efficacia i provvedimenti regionali difformi". Al secondo comma, lo stesso articolo autorizza le regioni interessate "a riapprovare in tutto o in parte i provvedimenti concernenti i valori limite più restrittivi, con proprie deliberazioni specificamente motivate, in relazione a determinate aree", nonché a fissare valori più restrittivi anche "per talune categorie di impianti che richiedano la determinazione di particolari condizioni di costruzione o di esercizio, ai sensi della lettera e) dell'art. 4 del d.P.R. n. 203/88". E, al terzo comma, dispone che i provvedimenti previsti dal comma precedente in riferimento alle aree determinate "cessano di aver efficacia alla data di entrata in vigore dei piani previsti all'art. 4, lettere a) ed e) del d.P.R. n. 203/88 e comunque dal 30 aprile 1991". Ad avviso della ricorrente, mentre il primo e terzo comma, con la disposta cessazione di efficacia di provvedimenti regionali, sarebbero illegittimi perché producono un "vuoto" o, comunque, un ritorno indietro rispetto a una preesistente tutela ambientale, il secondo comma, invece, lederebbe le competenze delle regioni sia per il fatto che autorizza queste ultime a una riapprovazione, ritenuta incongrua, di provvedimenti privati di efficacia dallo stesso decreto, sia perché violerebbe l'art. 4, lettera e), del d.P.R. n. 203 del 1988, il quale prevede la possibilità di limiti più restrittivi, non solo "per zone particolarmente inquinate", ma anche "per specifiche esigenze di tutela ambientale", senza alcuna limitazione territoriale.

L'insieme delle disposizioni contestate forma un sistema, nel senso che si tratta di un complesso di norme la cui giustificazione unitaria è data dalla statuizione della automatica cessazione di efficacia di tutti i provvedimenti regionali difformi dal decreto ministeriale impugnato. L'illegittimità, sotto il profilo della lesione delle competenze regionali, del sistema di norme appena descritto deriva, prima di ogni altra cosa, dal principio che in una Costituzione rigida, come la nostra, che conferisce alle autonomie regionali un carattere politico e che connota la ripartizione delle competenze tra Stato e regioni come un elemento essenziale della struttura pluralistica dell'ordinamento, direttamente incardinato nella Carta fondamentale e garantito dalla giurisdizione costituzionale, non può lo Stato togliere, con un proprio atto amministrativo, l'efficacia giuridica di provvedimenti adottati dalle amministrazioni regionali.

Più precisamente, qualunque possa essere la qualificazione giuridica da attribuire alla cessazione di efficacia prevista, la fattispecie oggetto di questo giudizio è data da un atto di amministrazione attiva dello Stato che opera direttamente su provvedimenti amministrativi regionali privandoli dell'efficacia loro propria. In realtà, nel campo amministrativo, un potere del genere può essere legittimamente esercitato da soggetti che (attualmente) posseggono la stessa competenza che sta (o stava) a base dell'adozione degli atti colpiti o da soggetti che sono gerarchicamente sovraordinati a quelli che abbiano adottato gli atti medesimi. Tuttavia, la base costituzionale della divisione fra l'ordinamento statale e quello regionale e fra le rispettive sfere di attribuzione, oltreché la natura politica dell'autonomia riconosciuta alle regioni, precludono, con riferimento al caso esaminato, ogni possibilità all'una e all'altra ipotesi.

In breve, come questa Corte ha chiaramente affermato nella sentenza n. 229 del 1989 (punto n. 6 della motivazione), per non considerare illegittima l'ipotesi di un atto di amministrazione attiva dello Stato che puntualmente pone nel nulla provvedimenti amministrativi regionali "occorrerebbe muovere dall'accettazione di una visione monolitica dell'amministrazione pubblica (...), visione certamente incompatibile con il disegno pluralista tracciato dalla Carta repubblicana, dove la valutazione anche politica di larga parte degli interessi locali risulta affidata alla competenza delle Regioni e delle Province autonome, con apparati distinti da quelli del Governo e dell'amministrazione centrale".

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

Dichiara che spetta allo Stato deliberare, con decreto del Ministro dell'ambiente, la determinazione e l'aggiornamento delle linee guida per il contenimento delle emissioni inquinanti degli impianti industriali e la fissazione dei valori minimi di emissione per le sostanze inquinanti previste dal decreto del Ministro dell'ambiente 12 luglio 1990 (Linee guida per il contenimento delle emissioni inquinanti degli impianti industriali e la fissazione dei valori minimi di emissione);

Dichiara che non spetta allo Stato disporre, con decreto del Ministro dell'ambiente, la cessazione dell'efficacia dei precedenti provvedimenti amministrativi regionali difformi dalle linee guida e dai valori minimi e massimi fissati con decreto del Ministro dell'ambiente, e, conseguentemente, annulla l'art. 6 del predetto decreto del Ministro dell'ambiente 12 luglio 1990;

Dichiara inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione proposto, con il ricorso indicato in epigrafe, dalla Regione Lombardia nei confronti dello Stato in relazione all'art. 4 dello stesso decreto del Ministro dell'ambiente 12 luglio 1990.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 gennaio 1991.

 

Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI – Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA.

 

Depositata in cancelleria il 6 febbraio 1991.