SENTENZA N.364
ANNO 1988
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori Giudici:
Prof.
Francesco SAJA Presidente
Prof.
Giovanni CONSO
Prof.
Ettore GALLO
Dott. Aldo
CORASANITI
Prof.
Giuseppe BORZELLINO
Prof.
Renato DELL'ANDRO
Prof.
Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo
SPAGNOLI
Prof.
Francesco Paolo CASAVOLA
Prof.
Antonio BALDASSARRE
Prof.
Vincenzo CAIANIELLO
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nei
giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 5, 42, 43 e 47 del
codice penale e dell'art. 17, lett. b), della legge 28 gennaio 1977, n. 10
(Norme per l'edificabilità dei suoli) promossi con le seguenti ordinanze:
1)
ordinanza emessa il 22 luglio 1980 dal Pretore di Cingoli nel procedimento
penale a carico di Marchegiani Mario ed altri,
iscritta al n. 694 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 338 dell'anno 1980;
2)
ordinanza emessa il 14 maggio 1982 dal Pretore di Padova nel procedimento
penale a carico di Marin Giacinto, iscritta al n. 472
del registro ordinanze 1982 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 351 dell'anno 1982.
Visti gli
atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nell'udienza pubblica del 29 settembre 1987 il Giudice relatore Renato Dell'Andro;
udito
l'Avvocato dello Stato Giorgio Azzariti per il
Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Nel
corso d'un giudizio penale a carico di Marchegiani
Mario e altri, imputati della contravvenzione di cui all'art. 17, lett. b),
legge 28 gennaio 1977, n. 10, per avere eseguito senza concessione edilizia
notevoli opere di bonifica di un terreno agricolo e per finalità
agricole, con esclusione d'ogni intento edificatorio, il Pretore di Cingoli -
ritenendo gli imputati meritevoli di proscioglimento perché avevano
creduto in buona fede, sulla base della giurisprudenza del Consiglio di Stato,
di poter eseguire i lavori senza licenza - con ordinanza del 22 luglio 1980 ha
sollevato questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli
artt. 2, 3, 24, 27, primo comma, 54, 73, 111 e 113 Cost., degli artt. 5, 42,
quarto comma, 43, 47 cod. pen. e 17, lett. b), legge
28 gennaio 1977, n. 10, nella parte in cui non prevedono la rilevanza della
precitata "buona fede", determinata da interpretazioni della
giurisprudenza del supremo consesso di giustizia amministrativa.
Il giudice
a quo osserva che le norme impugnate contrastano: con l'art. 2 Cost.,
perché la libertà dell'uomo viene ad essere lesa proprio da una
situazione anormale creata dallo stesso ordinamento; con l'art. 3 Cost., in
quanto le norme impugnate escludono ogni rilievo della carenza di coscienza
dell'antigiuridicità della condotta e dell'errore sulle leggi
amministrative richiamate nel precetto penale; nonché con gli artt. 24,
111 e 113 Cost., nei quali è contenuto il principio
dell'unitarietà dell'ordinamento nel campo della difesa degli interessi
legittimi e dei diritti soggettivi.
Il Pretore
di Cingoli ritiene sussista altresì contrasto delle norme impugnate con
gli artt. 54 e 73 Cost., che stabiliscono l'obbligo del rispetto delle leggi,
in quanto, nell'ipotesi che l'errore sia dipeso da difformi interpretazioni
giurisprudenziali, il cittadino che rispetti l'interpretazione d'un giudice non
si ribella all'autorità dello Stato ma si adegua all'obbligo di cui agli
stessi articoli.
Lo stesso
Pretore rileva, infine, il contrasto delle norme impugnate con il primo comma
dell'art. 27 Cost., che impone la possibilità della conoscenza della
legge penale.
2. -
È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, deducendo l'infondatezza della
questione.
Osserva
preliminarmente l'Avvocatura che, quale che sia la corretta soluzione da darsi
all'antico problema della buona fede nelle contravvenzioni, è certo che
essa non involge l'applicazione di norme o principii
costituzionalmente garantiti. L'unico principio costituzionale, pilastro
fondamentale di qualsiasi ordinamento giuridico, è quello che si ricava
dall'art. 73, terzo comma, Cost. coordinato con l'art. 25, secondo comma,
Cost., e con l'art. 5 cod. pen. e che da secoli viene
compendiato nel brocardo nemo
ius ignorare censetur. Alla
stregua di tali disposizioni, un contrasto d'interpretazione d'una data norma
tra giurisdizioni superiori non può giustificare la condotta di chi si
determini esclusivamente in base all'orientamento a sé più favorevole
ignorando quello contrario.
Quanto al
preteso contrasto delle norme impugnate con l'art. 2 Cost., l'argomento del
giudice a quo appare, secondo l'Avvocatura dello Stato, "misterioso",
in quanto le norme denunciate si compendiano nel principio dell'obbligatorietà
della legge, esigenza imprescindibile del vivere civile. Obbligatoria,
tuttavia, è la legge non già l'interpretazione che ne abbia dato
questo o quel giudice: tale interpretazione non è fonte di diritto. La
possibilità di interpretazioni giurisprudenziali diverse è
fisiologica nel nostro sistema e non si vede come potrebbe eliminarsi senza
eliminare quella pluralità di giurisdizioni superiori che è
consacrata dalla stessa Costituzione. Di fronte a contrasti di giurisprudenza
il cittadino è libero di determinarsi nel modo più acconcio.
Quanto al
contrasto con l'art. 3 Cost., la stessa Avvocatura osserva che il principio
d'obbligatorietà della legge e d'irrilevanza dell'errore di diritto vale
in modo uguale per tutti. Né è ravvisabile, prosegue l'Avvocatura
dello Stato, violazione degli artt. 24, 111 e 113 Cost., giacché dai
medesimi non può desumersi alcuna norma che garantisca
costituzionalmente il cittadino dal pericolo di giudicati contrastanti, tanto
più quando, come nella specie, si tratti non di conflitto pratico di
giudicati ma di semplici orientamenti difformi su casi analoghi.
Infine, in
ordine al contrasto, che il Pretore di Cingoli assume esistente tra gli
articoli impugnati e l'art. 27, primo comma, Cost., l'Avvocatura osserva che,
ai fini dell'operatività del principio d'obbligatorietà della
legge, è necessaria e sufficiente la possibilità, offerta a
chiunque, di conoscere la norma nel testo promulgato (art. 73, terzo comma,
Cost.) possibilità che non viene certo meno per effetto d'una
interpretazione giudiziale.
3. -
Analoga questione di costituzionalità è stata sollevata dal
Pretore di Padova, il quale - nel corso d'un procedimento penale a carico di Marin Giacinto, imputato della contravvenzione di cui
all'art. 666 cod. pen., per avere senza licenza
detenuto e fatto funzionare nel suo bar un apparecchio radio, un videogame ed
un flipper - con ordinanza del 14 maggio 1982 ha impugnato, per contrasto con
gli artt. 2, 3, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost., l'art. 5 cod. pen., nella parte in cui nega ogni rilevanza all'errore od
all'ignoranza scusabile.
Il Pretore
osserva preliminarmente che, nella specie, l'imputato aveva creduto in buona
fede che per la radio non fosse necessaria la licenza e che per gli altri
apparecchi la situazione fosse regolare, essendo stato indotto in tale errore
sia dall'oscurità delle norme in tema di licenza per apparecchi
radiofonici sia dalle assicurazioni verbalmente fornitegli da funzionari
comunali. In situazioni di questo genere, continua il Pretore, quando
cioè "nella selva legislativa è difficile trovare la giusta
via e l'imputato dà una spiegazione logica del proprio
comportamento", lo stesso imputato dovrebbe poter invocare la propria
buona fede, il che invece è vietato dall'art. 5 c.p.
Senonché,
tale disposizione, in quanto nega ogni rilevanza all'errore od all'ignoranza
scusabile derivante dall'oscurità della legge penale e dalla mancata
concreta possibilità di conoscerla, appare innanzitutto in contrasto con
l'art. 27, terzo comma, Cost.. Quest'ultimo articolo,
attribuendo alla pena funzionerieducativa, pone in
risalto il rapporto tra il reo ed i valori violati, nel senso che l'opera
rieducativa della pena è ipotizzabile soltanto nel caso in cui l'agente
abbia dimostrato indifferenza od ostilità verso i valori tutelati
dall'ordinamento.
In secondo
luogo sussisterebbe contrasto con l'art. 25, secondo comma, Cost., il quale,
col divieto di retroattività e l'esigenza di tassatività della
norma penale, tende a garantire la possibilità di conoscere la legge
penale, possibilità che dovrebbe escludersi quando l'ignoranza discenda
da una causa qualificata, oggettiva e scusabile, quale sarebbe la
difficoltà d'interpretazione della legge stessa.
Sussisterebbe
infine contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost., per i quali la Repubblica s'impegna
a garantire i diritti inviolabili ed il pieno sviluppo della persona ed a
rimuovere gli ostacoli che a tale sviluppo si frappongono. Qualora i limiti fra
il lecito e l'illecito non fossero chiaramente delineati, l'ordinamento,
anziché rimuovere i predetti ostacoli, ne costituirebbe esso stesso un
esempio vistoso.
4. - Nel
giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, deducendo
l'infondatezza della questione.
Rileva
l'Avvocatura che il giudice a quo da un lato esaspera alcuni aspetti di ordine
pratico, che potrebbero essere adeguatamente risolti sol che si giudicasse con
un po' di buon senso e logica e da un altro lato non tien
conto della sentenza
n. 74 del 1975, che ha già risolto la questione della
conformità dell'art. 5 c.p. agli artt. 2 e 25 Cost.
Quanto al
preteso contrasto delle norme impugnate con l'art. 27, terzo comma, Cost.,
l'Avvocatura rileva che, se fosse esatto l'assunto del Pretore, l'ignoranza
della norma dovrebbe escludere la pena in ogni caso e non soltanto nell'ipotesi
d'ignoranza inevitabile e, pertanto, scusabile.
L'Avvocatura
esclude che possa ravvisarsi contrasto delle norme impugnate con l'art. 25,
secondo comma, Cost., in quanto "la base costituzionale dell'art. 5 c.p.
risiede nell'art. 73, terzo comma, Cost."; ed
esclude anche contrasto tra le stesse norme e gli artt. 2 e 3 Cost., non
potendo affermarsi che difficoltà interpretative delle norme penali
siano d'ostacolo al pieno sviluppo della persona umana o violino il principio
d'eguaglianza dei cittadini;
Considerato in diritto
l.- Le
ordinanze in epigrafe propongono analoghe questioni: riuniti i giudizi, le
stesse questioni possono, pertanto, esser decise con unica sentenza.
2. -
L'ordinanza di rimessione del Pretore di Cingoli riferisce che agli imputati e
stata contestata la contravvenzione di cui all'art. 17, lettera b), della legge
28 gennaio 1977, n. 10 e l'ordinanza di rimessione del Pretore di Padova
riferisce che l'imputato é stato chiamato a rispondere della
contravvenzione di cui all'art. 666 c.p.: mentre le predette ordinanze
risultano sufficientemente motivate in ordine alla rilevanza non si può
qui far riferimento al notissimo indirizzo giurisprudenziale relativo alla
<buona fede> nelle contravvenzioni senza impostare e risolvere il
generale problema della legittimità dell'art. 5 c.p.: a parte la sua non
uniformità, il predetto indirizzo giurisprudenziale, come in seguito si
motiverà, non trova fondamento nella vigente legislazione a causa della
norma di <sbarramento>, di cui all'art. 5 c.p., che impedisce ogni
rilievo, comunque, all'ignoranza della legge penale, sia essa qualificata o
meno. Come é stato esattamente rilevato, disciplinando un elemento
negativo (l'ignoranza) lo stesso articolo non offre possibilità
d'operare distinzioni di disciplina tra le diverse cause dell'ignoranza o tra
le varie modalità concrete nelle quali la medesima si manifesta.
3. - Prima
d'esaminare se ed in quali limiti l'art. 5 c.p. deve ritenersi illegittimo, a
seguito dell'entrata in vigore della Costituzione repubblicana, vanno qui
brevemente sottolineate alcune premesse ideologiche, di metodo, storiche e dommatiche.
La mancata
considerazione delle relazioni tra soggetto e legge penale, l'idea che nessun
rilievo giuridico va dato all'ignoranza della legge penale, e, fra l'altro, il
risultato di tre ben caratterizzate impostazioni ideologiche. La prima, in
radicale critica alla concezione normativa del diritto, contesta che
l'obbedienza o la trasgressione della legge abbia attinenza con la conoscenza
od ignoranza della medesima. La seconda sottolinea che, essendo l'ordinamento
giuridico sorretto da una <coscienza comune> che lo legittima e
costituendo, pertanto, la trasgressione della legge <episodio>
particolare, incoerente e perciò ingiustificato (attuato da chi,
conoscendo e contribuendo a realizzare i valori essenziali che sono alla base
dello stesso ordinamento, appunto arbitrariamente ed incoerentemente si pone in
contrasto con uno dei predetti valori) non può lo stesso ordinamento
condizionare l'effettiva applicazione della sanzione penale alla prova della
conoscenza, da parte dell'agente, per ogni illecito, del particolare precetto
violato. La terza impostazione ideologica, comunemente ritenuta soltanto
politica, attiene all'illuministica <maestà> della legge, la cui
obbligatorietà, si sostiene, non va condizionata dalle mutevoli
<psicologie> individuali nonchè
dall'alea della prova, in giudizio, della conoscenza della stessa legge.
Senonchè,
contro la prima tesi, va osservato che, supposta l'esistenza di leggi
giuridiche statali, nessun dubbio può fondatamente sorgere in ordine al
principio che spetta all'ordinamento dello Stato stabilire le condizioni in
presenza delle quali esso entra in funzione (e, tra queste, ben può
essere prevista la conoscenza della legge che si viola). Alla seconda tesi va
obiettato che, in tempi in cui le norme penali erano circoscritte a ben precisi
illeciti, ridotti nel numero e, per lo più, costituenti violazione anche
di norme sociali universalmente riconosciute, era dato sostenere la regolare
conoscenza, da parte dei cittadini, dell'illiceità dei fatti violatori
delle leggi penali; ma, oggi, tenuto conto del notevole aumento delle sanzioni
penali, sarebbe quasi impossibile dimostrare che lo Stato sia effettivamente
sorretto da una <coscienza comune> tutte le volte che <aggiunge>
sanzioni a violazioni di particolari, spesso <imprevedibili>, valori
relativi a campi, come quelli previdenziale, edilizio, fiscale ecc., che nulla
hanno a che vedere con i delitti, c.d. naturali, di comune
<riconoscimento> sociale. Alla terza impostazione ideologico-politica
va obiettato che, certamente, e pericoloso, per la tutela dei valori
fondamentali sui quali si fonda lo Stato, condizionare, di volta in volta, alla
prova in giudizio della conoscenza della legge penale, da parte dell'agente,
l'effettiva applicabilità delle sanzioni penali ma che, tuttavia, il
principio dell'irrilevanza assoluta dell'ignoranza della legge penale non
discende dal l'obbligatorietà della stessa legge; tant'é vero
che, come é stato sottolineato di recente dalla dottrina, nei sistemi
nei quali si attribuisce rilevanza all'ignoranza della legge penale non per
questo la legge diviene <meno obbligatoria>.
Vero
é che gli opposti principi dell'assoluta irrilevanza o dell'assoluta
rilevanza dell'ignoranza della legge penale non trovano valido fondamento: ove,
infatti, s'accettasse il principio dell'assoluta irrilevanza dell'ignoranza
della legge penale si darebbe incondizionata prevalenza alla tutela dei beni
giuridici a scapito della libertà e dignità della persona umana,
costretta a subire la pena (la più grave delle sanzioni giuridiche)
anche per comportamenti (allorchè l'ignoranza
della legge sia inevitabile) non implicanti consapevole ribellione o
trascuratezza nei confronti dell'ordinamento; ove, invece, si sostenesse
l'opposto principio dell'assoluta scusabilità della predetta ignoranza,
l'indubbio rispetto della persona umana condurrebbe purtroppo (a parte la
questione della possibilità che esistano soggetti che volutamente si
tengano all'oscuro dei doveri giuridici) a rimettere alla variabile
<psicologia> dei singoli la tutela di beni che, per essere tutelati
penalmente, si suppone siano fondamentali per la società e per l'ordinamento
giuridico statale.
4. - Sul
piano metodologico va osservato che non é prospettiva producente ed esaustiva quella che esamini il tema
dell'ignoranza della legge penale considerando il solo <istante> nel
quale il soggetto oggettivamente viola la legge penale nell'ignoranza della
medesima. E indispensabile, infatti, non trascurare le <cause>, remote e
prossime, della predetta ignoranza e, pertanto, estendere l'indagine al
preliminare stato della relazioni tra ordinamento giuridico e soggetti ed in
particolare ai rapporti tra l'ordinamento, quale soggetto attivo dei processi
di socializzazione di cui all'art. 3, secondo comma, Cost. ed autore del fatto
illecito. Se non si mancherà d'accennare a tale indagine, va, peraltro,
sottolineato che la medesima non potrà, ovviamente, esser
sufficientemente approfondita in questa sede.
5. - Dal
punto di vista storico e di diritto comparato va sottolineato che il principio
dell'irrilevanza dell'ignoranza di diritto non é mai stato positivamente
affermato nella sua assolutezza. Si può, anzi, affermare che la storia
del principio in esame coincida con la storia delle sue eccezioni: dal diritto
romano-classico, per il quale era consentito alle donne ed ai minori di 25 anni
<ignorare il diritto>, attraverso i <glossa tori> ed il diritto
canonico, fino alle attuali normative di diritto comparato (codici penali
tedesco-occidentale, austriaco, svizzero, greco, polacco, iugoslavo, giapponese
ecc.) si evidenziano tali e tante <eccezioni> all'assolutezza del
principio in discussione che il codice Rocco si può sostenere sia
rimasto, in materia, isolato, neppure più seguito dal codice penale
portoghese.
Quest'ultimo,
infatti, mutando recentemente la precedente normativa, ha previsto il c.d.
<errore intellettuale>, nel quale rientra l'errore sul divieto la cui
conoscenza appare ragionevolmente indispensabile perchè
possa aversi coscienza dell'illiceità del fatto.
6. -Va,
infine, ricordato che, come rilevato da recente dottrina, il principio dell'inescusabilità dell'ignoranza della legge penale, concepito
nella sua assolutezza, non trova neppure convincente sistemazione dommatica.
Escluso
che possa prospettarsi l'esistenza d'un <dovere autonomo di conoscenza>
della legge penale (ne mancherebbe, fra l'altro, la relativa sanzione) anche le
tesi della presunzione iuris et
de iure e della <finzione> di conoscenza della legge penale (a parte la
considerazione che le medesime, mentre ritengono essenziale al reato la
coscienza dell'antigiuridicità del comportamento criminoso,
<presumono>, in fatto, ciò che assumono essenziale in teoria)
s'inseriscono in un contesto che parte dall'opposto principio
dell'essenzialità al reato della coscienza dell'illiceità e,
pertanto, della <scusabilità> dell'ignoranza della legge penale.
7. - Prima
d'iniziare il confronto tra l'art. 5 c.p. e la Carta fondamentale, va, ancora,
ricordato che, a seguito dell'entrata in vigore di quest'ultima, lo stesso
articolo e stato oggetto di numerose, pesanti critiche. Partendo da ben note
premesse sistematiche (l'imperatività della norma penale); ricordata la
strumentalizzazione che lo Stato autoritario aveva operato del principio
dell'assoluta irrilevanza dell'ignoranza della legge penale (già nel
1930 tal principio, trasferito dal capitolo dell'imputabilità, nel quale
era inserito dal codice del 1879, a quello dell'obbligatorietà della
legge penale, era divenuto <cardine> del sistema);
ed
affermata la necessità, per la punibilità del reato,
dell'effettiva coscienza, nell'agente, dell'antigiuridicità del fatto;
é stata con forza sottolineata la stridente incompatibilità
dell'art. 5 c.p., qualificato come <incivile>, con la Costituzione.
E' stato,
tuttavia, agevole, sul versante delle premesse sistematiche, contrapporre alla
tesi dell'effettiva imperatività della norma penale, la formula dell'idoneità
della stessa norma a funzionare come comando e, sul versante
dell'illegittimità dell'art. 5 c.p., contrapporre alla richiesta di
totale abrogazione o di dichiarazione d'illegittimità costituzionale
dell'intero articolo l'inesistenza, nella Costituzione, d'un vincolo, per il
legislatore ordinario, di non sanzionare penalmente fatti carenti d'effettiva
coscienza dell'antigiuridicità. Le risposte, indubbiamente corrette, da
una parte hanno, tuttavia, finito col <chiudere> ogni indagine sulla
relazione tra ordinamento giuridico e soggetti, viventi in una determinata
concretezza storica, in una particolare situazione sociale e d'altra parte
hanno precluso, tranne lodevolissime eccezioni, ogni
ulteriore esame della Costituzione, allo scopo di verificare se, in mancanza
del precitato <vincolo> dell'effettiva presenza della coscienza
dell'antigiuridicità, non esistessero altri vincoli, per il legislatore
ordinario, mirati ad escludere l'incriminazione di fatti commessi in carenza di
altre, anche se meno penetranti, relazioni tra soggetto e legge penale.
Sorge,
invero, spontanea la domanda: a che vale richiedere come essenziale requisito subiettivo (minimo) d'imputazione uno specifico rapporto
tra soggetto ed evento, tra soggetto e fatto, quando ogni <preliminare>
esame delle relazioni tra soggetto e legge e, conseguentemente, tra soggetto e
fatto considerato nel suo <integrale> disvalore antigiuridico viene
eluso? E come é possibile risolvere i quesiti attinenti alla c.d. costituzionalizzazione (salve le osservazioni che, in
proposito, saranno prospettate in seguito) del principio di colpevolezza,
intesa quest'ultima come relazione tra soggetto e fatto, quando, non
<rimuovendo> il principio d'assoluta irrilevanza dell'ignoranza della
legge penale, sancito dall'art. 5 c.p., vengono <stroncate>, in radice,
le indagini sulle metodiche d'incriminazione dei fatti e quelle sulla chiarezza
e riconoscibilità dei contenuti delle norme penali nonchè
sulle <certezze> che le norme penali dovrebbero assicurare e, pertanto,
sulle garanzie che, in materia, di libertà d'azione, il soggetto attende
dallo Stato?
8. - Allo
scopo d'un attento approccio all'esegesi dell'art. 27, primo comma, Cost.,
occorre preliminarmente accennare al valore ed alla funzione che il momento subiettivo dell'antigiuridicità penale, il personale
contrasto con la norma penale, assume nel sistema della vigente Costituzione.
Si noti: una parte della dottrina richiede anche un mutamento terminologico,
valido a distinguere la concezione della colpevolezza quale fondamento etico
della responsabilità penale dalla concezione che ne accentua la sua
funzione di limite al potere coercitivo dello Stato. A parte ogni questione
sull'ammissibilità d'un'idea di colpevolezza che limiti senza fondare la
potestà punitiva dello Stato, i richiesti mutamenti terminologici
appaiono necessari ed anche urgenti; e, tuttavia, in questa sede, é
preferibile mantenersi fermi alla tradizionale etichetta <colpevolezza>
sia per ovvii motivi di chiarezza sia per sottolineare, pur nel variare,
storicamente condizionato, delle nozioni dommatiche,
la continuità dell'esigenza costituzionale del rispetto e tutela della
persona alla quale viene attribuito il reato.
Va, a
questo proposito, sottolineato che non e stato sufficientemente posto l'accento
sulla diversità di due accezioni del termine colpevolezza. La prima,
tradizionale, fa riferimento ai requisiti subiettivi
della fattispecie penalmente rilevante (ed eventualmente anche alla valutazione
di tali requisiti ed allarimproverabilità del
soggetto agente); la seconda, fuori dalla sistematica degli elementi del reato,
denota il principio costituzionale, garantista (relativo alla
personalità dell'illecito penale, ai presupposti della
responsabilità penale personale ecc.) in base al quale si pone un limite
alla discrezionalità del legislatore ordinario nell'incriminazione dei
fatti penalmente sanzionabili, nel senso che vengono costituzionalmente
indicati i necessari requisiti subiettivi minimi
d'imputazione senza la previsione dei quali il fatto non può
legittimamente essere sottoposto a pena. Qui si userà il termine
colpevolezza soprattutto in quest'ultimaaccezione
mentre lo stesso termine, all'infuori della prospettiva costituzionale
(nell'impossibilità di ritenere <costituzionalizzata>,
come si preciserà fra breve, una delle tante concezioni della
colpevolezza proposte dalla dottrina) verrà riferito al vigente sistema
ordinario di cui agli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p.: questo sistema
verrà, infatti, posto in raffronto con l'art. 27, primo e terzo comma e
con i fondamentali principi dell'intera Costituzione, al fine di chiarire come
l'art. 5 c.p., incidendo negativamente sul sistema ordinario della colpevolezza
(attraverso l'esclusione d'ogni rilievo della conoscenza della legge penale) fa
si che lo stesso sistema non si riveli adeguato alle direttive costituzionali
in tema di requisiti subiettivi minimi d'imputazione.
Va, a
questo punto, precisato, per quanto, forse, superfluo, che la colpevolezza
costituzionalmente richiesta, come avvertito dalla più recente dottrina
penalistica, non costituisce elemento tale da poter esser, a discrezione del
legislatore, condizionato, scambiato, sostituito con altri o paradossalmente
eliminato.
Limpidamente
testimonia ciò la stessa recente, particolare accentuazione della
funzione di garanzia (limite al potere statale di punire) che le moderne
concezioni sulla pena attribuiscono alla colpevolezza. Sia nella concezione che
considera quest'ultima <fondamento>, titolo giustificativo
dell'intervento punitivo dello Stato sia nella concezione che ne accentua
particolarmente la sua funzione di limite allo stesso intervento (garanzia del
singolo e del funzionamento del sistema) inalterato permane il <valore>
della colpevolezza, la sua insostituibilità.
Per
precisare ancor meglio l'indispensabilità della colpevolezza quale
attuazione, nel sistema ordinario, delle direttive contenute nel sistema
costituzionale vale ricordare non solo che tal sistema pone al vertice della
scala dei valori la persona umana (che non può, dunque, neppure a fini
di prevenzione generale, essere strumentalizzata) ma anche che lo stesso
sistema, allo scopo d'attuare compiutamente la funzione di garanzia assolta dal
principio di legalità, ritiene indispensabile fondare la responsabilità
penale su <congrui> elementi subiettivi. La
strutturale <ambiguità> della tecnica penalistica conduce il
diritto penale ad essere insieme titolo idoneo d'intervento contro la
criminalità e garanzia dei c.d. destinatari della legge penale. Nelle
prescrizioni tassative del codice il soggetto deve poter trovare, in ogni
momento, cosa gli é lecito e cosa gli é vietato: ed a questo fine
sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di
comportamento. Il principio di colpevolezza e, pertanto, indispensabile,
appunto anche per garantire al privato la certezza di libere scelte d'azione:
per garantirgli, cioé, che sarà
chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per
comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate;
e, comunque, mai per comportamenti realizzati nella <non colpevole> e,
pertanto, inevitabile ignoranza del precetto.
A nulla
varrebbe, infatti, in sede penale, garantire la riserva di legge statale, la
tassatività delle leggi ecc. quando il soggetto fosse chiamato a
rispondere di fatti che non può, comunque, impedire od in relazione ai
quali non e in grado, senza la benchè minima
sua colpa, di ravvisare il dovere d'evitarli nascente dal precetto. Il
principio di colpevolezza, in questo senso, più che completare,
costituisce il secondo aspetto del principio, garantistico, di legalità,
vigente in ogni Stato di diritto.
9.-Le
premesse precisazioni indicano la <chiave di lettura>, il quadro
garantistico entro il quale inserire l'esegesi dell'art. 27, primo comma, Cost.
Va,
intanto, notato che l'art. 27 Cost. non può esser adeguatamente compreso
ove lo si legga in maniera, per così dire, spezzettata, senza
collegamenti <interni>. I commi primo e terzo vanno letti in stretto
collegamento: essi, infatti, pur enunciando distinti principi, costituiscono
un'unitaria presa di posizione in relazione ai requisiti subiettivi
minimi che il reato deve possedere perchè
abbiano significato gli scopi di politica criminale enunciati, particolarmente,
nel terzo comma. Delle due l'una: o il primo é in palese contraddizione
con il terzo comma dell'art. 27 Cost. oppure é, appunto, quest'ultimo
comma che svela, ove ve ne fosse bisogno, l'esatto significato e la precisa
portata che il principio della responsabilità penale personale assume
nella Costituzione. Sicchè, quand'anche la
lettera del primo comma dell'art. 27 desse luogo a dubbi interpretativi, essi
sarebbero certamente fugati da un'attenta considerazione delle finalità
della pena, di cui al terzo comma dello stesso articolo.
10. -
Nell'esame del merito dell'interpretazione dell'art. 27, primo comma, Cost.,
vanno approfonditi i dibattiti svoltisi durante i lavori preparatori.
E'
anzitutto da sottolineare che la motivazione politica della norma in esame non
risulta essere stata l'unico argomento dei dibattiti svoltisi, nella seduta del
18 settembre 1946, presso la 1a sottocommissione (della <Commissione per la
Costituzione>) anzi, tale motivazione venne introdotta, come opinione
personale del presidente della stessa sottocommissione, quasi alla fine della
seduta ed allo scopo di <mantenere> la norma (che costituiva il capoverso
dell'art. 5 del Progetto di Costituzione) contro le richieste della sua
soppressione. Gli argomenti trattati in precedenza risultano essere stati vari,
tutti, comunque, tendenti ad escludere che da una, sia pur erronea,
interpretazione della formula normativa potesse desumersi la legittimità
di responsabilità penali senza partecipazione subiettiva.
Alcuni
Costituenti mostrarono, con felice intuizione, davvero premonitrice, forti
preoccupazioni sulla possibilità di equivoci nell'interpretazione della
formula <La responsabilità penale é personale> e ne
chiesero la soppressione, temendo si potesse ritenere <configurabile> una
responsabilità penale senza elementosubiettivo.
La terminologia é spesso imprecisa ma la volontà certa.
Si inizio,
da parte di alcuni Costituenti, rilevando che vi sono casi in cui e
<discutibile se si tratti di responsabilità personale o non si tratti
di responsabilità penale anche per fatto altrui>. Si prosegui
sottolineando che non si devono creare equivoci, anche <avuto riguardo agli
artt. 1151, 1152 e 1153 del vecchio Codice civile, articoli che non trovano la
loro corrispondenza nel codice fascista>.
Si
sostenne, da altro Costituente, che la formula <La responsabilità
penale é personale> fosse da mantenersi, essendo essa affermazione di
libertà e civiltà, limpidamente aggiungendo: <Si risponde per
fatto proprio e si risponde attraverso ogni partecipazione personale al fatto
proprio. Questo e il principio del diritto moderno, che trova la sua
espressione nel principio della consapevolezza che deve accompagnare il fatto
materiale. Parlare di responsabilità personale significa richiamarsi ad
un principio che domina nell'odierno pensiero della scienza giuridica>.
Intorno ai
<dubbi> (ripetiamo, non sulla necessita dell'elemento subiettivo
per la responsabilità penale ma sulla possibilità che,
interpretando erroneamente la formula, si potesse ritenere ammissibile una
responsabilità senza elemento subiettivo) si
chiesero <chiarimenti> sui <fatti penali commessi per ordine
altrui> e, dando all'espressione <fatto altrui> un significato che
includeva nel termine <fatto> anche l'elemento subiettivo,
si osservò che quest'ultimo manca, talvolta, in chi pur consuma
materialmente il reato e che, appunto per tale mancanza, non può esser
chiamato a rispondere penalmente. Se chi opera materialmente, s'affermo
esplicitamente, agisce per fatto altrui, per esempio per l'esecuzione d'un
ordine, la responsabilità non é più dell'esecutore
dell'ordine, il quale ha consumato il reato ma di chi ha dato l'ordine. Non
é, dunque, responsabile <chi ha eseguito un ordine legittimo
dell'autorità> perchè manca di
elemento subiettivoed é responsabile chi ha
commesso il fatto (altrui rispetto all'esecutore) perchè
nel fatto é incluso il predetto elemento.
Si
replicò, puntualmente, da parte di autorevoli Costituenti, affermando
che <colui che ha commesso un atto delittuoso risponde di persona propria se
si trovava nella condizione di poter disobbedire>: <altrimenti
risponderà colui che ha dato l'ordine e risponderà in persona
propria per aver prodotto il fatto delittuoso stesso>. E si aggiunse che
colui che esegue l'ordine <non risponde penalmente perchè
da lui non si poteva pretendere che agisse diversamente>.
Vi fu,
poi, chi osservo che la responsabilità personale non é un
principio moderno ma un principio che, già nel 1500 o 1600, il diritto
canonico, riportando il delitto ad un peccato dell'anima, aveva reso effettivo;
e chiese la soppressione della formula in esame da un canto perchè
scontata e dall'altro perchè, ritornando sul
principio, si potevano provocare confusioni in tema di soggetti che sono in
colpa (e per questo devono penalmente rispondere) ma le cui azioni non sono
causa diretta o prossima dell'evento (<non sono direttamente colpevoli>).
Tutti i
Costituenti, dunque, almeno fino a questo momento del dibattito, sostennero che
la responsabilità penale personale implicava necessariamente, oltre
all'elemento materiale, un requisito subiettivo e,
per alcuni Costituenti, l'esistenza, in particolare, della possibilità
di muovere rimprovero all'agente, potendo da lui pretendersi un comportamento
diverso.
Esaminando
gli ulteriori interventi ci s'accorge che, soltanto quasi alla fine della
discussione, mirandosi a respingere le richieste di soppressione della norma in
esame, si sposto il dibattito sulle motivazioni politiche della stessa norma
sostenendo che non si doveva dimenticare che, in occasione di attentati alla
vita diMussolini, si erano perseguiti i familiari
dell'attentatore od i componenti dei circoli politici a cui era affiliata la
persona che aveva consumato l'attentato e che, pertanto, la norma andava
mantenuta.
Da
ciò si desume da un canto che il termine fatto (altrui) venne usato, da
chi sosteneva la motivazione politica dell'attuale primo comma dell'art. 27
Cost., come comprensivo dell'elemento subiettivo
(attentare alla vita di Mussolini e agire colpevolmente) e dall'altro che tale
motivazione tendeva (di chiarata per l'avvenire l'illegittimità
costituzionale di sanzioni collettive) a non far ricadere su innocenti
<colpe> altrui. L'intervento successivo a quello del presidente della
prima sottocommissione é oltremodo eloquente in proposito:
<...Proprio in questi ultimi tempi si sono viste delle persone pagare con la
vita colpe che non avevano assolutamente commesso>.
La
motivazione politica della norma é, dunque, quella d'impedire che
<colpe altrui> ricadano su chi é estraneo alle medesime.
Nè va
dimenticato che, nella seduta successiva (19 settembre 1946) della stessa prima
sottocommissione, allorchè si tratto di
sostituire il termine <colpevole> con quello di <reo>, dapprima si
suggerì d'usare la parola <condannato> ma, successivamente, di
fronte alla contestazione sull'inusualità del
termine <condannato> fuori dalla sede processuale, si torno, per un
momento, alla parola <colpevole>, dichiarandosi espressamente: <Questa
parola é più chiara, specialmente quando si parla di rieducazione
del colpevole, perchè il termine di
rieducazione presuppone una colpa>.
Ma la
conferma definitiva per la quale i Costituenti mirarono, con la norma di cui al
primo comma dell'art. 27 Cost., ad escludere la responsabilità penale
senza elemento subiettivo si ha ricordando che alcuni
Costituenti presentarono, questa volta in Assemblea (seduta antimeridiana del
15 aprile 1947) un emendamento alla norma in esame, sostitutivo della parola
<personale> con l'espressione <solo per fatto personale> e che,
nella seduta del 26 marzo 1947 dell'Assemblea costituente, si motivo
l'emendamento, fra l'altro, affermando che si doveva armonizzare la responsabilità
penale per fatto proprio con la responsabilità del direttore di giornali
per reati di stampa, <cosi che la presunzione assoluta di colpa iuris et de iure si trasformi in
presunzione iuris tantum>. E nella seduta
pomeridiana del 27 marzo 1947 della stessa Assemblea, si motivò ancora
una volta, da parte d'altro autorevole presentatore, il citato emendamento,
dichiarandosi: <... E qui conviene stabilire che la responsabilità
penale é sempre per fatto proprio mai per fatto altrui; così delimitandosi
quell'arbitraria inaccettabile configurazione di responsabilità
presuntiva in materia giornalistica>. La responsabilità penale sorge,
dunque, solo nell'effettiva presenza dell'elemento subiettivo:
non si può mai dare per presunta la colpa.
Se si tien presente che il caso della responsabilità
penale del direttore di giornali per reati commessi a mezzo stampa era
considerato, nel 1946-47, dall'assoluta maggioranza della dottrina, classico
caso di responsabilità penale senza elemento subiettivo
di collegamento con l'evento, non si può non dare il giusto rilievo
all'<assicurazione> che il Presidente della prima sottocommissione, nella
seduta antimeridiana del 15 aprile 1947 dell'Assemblea, diede ai presentatori
del citato emendamento, nel pregarli di ritirarlo, sull'inesistenza delle
preoccupazioni affacciate, data la formulazione proposta dalla Commissione.
In
conclusione, va confermato che, per quanto si usino le espressioni fatto
proprio e fatto altrui, che possono indurre in errore, in realtà, in
tutti i lavori preparatori relativi al primo comma dell'art. 27 Cost., i
Costituenti mirarono, sul piano dei requisiti d'imputazione del reato, ad
escludere che si considerassero costituzionalmente legittime ipotesi carenti di
elementi subiettivi di collegamento con l'evento e,
sul piano politico, a non far ricadere su <estranei> <colpe
altrui>. E mai, in ogni caso, venne usato il termine fatto come comprensivo
del solo elemento materiale, dell'azione cosciente e volontaria seguita dal
solo nesso oggettivo di causalità: anzi, sempre venne usato lo stesso
termine come comprensivo anche d'un minimo di requisiti subiettivi,
oltre a quelli relativi alla coscienza e volontà dell'azione.
11. - Ma
il significato del primo comma dell'art. 27 Cost. va chiarito, anche a parte i
citati lavori preparatori, nei suoi particolari rapporti con il terzo comma
dello stesso articolo e con gli artt. 2, 3, 25, secondo comma, 73, terzo comma,
Cost. Anzitutto, é significativa la <lettera> del primo comma
dell'art. 27 Cost. Non si legge, infatti, in esso: la responsabilità
penale é <per fatto proprio> ma la responsabilità penale
é <personale>. Sicchè, chi
tendesse ad esaminare lo stesso comma sotto il profilo, per quanto, in sede
penale, superato, della distinzione tra fatto proprio ed altrui (salvo a
precisare l'esatta accezione, in materia, del termine <fatto>) dovrebbe
almeno leggere la norma in esame come equivalente a: <La
responsabilità penale é per personale fatto proprio>.
Ma
é l'interpretazione sistematica del primo comma dell'art. 27 Cost. che
ne svela l'ampia portata.
Collegando
il primo al terzo comma dell'art. 27 Cost. agevolmente si scorge che, comunque
s'intenda la funzione rieducativa di quest'ultima, essa postula almeno la colpa
dell'agente in relazione agli elementi piu
significativi della fattispecie tipica. Non avrebbe senso la
<rieducazione> di chi, non essendo almeno <in colpa> (rispetto al
fatto) non ha, certo, <bisogno> di essere <rieducato>.
Soltanto
quando alla pena venisse assegnata esclusivamente una funzione deterrente (ma
ciò é sicuramente da escludersi, nel nostro sistema
costituzionale, data la grave strumentalizzazione che subirebbe la persona
umana) potrebbe configurarsi come legittima una responsabilità penale
per fatti non riconducibili (oltre a quanto si dirà in tema d'ignoranza
inevitabile della legge penale) alla predetta colpa dell'agente, nella
prevedibilità ed evitabilità dell'evento.
12. - Non
é dato qui scendere ad ulteriori precisazioni: va soltanto chiarito che
quanto sostenuto é in pieno accordo con la tendenza mostrata dalle
decisioni assunte da questa Corte allorchè
é stata chiamata a decidere sulla costituzionalità di ipotesi
criminose che si assumeva non contenessero requisiti subiettivisufficienti
a realizzare il dettato dell'art. 27 Cost.
Qui quella
tendenza si completa e conclude.
A parte un
momento le affermazioni <di principio> contenute nelle citate decisioni,
nessuno può disconoscere che, sempre, le sentenze, in materia, hanno
cercato di ravvisare, nelle ipotesi concrete sottoposte all'esame della Corte,
un qualche <requisito psichico> idoneo a renderle immuni da censure
d'illegittimità costituzionale ex art. 27 Cost. Le stesse decisioni, pur
muovendosi nell'ambito dell'alternativa tra fatto proprio ed altrui, non hanno
mancato di ricercare spesso un qualche coefficiente soggettivo (anche se
limitato) sul presupposto che il <fatto proprio> debba includere anche
simile coefficiente per divenire <compiutamente proprio> dell'agente:
cosi, ad esempio, nella sentenza n. 54 del
1964, nella quale si afferma che il reato in esame <presuppone
nell'agente la volontà di svolgere quell'attività che va sotto il
nome di ricerca archeologica e che la legge interdice ai soggetti non
legittimati dal necessario provvedimento amministrativo. Il fatto punito
é perciò sicuramente un fatto proprio del soggetto cui la
sanzione penale viene comminata>: si noti che l'attività indicata, in
mancanza d'evento naturalistico, integra l'intero fatto, oggettivo che, in
conseguenza del riferimento ad esso della volontà dell'autore, <perciò
sicuramente> costituisce <fatto proprio> dell'agente; così
nella sentenza 17 febbraio 1971, n. 20 ove, a proposito dell'art. 539 c.p., si
rileva come, pur in presenza dell'errore sull'età dell'offeso, <la
condotta del delitto di violenza carnale, essendo posta in essere
volontariamente (e si badi: non esistendo, nell'ipotesi esaminata, evento
naturalistico, tal condotta esaurisce il fatto, oggettivamente considerato, al
quale va riferita la volontarietà) é con certezza riferibile
all'autore come <fatto suo proprio>; e così ancora, a tacere di
altre decisioni, in quella del 17 febbraio 1971, n. 2l.
Ed anche a
proposito delle dichiarazioni <di principio> contenute nelle citate
sentenze va sottolineato che, se si deve qui confermare che il primo comma
dell'art. 27 Cost. contiene un tassativo divieto della responsabilità
<per fatto altrui, va comunque precisato che ciò deriva dall'altro,
ben più <civile> principio, di non far ricadere su di un soggetto,
appunto estraneo al <fatto altrui>, conseguenze penali di <colpe> a
lui non ascrivibili. Come e da confermare che si risponde penalmente soltanto
per il fatto proprio, purchè si precisi che
per <fatto proprio> non s'intende il fatto collegato al soggetto,
all'azione dell'autore, dal mero nesso di causalità materiale (da notare
che, anzi, nella fattispecie plurisoggettiva il fatto
comune diviene anche <proprio> del singolo compartecipe in base al solo
<favorire> l'impresa comune) ma anche, e soprattutto, dal momento subiettivo, costituito, in presenza della
prevedibilità ed evitabilità del risultato vietato, almeno dalla
<colpa> in senso stretto.
Ed anche a
proposito dell'esclusione, nel primo comma dell'art. 27 Cost., del tassativo
divieto di responsabilità oggettiva va precisato che (ricordata
l'incertezza dottrinale in ordine alle accezioni da attribuire alla predetta
espressione) se nelle ipotesi di responsabilità oggettiva vengono
comprese tutte quelle nelle quali anche un solo, magari accidentale, elemento
del fatto, a differenza di altri elementi, non e coperto dal dolo o dalla colpa
dell'agente (c.d. responsabilità oggettiva spuria od impropria) si deve
anche qui ribadire che il primo comma dell'art. 27 Cost. non contiene un
tassativo divieto di <responsabilità oggettiva>.
Diversamente
va posto il problema, a seguito di quanto ora sostenuto, per la c.d.
responsabilità oggettiva pura o propria. Si noti che, quasi sempre e in
relazione al complessivo, ultimo risultato vietato che va posto il problema
della violazione delle regole <preventive> che, appunto in quanto
collegate al medesimo, consentono di riscontrare nell'agente la colpa per il
fatto realizzato.
Ma, ove
non si ritenga di restringere la c.d. responsabilità oggettiva
<pura> alle sole ipotesi nelle quali il risultato ultimo vietato dal
legislatore non é sorretto da alcun coefficiente subiettivo,
va, di volta in volta, a proposito delle diverse ipotesi criminose, stabilito
quali sono gli elementi più significativi della fattispecie che non
possono non essere <coperti> almeno dalla colpa dell'agente perchè sia rispettato da parte del disposto di cui
all'art. 27, primo comma, Cost. relativa al rapporto psichico tra soggetto e
fatto.
E non va,
infine, dimenticata la sentenza n. 3 del
1956, nella quale limpidamente si afferma: <Ma appunto il direttore del
periodico risponde per fatto proprio, per lo meno perchè
tra la sua omissione e l'evento c'é un nesso di causalità
materiale, al quale s'accompagna sempre un certo nesso psichico (art. 40 c.p.)
sufficiente, come é opinione non contrastata, a conferire alla
responsabilità il connotato della personalità>. A parte ogni
rilievo, peraltro già sottolineato, in ordine all'alternativa tra fatto
proprio ed altrui, é altamente indicativa l'affermazione per la quale al
nesso di causalità materiale s'accompagna <sempre> un certo nesso
psichico.
13. - La
verità é che non va <continuata> la polemica sulla costituzionalizzazione, o meno, del principio di
colpevolezza, di cui agli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p., quasi che, malgrado
l'evidente inversione metodologica, sia consentito interpretare le norme
costituzionali alla luce delle norme ordinarie (qual é, peraltro, tra le
tante concettualizzazioni scientifiche, la nozione di colpevolezza che dovrebbe
essere costituzionalizzata?) ma, chiariti i contenuti
delle norme costituzionali che determinano i requisiti subiettivi
<minimi> d'imputazione, a prescindere un momento dal sistema ordinario,
desunto dagli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p., occorre verificare, di volta in
volta, se le singole ipotesi criminose di parte speciale (collegate con le
disposizioni di parte generale) siano o meno conformi, quanto ad elementi subiettivi, ai requisiti minimi richiesti dalle
autonomamente interpretate norme costituzionali.
La stessa
possibilità (che si chiarirà, fra poco, essere essenziale per il
giudizio di responsabilità penale) di muovere al l'autore un
<rimprovero> per la commissione dell'illecito non equivale ad
accoglimento da parte della Costituzione (a costituzionalizzazione)
d'una delle molteplici concezioni <normative> della colpevolezza
prospettate in dottrina bensì costituisce autonomo risultato, svincolato
da ogni premessa concettualistica, dell'interpretazione dei commi primo e terzo
dell'art. 27 Cost., anche se, per accidens, tale
<rimprovero> venga a coincidere con una delle nozioni di colpevolezza
(normativa) prospettate in dottrina o desunte da un determinato sistema
ordinario.
A
conclusione del primo approccio interpretativo del disposto di cui al primo
comma dell'art. 27 Cost., deve, pertanto, affermarsi che il fatto imputato, perchè sia legittimamente punibile, deve
necessariamente includere almeno la colpa dell'agente in relazione agli
elementi più significativi della fattispecie tipica. Il fatto (punibile,
<proprio> dell'agente) va, dunque, nella materia che si sta trattando,
costituzionalmente inteso in una larga, anche subiettivamente
caratterizzata accezione e non in quella, riduttiva, d'insieme di elementi
oggettivi. La <tipicità> (oggettiva e soggettiva) del fatto
(ovviamente, di regola, vengono richiesti nelle diverse ipotesi criminose,
ulteriori elementi subiettivi, come il dolo ecc.)
costituisce, cosi, primo, necessario <presupposto> della
punibilità ed é distinta dalla valutazione e rimproverabilità
del fatto stesso.
14. - Dal
collegamento tra il primo e terzo comma dell'art. 27 Cost. risulta,
altresì, insieme con la necessaria < rimproverabilità>
della personale violazione normativa, l'illegittimità costituzionale
della punizione di fatti che non risultino essere espressione di consapevole,
rimproverabile contrasto con i (od indifferenza ai) valori della convivenza,
espressi dalle norme penali. La piena, particolare compenetrazione tra fatto e
persona implica che siano sottoposti a pena soltanto quegli episodi che,
appunto personalmente, esprimano il predetto, riprovevole contrasto od
indifferenza. Il ristabilimento dei valori sociali <dispregiati> e
l'opera rieducatrice ed ammonitrice sul reo hanno
senso soltanto sulla base della dimostrata <soggettiva
antigiuridicità> del fatto.
Discende
che, anche quando non si ritenesse la <possibilità di conoscenza
della legge penale> requisito autonomo d'imputazione costituzionalmente
richiesto, ugualmente si dovrebbe giungere alla conclusione che, tutte le volte
in cui entra in gioco il dovere d'osservare le leggi penali (che, per i
cittadini, e specificazione di quello d'osservare le leggi della Repubblica,
sancito dal primo comma dell'art. 54 Cost.) la violazione di tal dovere,
implicita nella commissione del fatto di reato, non può certamente
divenire rilevante, e dar luogo alla pena, in una pura dimensione obiettiva od
in una <subiettiva>, limitata alla colpa del
fatto. Trattandosi, appunto, dell'applicazione d'una pena, da qualunque teoria
s'intenda muovere (eccezion fatta per quella della prevenzione generale in
chiave di pura deterrenza, che, peraltro, come s'é già avvertito,
non può considerarsi legittimamente utilizzabile per ascrivere una
responsabilità penale) e dovendo la violazione del precitato dovere
essere <rimproverabile>, l'impossibilita di conoscenza del precetto (e,
pertanto, dell'illiceità del fatto) non ascrivibile alla volontà
dell'interessato deve necessariamente escludere la punibilità. Il
vigente sistema costituzionale non consente che l'obbligo di non ledere i
valori penalmente garantiti sorga e si violi (attraverso la commissione del
fatto di reato) senza alcun riferimento, se non all'effettiva conoscenza del
contenuto dell'obbligo stesso, almeno alla <possibilità> della sua
conoscenza. Se l'obbligo giuridico si distingue dalla <soggezione> perchè, a differenza di quest'ultima, richiama la
partecipazione volitiva del singolo alla sua realizzazione, far sorgere
l'obbligo d'osservanza delle leggi (delle <singole>, particolari leggi)
penali, in testa ad un determinato soggetto, senza la benchè
minima possibilità, da parte del soggetto stesso, di conoscerne il
contenuto e subordinare la sua violazione soltanto ai requisiti <subiettivi> attinenti al fatto di reato, equivale da una
parte a ridurre notevolmente valore e significato di questi ultimi e, d'altra
parte, a strumentalizzare la persona umana a fini di pura deterrenza.
Quanto ora
precisato già basterebbe a far ritenere l'art. 5 c.p. incostituzionale
nella parte in cui impedisce ogni esame della rimproverabilità
e, pertanto, scusabilità dell'ignoranza della (od errore sulla) legge
penale. Anche quando non si sia dell'avviso che l'art. 5 c.p. operi nell'ambito
della colpevolezza e lo si agganci, come nel codice Rocco,
all'obbligatorietà della legge penale, ugualmente lo stesso articolo,
per le ragioni innanzi indicate, si dovrebbe ritenere contrastante con l'art.
27, primo e terzo comma, Cost., nella parte in cui esclude ogni rilevanza
all'ignoranza od errore sul precetto dovute all'impossibilità (non
rimproverabile) di conoscerlo.
15. -Ma il
modo più appagante per convalidare tutto ciò é quello
intrapreso, in tempi recenti, dalla dottrina che ritiene la <possibilità
di conoscere la norma penale> autonomo presupposto necessario d'ogni forma
d'imputazione e che estende la sfera d'operatività di tale
<presupposto> a tutte le fattispecie penalmente rilevanti, comprese le
dolose. Considerando il combinato disposto del primo e terzo comma dell'art. 27
Cost. nel quadro delle fondamentali direttive del sistema costituzionale
desunte soprattutto dagli artt. 2, 3, 25, secondo comma, 73, terzo comma Cost.
ecc., alla <possibilità di conoscere la norma penale> va, infatti,
attribuito un autonomo ruolo nella determinazione dei requisiti subiettivi d'imputazione costituzionalmente richiesti: tale
<possibilità> é, infatti, presupposto della rimproverabilità del fatto, inteso quest'ultimo come
comprensivo anche degli elementi subiettivi attinenti
al fatto di reato.
16. -
Basilari norme costituzionali relative alla materia penale, mentre tendono a
garantire al cittadino, ed in genere ai c.d. destinatari delle norme penali, la
sicurezza giuridica di non esser puniti ove vengano realizzati comportamenti
penalmente irrilevanti, svelano la funzione d'orientamento culturale e di
determinazione psicologica operata dalle leggi penali. Non é, infatti,
senza significato che il principio di legalità, inteso come <riserva
di legge statale> sia espressamente costituzionalizzato,
in sede penale, dall'art. 25, secondo comma, Cost.: trattandosi
dell'applicazione delle più gravi sanzioni giuridiche, la Costituzione
intende particolarmente garantire i soggetti attraverso la praevia
lex scripta. I principi di
tassatività e d'irretroattività delle norme penali incriminatrici, nel l'aggiungere altri contenuti al sistema
delle fonti delle norme penali, evidenziano che il legislatore costituzionale
intende garantire i cittadini, attraverso la <possibilità> di
conoscenza delle stesse norme, la sicurezza giuridica delle consentite, libere
scelte d'azione.
E tutto
ciò si chiarisce ancor più (come é stato sottolineato in
dottrina) ove si ricordi che, nel quadro dello <Stato di diritto>, anche
il principio di riserva di legge penale e gli altri precedentemente indicati,
sono espressione della contropartita (d'origine contrattualistica) che lo Stato
offre in cambio, appunto, dell'obbligatorietà della legge penale: lo
Stato assicura i cittadini che non li punirà senza preventivamente
informarli su ciò che é vietato o comandato ma richiede dai
singoli l'adempimento di particolari doveri (sui quali ci si soffermerà
fra breve) mirati alla realizzazione dei precetti <principali> relativi
ai fatti penalmente rilevanti.
17. - Va
qui, subito, precisato che le garanzie di cui agli artt. 73, terzo comma e 25,
secondo comma, Cost., per loro natura formali, vanno svelate nelle loro
implicazioni: queste comportano il contemporaneo adempimento da parte dello
Stato di altri doveri costituzionali: ed in prima, di quelli attinenti alla
formulazione, struttura e contenuti delle norme penali. Queste ultime possono
essere conosciute solo allorchè si rendano
<riconoscibili>. Il principio di <riconoscibilità> dei
contenuti delle norme penali, implicato dagli artt. 73, terzo comma e 25,
secondo comma, Cost., rinvia, ad es., alla necessita che il diritto penale
costituisca davvero la extrema ratio
di tutela della società, sia costituito da norme non numerose, eccessive
rispetto ai fini di tutela, chiaramente formulate, dirette alla tutela di
valori almeno di <rilievo costituzionale> e tali da esser percepite anche
in funzione di norme <extrapenali>, di civiltà, effettivamente
vigenti nell'ambiente sociale nel quale le norme penali sono destinate ad
operare.
L'osservazione
dell' <istante> in cui si viola la legge penale nell'ignoranza della
medesima non può far dimenticare, come s'é avvertito all'inizio,
che, <prima> del rapporto tra soggetto e <singola> legge penale,
esiste un ben definito rapporto tra ordinamento e soggetto <obbligato> a
non violare le norme, dal quale ultimo rapporto il primo e necessariamente
condizionato. E stato osservato e ribadito, esattamente, che un precetto penale
ha valore, come regolatore della condotta, non per quello che e ma per quel che
appare ai consociati. E la conformità dell'apparenza all'effettivo
contenuto della norma penale dev'essere assicurata
dallo Stato che é tenuto a favorire, al massimo, la
riconoscibilità sociale dell'effettivo contenuto precettivo delle norme.
Oltre alle
condizioni relative al rapporto soggetto-fatto, esiste, pertanto, un altro
<presupposto> della responsabilità penale, costituito, appunto,
dalla <riconoscibilità> dell'effettivo contenuto precettivo della
norma.
L'oggettiva
impossibilita di conoscenza del precetto, nella quale venga a trovarsi
<chiunque> (non soltanto il singolo soggetto, particolarmente
considerato) non può gravare sul cittadino e costituisce, dunque, un
altro limite della personale responsabilità penale.
18.-Ma il problema
centrale, per il nostro tema, attiene ai doveri <strumentali> di
conoscenza delle leggi, incombenti sui c.d. destinatari dei precetti penali e,
conseguentemente, ai limiti dei predetti doveri.
Il
passaggio dall'oggettiva possibilità di conoscenza delle leggi penali,
assicurata dallo Stato all'effettiva, concreta conoscenza delle leggi stesse
avviene attraverso la <mediazione>, ovviamente insostituibile,
dell'attività conoscitiva dei singoli soggetti.
Supposta
esistente, in fatto, l'oggettiva possibilità di conoscenza d'una
particolare legge penale, i soggetti privati, divenendo diretti destinatari
dell'obbligo (principale) d'adempimento del precetto oggettivamente
conoscibile, devono operare la predetta, insostituibile mediazione. A questo fine
incombono sul privato, preliminarmente, strumentali, specifici doveri
d'informazione e conoscenza: ed é a causa del non adempimento di tali
doveri che é costituzionalmente consentito chiamare a rispondere anche
chi ignora la legge penale. Gli indicati doveri d'informazione, di conoscenza
ecc. costituiscono diretta esplicazione dei doveri di solidarietà
sociale, di cui all 'art. 2 Cost. La Costituzione
richiede dai singoli soggetti la massima, costante tensione ai fini del
rispetto degli interessi dell'<altrui>) persona umana: ed e per la
violazione di questo impegno di solidarietà sociale che la stessa
Costituzione chiama a rispondere penalmente anche chi lede tali interessi non
conoscendone positivamente la tutela giuridica.
Posto,
dunque, che lo Stato adempia ai suoi doveri, che esista, cioé,
per l'agente l'oggettiva <possibilità> di conoscere le leggi
penali, residuano, tuttavia, ulteriori problemi. L'assoluta,
<illuministica> certezza della legge sempre più si dimostra assai
vicina al mito: la più certa delle leggi ha bisogno di <letture>
ed interpretazioni sistematiche che (dato il rapidissimo succedersi di
<entrate in vigore> di nuove leggi e di abrogazioni, espresse o tacite,
di antiche disposizioni) rinviano, attraverso la mediazione dei c.d.
destinatari della legge, ad ulteriori <seconde> mediazioni. La completa,
in tutte le sue forme, sicura interpretazione delle leggi penali ha, oggi,
spesso bisogno di seconde, ulteriori mediazioni: quelle ad es. di tecnici,
quanto più possibile qualificati, di organi dello Stato (soprattutto di
quelli istituzionalmente destinati ad applicare le sanzioni per le violazioni
delle norme, ecc.).
Specifici,
particolari doveri, nei destinatari delle leggi penali (di richiesta e
controllo delle informazioni ricevute, ecc.) discendono da un sistema di norme
.strumentali>, la violazione delle quali già denota quanto meno una
<trascuratezza> nei confronti dei diritti altrui, delle persone umane e,
conclusivamente, dell'ordinamento tutto.
D'altra
parte, chi, invece, attenendosi scrupolosamente alle <richieste>
preventive dell'ordinamento, agli obblighi di solidarietà sociale di cui
all'art. 2 Cost., adempia a tutti i predetti doveri, strumentali, nella specie
prevedibili e ciò nonostante venga a trovarsi in stato d'ignoranza della
legge penale, non può esser trattato allo stesso modo di chi
deliberatamente o per trascuratezza violi gli stessi doveri. Come é
stato rilevato, discende dall'ideologia contrattualistica l'assunzione da parte
dello Stato dell'obbligo di non punire senza preventivamente informare i
cittadini su che cosa é vietato o comandato ma da tale ideologia
discende anche la richiesta, in contropartita, che i singoli s'informino sulle
leggi, si rendano attivi per conoscerle, prima d'agire. La violazione del
divieto di commettere reati, avvenuta nell'ignoranza delle legge penale,
può, pertanto, dimostrare che l'agente non ha prestato alle leggi dello
Stato tutta l'attenzione <dovuta>. Ma se non v'é stata alcuna
violazione di quest'ultima, se il cittadino, nei limiti possibili, si e
dimostrato ligio al dovere (ex art. 54, primo comma Cost.) e, ciò
malgrado, continua ad ignorare la legge, deve concludersi che la sua ignoranza
é <inevitabile> e, pertanto, scusabile.
Non
esiste, é vero, un <autonomo> obbligo di conoscenza delle singole
leggi penali; non può disconoscersi, tuttavia, l'esistenza in testa ai
c.d. destinatari dei precetti <principali>, nei confronti di tutto
l'ordinamento, di doveri <strumentali>, d'attenzione, prudenza ecc.
(simili a quelli che caratterizzano le fattispecie colpose) nel muoversi in
campi prevedibilmente lesivi di <interessi altrui>; doveri già
incombenti prima della violazione delle singole norme penali, mirati,
attraverso il loro adempimento e, conseguentemente, attraverso la raggiunta
conoscenza delle leggi, a prevenire (appunto inconsapevoli) violazioni delle
medesime. Inadempiuti tali doveri, l'ignoranza della legge risulta
inescusabile, evitabile.
Adempiuti
ai medesimi la stessa ignoranza, divenuta inevitabile e, pertanto, scusabile,
esclude, la rimproverabilità e, pertanto, la
responsabilità penale.
19.
-L'effettiva possibilità di conoscere la legge penale é, dunque,
ulteriore requisito subiettivo minimo d'imputazione,
che si ricava dall'intero sistema costituzionale ed in particolare dagli artt. 2,
3, primo e secondo comma, 73, terzo comma e 25, secondo comma, Cost. Tale
requisito viene ad integrare e completare quelli attinenti alle relazioni
psichiche tra soggetto e fatto e consente la valutazione e, pertanto, la rimproverabilità del fatto complessivamente
considerato.
Non si
creda, peraltro, che, ricavandosi il requisito della <possibilità>
di conoscere la legge penale> dall'intero sistema costituzionale (ed in
particolare dai precitati articoli) esso sia estraneo all'art. 27, primo comma,
Cost., quasi che quest'ultimo comma si riferisca soltanto alle relazioni
psichiche tra soggetto e fatto, e, in particolare, alla violazione, nelle
ipotesi di colpa in senso stretto, delle norme preventive che caratterizzano la
colpa oltre, se mai, alla <rimproverabilità>
dell'autore del reato. Vero é che l'art. 27, primo comma, Cost.,
dichiarando che la responsabilità penale e personale, non soltanto
presuppone la <personalità> dell'illecito penale (la pena, appunto
<in virtù> della <personalità> della responsabilità
penale, va subita dallo stesso soggetto al quale é personalmente
imputato il reato) ma compendia tutti i requisiti subiettivi
minimi d'imputazione.
Il comma
in discussione, interpretato in relazione al terzo comma dello stesso articolo
ed in riferimento agli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 73, terzo comma e 25,
secondo comma, Cost., svela non soltanto l'essenzialità della colpa
dell'agente rispetto agli elementi più significativi della fattispecie
tipica ma anche l'indispensabilità del requisito minimo d'imputazione
costituito dall'effettiva <possibilità di conoscere la legge
penale>, essendo anch'esso necessario presupposto della <rimproverabilità> dell'agente. Il principio della
<personalità dell'illecito penale> é <totalmente>
implicato dal principio della <responsabilità penale personale>
espresso, appunto, dal primo comma dell'art. 27 Cost.: che l'integrale
contenuto di questo comma debba esser svelato anche in base alla sua
interpretazione sistematica nulla toglie od aggiunge al contenuto stesso.
20. - A
questo punto va precisata l'interpretazione da dare all'art. 5 c.p. nel momento
in cui lo si <confronta> con gli articoli della Costituzione innanzi
richiamati e con l'intero sistema, in materia penale, della Carta fondamentale.
Per quanto occorra allontanare le tentazioni di sopravvalutazione dell'art. 5
c.p. (e quasi impensabile, infatti, che un soggetto <imputabile>)
commetta i c.d. delitti naturali nell'ignoranza della loro
<illiceità> mentre l'ignoranza delle norme incriminatrici
dei c.d. reati di pura creazione legislativa, tenuto conto del loro sempre
crescente numero e del relativo <più intenso> dovere di conoscenza
da parte dei soggetti che operano nei settori ai quali tali norme appartengono,
si rivela, di regola, inescusabile) lo stesso articolo costituisce, tuttavia,
norma fondamentale nel vigente sistema delle leggi penali ordinarie. Le
interpretazioni che dottrina e giurisprudenza offrono dell'art. 5 c.p.,
soprattutto allo scopo di distinguere l'irrilevante errore sul precetto dal rilevante
errore sulla legge extrapenale di cui all'art. 47, terzo comma, c.p., sono
tanto varie e così diverse tra loro che é impossibile tentarne
una sia pur sommaria esposizione.
Qui
occorre prendere le mosse dalla <rigorosa> interpretazione che dello stesso
articolo danno una parte della dottrina e la giurisprudenza di
legittimità (esclusa la <parentesi> della rilevanza della buona
fede nelle contravvenzioni).
Non
é questa, infatti, la sede per procedere ad un'interpretazione
<esaustiva> della norma impugnata: non, essendo invero, possibile qui
chiarire, con precisione, neppure l'oggetto sul quale cade il <vizio>,
che l'art. 5 c.p. sottende ed in base al quale, ove lo stesso articolo non
esistesse, l'agente sarebbe scusato, vale qui riportarsi, in materia, alle
dottrine che risultano in accordo con la citata <rigorosa>
interpretazione dell'articolo in discussione: tali dottrine sottolineano che,
incidendo l'art. 5 c.p. sul momento subiettivo dell'antigiuridicita, l'errore che, ai sensi dello stesso
articolo, non scusa é quello che cade sul precetto, sull'aspetto
determinativo del precetto, tenuto conto, peraltro, che valutazione e
determinazione sono inscindibili nella norma penale.
Per
nessuno degli aspetti dai quali viene considerato l'art. 5 c.p. si può,
infatti, qui partire dalle riduttive interpretazioni che dello stesso articolo
alcuni Autori offrono, pur nel lodevole tentativo di <mitigarne> il
rigore: non foss'altro perchè
tali interpretazioni non sono condivise dal diritto vivente.
Vero
é che il problema dei rapporti tra soggetto e legge penale, tra soggetto
e norma penale, vanno impostati, come impone la Costituzione, nell'ambito
dell'autonomo requisito <possibilità di conoscenza della legge
penale> sulla quale ci si e soffermati innanzi: allorchè
s'ignori la legge penale e l'ignoranza sia inevitabile la mancata relazione tra
soggetto e legge, tra soggetto e norma penale, diviene, ai sensi dell'art. 27,
primo comma, Cost., rilevante (risultando esclusa la personalità
dell'illecito e non essendo legittima la punizione in carenza del requisito
della colpevolezza costituzionalmente richiesta) mentre, ove l'ignoranza della
legge penale sia evitabile, rimproverabile, la stessa mancata relazione tra
soggetto e legge, tra soggetto e norma penale, non esclude la punizione
dell'agente che versa in errore di diritto (sempre che si realizzino tutti gli
altri requisiti subiettivi ed obiettivi
d'imputazione) giacchè, in quest'ultima
ipotesi, tale mancata relazione già rivela quanto meno
un'<indifferenza> dell'agente nei confronti delle norme, dei valori
tutelati e dell'ordinamento tutto.
Richiamato
l'art. 5 c.p. alla logica dell'elemento subiettivo,
della colpevolezza, che lo stesso articolo arbitrariamente mutila; rilevato il
contrasto tra l'articolo in discussione e l'art. 27, primo comma, Cost.
(espressivo quest'ultimo, come s'é innanzi chiarito, dell'intero sistema
costituzionale in materia di elementosubiettivo del
reato); la dichiarazione di parziale incostituzionalità dell'art. 5 c.p.
esclude, in ogni caso, che siano chiamati a rispondere penalmente coloro che
versano in stato d'inevitabile (scusabile) ignoranza della legge penale.
2l.-Allo
stesso modo non é, in questa sede, consentito riferirsi
all'interpretazione dell'art. 5 c.p., secondo la quale quest'ultimo, mentre
dichiarerebbe irrilevante la conoscenza effettiva della legge penale, nulla
disporrebbe in ordine alla possibilità di tale conoscenza. Questa tesi e
degna di particolare considerazione in quanto riconosce rilievo autonomo alla
possibilità di conoscere la legge penale e fa derivare tale rilievo
dall'art. 27, primo e terzo comma, c.p.: questo articolo, statuendo la
necessita di considerazione d'una qualche relazione psicologica del soggetto
con il disvalore giuridico del fatto, si riconnette, infatti, ai principi di
fondo della convivenza democratica a termini dei quali, si ribadisce,
così come il cittadino é tenuto a rispettare l'ordinamento
democratico, quest'ultimo é tale in quanto sappia porre i privati in
grado di comprenderlo senza comprimere la loro sfera giuridica con divieti non
riconoscibili ed interventisanzionatori non
prevedibili.
Senonchè,
alla predetta interpretazione riduttiva dell'art. 5 c.p. e stato esattamente
osservato che quest'ultimo, escludendo ogni efficacia scusante dell'ignoranza
della legge penale, non consente alcuna distinzione attinente alla causa
dell'ignoranza, in modo da ritenere l'ignoranza scusabile, a differenza di quellainescusabile, suscettibile di diverso trattamento.
D'altra
parte, la proposta interpretazione <adeguatrice>,
ex art. 27, primo e terzo comma, Cost., sarebbe in stridente contrasto con
l'interpretazione che il diritto vivente da all'art. 5 c.p.: non solo non
s'interpreta questo articolo, soprattutto da parte della giurisprudenza di
legittimità (tranne l'<eccezione> della buona fede nelle
contravvenzioni) in maniera rigida ma, nel dare all'art. 5 c.p. la massima
<espansione> , si é, da parte della stessa giurisprudenza, finito,
praticamente, con l'addivenire ad una interpretatio abrogans dell'art. 47, terzo comma, c.p.
22.-E poichè anche il rilievo attribuito dalla
giurisprudenza alla <positiva> buona fede nelle contravvenzioni non trova
fondamento nell'attuale sistema del Codice Rocco (l'art. 5 c.p., statuendo, in
ogni caso, l'irrilevanza dell'ignoranza della legge penale, non consente di
distinguere la disciplina giuridica delle ipotesi che danno luogo all'ignoranza
<inqualificata> da quelle che la
<qualificano> per esser fondate sulla <positiva> buona fede del
soggetto; e poichè anche le diverse
interpretazioni <evolutive> dell'art. 5 c.p., secondo le quali lo stesso
articolo statuirebbe soltanto una presunzione iuris
tantum e non iuris et de
iure d'irrilevanza dell'ignoranza della legge penale (tutte, peraltro, degne di
considerazione, in quanto mirate ad attenuare l'incostituzionale rigore della
statuizione in esame) contrastano con l'interpretazione che dell'articolo in
discussione da il diritto vivente; non resta, dunque, che partire qui da
quest'ultima interpretazione.
23. -Non
può tacersi, a questo punto, che l'art. 5 c.p. ha natura
<bifronte>: da un canto nega efficacia scusante all'ignoranza della legge
penale e dall'altro esclude ogni rilevanza all'errore sull'illiceità del
fatto e, pertanto, alla consapevolezza della stessa illiceità. E' stato,
invero, in dottrina, precisato che l'art. 5 c.p. non disciplina l'ignoranza
della legge penale in astratto ma l'ignoranza (od errore) <essenziale>,
anche incolpevole, sull'illiceità d'un concreto comportamento.
Si
possono, é vero, attenuare gli inconvenienti che si producono a seguito
del disposto di cui all'art. 5 c.p., in sede di dolo, sostenendo essenziale al
medesimo, ex art. 43 c.p., la coscienza della violazione dell'interesse tutelato
ed assumendo che l'art. 5 c.p. renda irrilevante soltanto la coscienza
dell'illiceità penale (= punibilità) del fatto. Ma per le ipotesi
colpose il soggetto agente verrebbe ad esser punito senza nemmeno la più
lontana possibilità (carenza incolpevole) di conoscere la
<giuridicità> delle regole di diligenza, prudenza ecc. in base
alla violazione delle quali lo stesso soggetto vien punito.
Va
aggiunto che l'esistenza d'una norma, quale quella dell'art. 5 c.p., diretta ad
escludere ogni giuridico rilievo all'ignoranza (od errore) sulla legge penale,
presuppone la contrapposta possibilità, almeno teorica, che il reo, in
assenza di tale norma, pretenda scusarsi: ed il reo, in tal caso, si scuserebbe
adducendo il <turbamento>, prodotto dall'ignoranza della legge penale sul
processo formativo della volontà del fatto.
Nell'ipotesi
prospettata, tuttavia, da un canto si dimostrerebbe assurda una <pretesa>
d'essere scusati (nell'inesistenza dell'art. 5 c.p.) sol in base all'ignoranza
, anche inescusabile, della sola punibilità del fatto (pur essendo
coscienti di ledere il bene tutelato) e d'altro canto sarebbe sempre l'errore
nella formazione della concreta volontà dell'illecito, al quale consegue
la carenza di coscienza dell'illiceità penale del fatto, anche se dovuta
all'ignoranza (od errore) sulla legge penale, a costituire la ragione della
<scusa>, che appunto, lo stesso articolo esclude.
Senonchè,
a seguito della predetta osservazione, si ha la riprova che l'art. 5 c.p.,
nell'attuale vigore, non soltanto determina un uguale trattamento di chi agisce
con la coscienza dell'illiceità (totale o soltanto penale) del fatto e
di chi opera senza tale coscienza ma esclude ogni possibilità di
valutazione della <causa> della mancata coscienza (della sola
punibilità o dell'<intera> antiprecettività
del fatto) trattando allo stesso modo errore scusabile, inevitabile ed errore
inescusabile, evita bile, sull'illiceità.
Punendo,
in ogni caso, l'agente che versa in errore di diritto l'art. 5 c.p. presume, iuris et de iure, comunque si
delimiti l'oggetto di tale errore, la <rimproverabilità>
del medesimo. Vero é che l'art. 5 c.p. rende incostituzionale tutto il
sistema ordinario in materia di colpevolezza, in quanto sottrae a questa
l'importantissima materia del rapporto tra soggetto e legge penale e,
conseguentemente, tra soggetto e coscienza del significato illecito del fatto.
Ma l'art.
5 c.p. <snatura>, togliendone fondamento, anche la residua materia che
non sottrae alla colpevolezza (dolo, colpa del fatto ecc.). Allorchè
l'agente ignora, del tutto incolpevolmente, la legge penale e, pertanto,
incolpevolmente ignora l'illiceità del fatto, non mostra alcuna
opposizione ai valori tutelati dall'ordinamento: può il suo dolo
costituire oggetto di rimprovero ex art. 27, primo e terzo comma, Cost.? Certo,
includendo nel dolo la coscienza dell'offesa (a parte ogni discussione sulla
conseguente riduttiva interpretazione dell'art. 5 c.p.) si attenuano gli
effetti che, invece, discendono dalla rigorosa interpretazione dello stesso
articolo. Senonchè, pur ammettendo che l'art.
5 c.p. sottragga alla colpevolezza soltanto il rapporto tra soggetto e
coscienza del significato illecito <penale> del fatto e non dell'intero
disvalore antiprecettivo del fatto stesso (e sempre a
prescindere dalla pratica <inoperatività>, in tal caso, dell'art.
5 c.p.) rimarrebbero del tutto <scoperte> le ipotesi colpose (contravvenzionali ad es.). Per assumere il soggetto agente
<in colpa> dovrebbe, invece, almeno essergli offerta la
<possibilità> di conoscere le norme penali che <trasformano>
in doverose le regole di diligenza, prudenza ecc. in base alla violazione delle
quali, nella prevedibilità ed evitabilità concreta dell'evento,
si viene chiamati a rispondere: se l'agente, del tutto incolpevolmente,
ignorasse le predette norme penali, la sua <colpa> (del fatto) non
dovrebbe potersi ritenere rimproverabile ex art. 27, primo e terzo comma, Cost.
La
colpevolezza prevista dagli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p. va, pertanto,
arricchita, in attuazione dell'art. 27, primo e terzo comma, Cost., fino ad
investire, prima ancora del momento della violazione della legge penale
nell'ignoranza di quest'ultima, l'atteggiamento psicologico del reo di fronte
ai doveri d'informazione o d'attenzione sulle norme penali, doveri che sono alla
base della convivenza civile.
Nè si
tema che le conclusioni qui raggiunte delineino una forma di <colpa per la
condotta della vita>: risalire alle <cause> dell'ignoranza della legge
penale, per verificarne l'evitabilità, costituisce verifica dell'esistenza,
in concreto, almeno d'un atteggiamento d'indifferenza, da parte dell'agente,
nei confronti della doverosa informazione giuridica. Tale verifica non solo non
viola il principio della responsabilità penale <per il singolo
fatto> ma mira a cogliere il completo disvalore soggettivo del particolare
episodio criminoso e può, condurre, come più volte ribadito,
all'esclusione della colpevolezza per il singolo fatto, nell'ipotesi
d'inevitabilità dell'ignoranza.
24. -
L'art. 5 c.p. viola, infine, anche l'art. 3, primo e secondo comma, Cost. In
ordine alla violazione del primo comma dell'art. 3 Cost. va anzitutto ricordato
(a conferma di quanto innanzi osservato in ordine all'uguale trattamento che,
ai sensi dell'art. 5 c.p., riceve chi agisce con la coscienza dell'illiceità
del fatto e chi invece con tale coscienza non opera) che, come ha avuto modo di
rilevare recente, attenta dottrina, colui che commette un reato nell'ignoranza
della legge penale dovuta ad impossibilita di prenderne conoscenza vien punito
con una pena che, rispetto a quella cui soggiace chi commette lo stesso reato
conoscendone l'illiceità, può esser diminuita soltanto entro i
limiti edittali ex art. 133 c.p. o, se mai, ex art. 62 bis c.p. La
diversità tra le predette situazioni (conoscenza effettiva ed
impossibilita incolpevole di conoscenza della legge penale) é, invece,
notevole sia sotto il profilo del disvalore sia sotto quello della
<sintomaticità>. L'art. 5 c.p. viola, dunque, anche il primo comma
dell'art. 3 Cost.
Per quanto
attiene alla violazione del secondo comma dell'articolo ora citato va ribadito
che il non poter addurre a scusa dell'ignoranza della legge penale l'obiettiva
o la subiettiva (nei limiti anzidetti) impossibilita
di conoscere la stessa legge equivale a far ricadere sul singolo tutte le colpe
della predetta ignoranza. Ben é, invece, almeno possibile, come
s'é già sottolineato, che lo Stato non abbia reso obiettivamente
riconoscibili (o <prevedibili>) alcune leggi; oppure che, malgrado ogni
positiva predisposizione di determinanti soggetti all'adempimento dei predetti
doveri strumentali d'informazione ecc., l'ignoranza della legge penale sia
dovuta alla mancata rimozione degli <ostacoli> di cui al secondo comma
dell'art. 3 Cost.
25. - In
conclusione: oltre agli specifici articoli della Costituzione indicati in
precedenza, l'art. 5 c.p., nell'interpretazione che del medesimo danno una
parte della dottrina e soprattutto la giurisprudenza, viola, come s'é
sottolineato più volte, lo spirito stesso dell'intera Carta fondamentale
ed i suoi essenziali principi ispiratori. Far sorgere l'obbligo giuridico di
non commettere il fatto penalmente sanzionato senza alcun riferimento alla
consapevolezza dell'agente, considerare violato lo stesso obbligo senza dare
alcun rilievo alla conoscenza od ignoranza della legge penale e
dell'illiceità del fatto, sottoporre il soggetto agente alla sanzione
più grave senza alcuna prova della sua consapevole ribellione od
indifferenza all'ordinamento tutto, equivale a scardinare fondamentali garanzie
che lo Stato democratico offre al cittadino ed a strumentalizzare la persona
umana, facendola retrocedere dalla posizione prioritaria che essa occupa e deve
occupare nella scala dei valori costituzionalmente tutelati.
26. - Non
resta che accennare ai criteri, ai parametri in base ai quali va stabilita
l'inevitabilità dell'ignoranza della legge penale. E, invero, di gran
rilievo impedire che, in fase applicativa, vengano a prodursi, insieme alla
<vanificazione> delle risultanze qui acquisite, altre violazioni della
Carta fondamentale.
E'
doveroso, per prima, chiarire che, ove una particolare conoscenza, da parte del
soggetto agente, consenta al medesimo la possibilità di conoscere la
legge penale, non e legittimo che lo stesso soggetto si giovi d'un (eventuale)
errore generale, comune, sul divieto. Ciò va rilevato non perchè si disconoscano i tentativi, per tanti
aspetti meritevoli di considerazione, della dottrina mirati, attraverso
l'oggettivazione, per quanto possibile, dei criteri di misura della
colpevolezza, a sottolinearne l'aspetto, peraltro fondamentale, di garanzia
delle libere scelte d'azione ma perchè non
é desumibile dalla Costituzione la legittimità d'una concezione
della colpevolezza che consenta di non rimproverare il soggetto per il fatto
commesso (ovviamente, in presenza dei prescritti elementi subiettivi)
quando esista, in concreto, la possibilità, sia pur eccezionale (di
fronte ad un generale, comune errore sul divieto) per il singolo agente di
conoscere la legge penale e, pertanto, l'illiceità del fatto.
Ammettere,
allo stato attuale della normativa costituzionale ed ordinaria, il soggetto
agente (che e in errore sull'illiceità del fatto per ignoranza della
legge penale, pur essendo in grado di conoscere quest'ultima e di non errare
sulla predetta illiceità) a giovarsi del comune errore sul divieto,
determinato dall'altrui, generale, inevitabile ignoranza della legge penale,
val quanto riconoscere all'errore comune sul divieto penale il valore di
consuetudine abrogatrice di incriminazioni penali.
27.-Da
quanto innanzi osservato discende, in via generale, che l'inevitabilità
dell'errore sul divieto (e, conseguentemente, l'esclusione della colpevolezza)
non va misurata alla stregua di criteri c.d. soggettivi puri (ossia di
parametri che valutino i dati influenti sulla conoscenza del precetto
esclusivamente alla luce delle specifiche caratteristiche personali
dell'agente) bensì secondo criteri oggettivi: ed anzitutto in base a
criteri (c.d. oggettivi puri) secondo i quali l'errore sul precetto e inevitabile
nei casi d'impossibilità di conoscenza della legge penale da parte
d'ogni consociato. Tali casi attengono, per lo più, alla (oggettiva)
mancanza di riconoscibilità della disposizione normativa (ad es.
assoluta oscurità del testo legislativo) oppure ad un gravemente caotico
(la misura di tale gravita va apprezzata anche in relazione ai diversi tipi di
reato) atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari ecc.
La
spersonalizzazione che un giudizio formulato alla stregua di criteri oggettivi
puri necessariamente comportava, tuttavia, compensata, secondo quanto innanzi
avvertito, dall'esame di eventuali, particolari conoscenze ed
<abilità> possedute dal singolo agente: queste ultime, consentendo
all'autore del reato di cogliere i contenuti ed il significato determinativo
della legge penale escludono che l'ignoranza della legge penale vada
qualificata come inevitabile.
Ed anche
quando, sempre allo scopo di stabilire l'inevitabilità dell'errore sul
divieto, ci si valga di <altri> criteri (c.d. <misti>) secondo i
quali la predetta inevitabilità può esser determinata, fra
l'altro, da particolari, positive, circostanze di fatto in cui s'é
formata la deliberazione criminosa (es. <assicurazioni erronee> di
persone istituzionalmente destinate a giudicare sui fatti da realizzare;
precedenti, varie assoluzioni dell'agente per lo stesso fatto ecc.) occorre
tener conto della <generalizzazione> dell'errore nel senso che qualunque
consociato, in via di massima (salvo quanto aggiungiamo subito) sarebbe caduto nell'errore
sul divieto ove si fosse trovato nelle stesse particolari condizioni
dell'agente; ma, ancora una volta, la spersonalizzazione del giudizio va
compensata dall'indagine attinente alla particolare posizione del singolo
agente che, in generale, ma soprattutto quando eventualmente possegga
specifiche <cognizioni> (ad es. conosca o sia in grado di conoscere
l'origine lassistica o compiacente di assicurazioni
di organi anche ufficiali ecc.) é tenuto a <controllare> le
informazioni ricevute. Il fondamento costituzionale della <scusa>
dell'inevitabile ignoranza della legge penale vale soprattutto per chi versa in
condizioni soggettive d'inferiorità e non può certo esser
strumentalizzata per coprire omissioni di controllo, indifferenze, ecc., di
soggetti dai quali, per la loro elevata condizione sociale e tecnica, sono
esigibili particolari comportamenti realizzativi degli obblighi strumentali di
diligenza nel conoscere le leggi penali.
28. - La
casistica relativa all'<inevitabilità> dell'errore sul divieto va
conclusa con alcune precisazioni.
E' stato,
in dottrina, osservato che, realisticamente, l'ipotesi d'un soggetto, sano e
maturo di mente, che commetta un fatto criminoso ignorandone
l'antigiuridicità é concepibile soltanto quando si tratti di
reati che, pur presentando un generico disvalore sociale, non sono sempre e
dovunque previsti come illeciti penali ovvero di reati che non presentino
neppure un generico disvalore sociale (es. violazione di alcune norme fiscali
ecc.). E, in relazione a queste categorie di reati, sono state opportunamente
prospettate due ipotesi: quella in cui il soggetto effettivamente si
rappresenti la possibilità che il suo fatto sia antigiuridico e quella
in cui l'agente neppure si rappresenti tale possibilità.
Or qui
occorre precisare che, mentre nella prima ipotesi, esistendo, in concreto (ben
più della possibilità di conoscenza dell'illiceità del
fatto) l'effettiva previsione di tale possibilità, non può
ravvisarsi ignoranza inevitabile della legge penale (essendo il soggetto
obbligato a risolvere l'eventuale dubbio attraverso l'esatta e completa
conoscenza della (singola) legge penale o, nel caso di soggettiva
invincibilità del dubbio, ad astenersi dall'azione (il dubbio
oggettivamente irrisolvibile, che esclude la rimproverabilità
sia dell'azione sia dell'astensione e soltanto quello in cui, agendo o non
agendo, s'incorre, ugualmente, nella sanzione penale); la seconda ipotesi
comporta, da parte del giudice, un'attenta valutazione delle ragioni per le
quali l'agente, che ignora la legge penale, non s'é neppure prospettato
un dubbio sull'illiceità del fatto.
Or se
l'assenza di tale dubbio discende, principalmente, dalla personale non
colpevole carenza di socializzazione dell'agente, l'ignoranza della legge
penale va, di regola, ritenuta inevitabile.
Inevitabile
si palesa anche l'errore sul divieto nell'ipotesi in cui, in relazione a reati
sforniti di disvalore sociale e, per l'agente, socializzato oppur
no, oggettivamente imprevedibile l'illiceità del fatto.
Tuttavia,
ove (a parte i casi di carente socializzazione dell'agente) la mancata
previsione dell'illiceità del fatto derivi dalla violazione degli
obblighi d'informazione giuridica, che sono, come s'é avvertito, alla
base d'ogni convivenza civile deve ritenersi che l'agente versi in evitabile e,
pertanto, rimproverabile ignoranza della legge penale.
Come
inevitabile, rimproverabile ignoranza della legge penale versa chi,
professionalmente inserito in un determinato campo d'attività, non
s'informa sulle leggi penali disciplinanti lo stesso campo.
La
casistica non può esser qui approfondita: basta aver indicato che (alla
luce del fondamento costituzionale della scusa dell'inevitabile ignoranza della
legge penale) allo scopo di verificare, in concreto, tale inevitabilità,
da un canto e necessario (per garantire la certezza della libertà
d'azione del cittadino) far riferimento a criteri oggettivi c.d. <puri> e
<misti> e dall'altro canto é doveroso recuperare la
spersonalizzazione, causata dall'uso preponderante di tali criteri, con l'esame
delle particolari situazioni in cui eventualmente versi il singolo soggetto
agente. La giurisprudenza va, infine, rinviata, nell'interpretazione ed
applicazione del nuovo testo dell'art. 5 c.p. ai criteri generali che, in tema
di responsabilità a titolo di colpa e di buona fede nelle
contravvenzioni, la stessa giurisprudenza é andata via via adottando.
Il nuovo
testo dell'art. 5 c.p., derivante dalla parziale incostituzionalità
dello stesso articolo che qui si va a dichiarare, risulta cosi formulato:
<L'ignoranza della legge penale non scusa tranne che si tratti d'ignoranza
inevitabile>.
29.-Non
resta che sottolineare che spetta al legislatore (oltre all'eventuale
emanazione di norme <di raccordo>) stabilire se l'ignoranza evitabile
della legge penale meriti un'attenuazione di pena, come per gli ordinamenti
tedesco occidentale ed austriaco, oppure se il sistema dell'ignoranza della
legge penale debba restare quello risultante a seguito della qui dichiarata
parziale illegittimità costituzionale dell'art. 5 c.p.
Ogni altra
questione sollevata dalle ordinanze di rimessione rimane assorbita dalla
predetta illegittimità costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i
giudizi;
dichiara
l'illegittimità costituzionale dell'art. 5 c.p. nella parte in cui non
esclude dall'inescusabilità dell'ignoranza
della legge penale l'ignoranza inevitabile.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,
il 23/03/88.
Francesco
SAJA, PRESIDENTE
Renato
DELL'ANDRO, REDATTORE
Depositata
in cancelleria il 24 Marzo 1988.