SENTENZA N. 268
ANNO 1986
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Prof. Antonio LA PERGOLA. Presidente
Prof. Virgilio ANDRIOLI
Prof. Giuseppe FERRARI
Dott. Francesco SAJA
Prof. Giovanni CONSO
Prof. Ettore GALLO
Dott. Aldo CORASANITI
Prof. Giuseppe BORZELLINO
Dott. Francesco GRECO
Prof. Renato DELL’ANDRO
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1 legge 31 luglio 1984 n. 400 (Nuove norme sulla competenza penale e sull'appello contro le sentenze del Pretore); art. 54 legge 24 novembre 1981 n. 689 (Modifiche al sistema penale) in relazione all'art. 1 legge sopra citata, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 18 febbraio 1984 dal Pretore di Forlì nel procedimento penale a carico di Malavolta Renzo ed altro, iscritta al n. 49 del registro ordinanze 1985 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 125 bis dell'anno 1985;
2) ordinanza emessa l'11 febbraio 1985 dal Pretore di Urbino nel procedimento penale a carico di Contucci Angelo, iscritta al n. 181 del registro ordinanze 1985 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 179 bis dell'anno 1985;
3) ordinanza emessa il 1 aprile 1985 dal Tribunale di Arezzo nel procedimento penale a carico di Pezzina Gianfranco ed altro, iscritta al n. 331 del registro ordinanze 1985 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 238 bis dell'anno 1985.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 5 giugno 1986 il Giudice relatore Ettore Gallo;
udito l'Avvocato dello Stato Giorgio D'Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Con ordinanza 18 dicembre 1984, pronunziata nel corso di un dibattimento di un giudizio direttissimo per il reato di tentato furto aggravato, il Pretore di Forlì sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 31 luglio 1984, n. 400, nella parte in cui si attribuisce al pretore la competenza per il reato di furto aggravato consumato e tentato in riferimento all'art. 3 della Costituzione.
Secondo il giudice a quo la scelta del legislatore di attribuire alla competenza del pretore il reato di furto aggravato, punito con la reclusione da uno a dieci anni, in deroga alla norma processuale di carattere generale tuttora in vigore, sarebbe lesiva del precetto costituzionale di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge.
Ritiene, infatti, l'ordinanza di rimessione che la competenza penale corrispettiva fra Tribunale e Pretore abbia la sua razionalità nell'attribuzione al Tribunale dei reati più gravi, in quanto il giudizio trova maggiore garanzia nel principio di collegialità. La legge impugnata, invece, attribuisce al Pretore competenza sul reato di furto, comunque aggravato, e quindi anche quando é punito con pena che attinge gli anni dieci di reclusione, mentre restano alla competenza del Collegio anche reati puniti con pena di gran lunga inferiore.
Parimenti lesivo del parametro invocato sarebbe, secondo il Pretore, l'attribuzione di un giudizio per reati così gravi ad un magistrato nel quale si confondono le funzioni giudicanti e quelle requirenti, dato che il principio di distinzione tra le due funzioni avrebbe assunto rilevanza costituzionale ex art. 107, terzo comma Cost., che assegna al pubblico ministero le garanzie stabilite dall'ordinamento.
L'eccezionalità e l'"anomalia", sotto questo riguardo, del processo pretorio trovano, infatti, giustificazione nella tradizione storica che si fonda sulla minore gravità dei reati attribuiti alla competenza di questo magistrato. La stessa Corte Costituzionale - rileva il pretore - ha escluso difetti di legittimità costituzionale nel procedimento pretorio proprio in considerazione del sollecitato andamento della Giustizia e dei fini di economia processuale, purché riferiti all'"ufficio del Pretore così come attualmente regolato" (sent. n. 61/1967).
In particolare, per quanto riguarda la rilevanza in ordine a quest'ultimo argomento, gl'imputati nel processo attuale si sono visti convalidare l'arresto e formulare l'accusa proprio all'udienza dibattimentale e dallo stesso giudice chiamato a giudicarli, quando delle funzioni giudicanti esso era già investito.
Né si potrebbe ritenere che il legislatore abbia inteso anticipare la riforma del codice di procedura penale, poiché tale disciplina non si inquadrerebbe nei principi direttivi dettati in materia (punti 3 e 13) e violerebbe i patti internazionali ratificati dall'Italia e richiamati dal punto 2 della legge di delega per la riforma.
2. - Analoga questione di legittimità costituzionale sollevava il Pretore di Urbino con ordinanza 11 febbraio 1985, nel corso di un'istruttoria per il reato di furto aggravato.
Agli argomenti svolti dal Pretore di Forlì, il giudice a quo aggiungeva che, essendo la minor gravità del reato l'elemento giustificatore del processo pretorile, tale elemento non si riscontrerebbe nel caso del furto aggravato per il quale é talvolta richiesta un'istruttoria assai complessa.
In realtà, osservava il giudice a quo che il legislatore, come é chiaramente emerso nel corso dei lavori preparatori, ritenuta la necessità di ampliare la competenza pretorile, anziché elevarne in generale i limiti massimi, come si sarebbe potuto senza ledere alcun principio costituzionale, ha attribuito al Pretore il reato di maggior incidenza statistica. Con ciò avrebbe creato una disparità di trattamento non necessaria e reso deteriore la posizione processuale degli imputati di furto aggravato commesso dopo il 29 novembre 1984 rispetto agli autori di altri reati di pari o minor gravità. Inoltre, e del pari irrazionalmente, avrebbe creato una disparità di trattamento di segno opposto. Infatti, essendo rimasta immutata la norma dell'art. 54 l. 24 novembre 1981 n. 689, che consente di applicare le sanzioni sostitutive per tutti i reati di competenza del Pretore, ne seguirebbe che, ove l'imputato di furto aggravato possa giovarsi di circostanze attenuanti prevalenti o equivalenti alle aggravanti, (e ciò nella specie ritiene il Pretore che si verificherebbe) potrà ottenere la sostituzione della pena detentiva, mentre tale beneficio non é concesso agli autori di reati assai meno gravi (ad esempio, violenza privata) rimasti di competenza del Tribunale.
3. - Infine il Tribunale di Arezzo con ordinanza 1 aprile 1985 sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 54 legge 24 novembre 1981 n. 689, in relazione all'art. 1 legge 31 luglio 1984 n. 400, sempre con riferimento all'art. 3 della Costituzione.
Osservava al riguardo il Tribunale che, a seguito dello spostamento di competenza di cui alla legge 31 luglio 1984 n. 400, il delitto di furto aggravato, commesso anteriormente alla entrata in vigore della legge medesima, rimane di competenza del Tribunale. Ciò comporta che, ai sensi dell'art. 54 legge 24 novembre 1981 n. 689, non sono applicabili le sanzioni sostitutive e l'eventuale declaratoria di estinzione del reato, con disparità di trattamento fra soggetti versanti nella medesima situazione sostanziale, unicamente con riferimento all'epoca del commesso reato, che invece deve ritenersi adottato dalla legge soltanto come meccanismo di transizione da un regime processuale all'altro.
4. - Le ordinanze sono state regolarmente notificate, comunicate e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale.
Dinanzi alla Corte Costituzionale é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri che ha chiesto in primo luogo dichiarazione di inammissibilità della questione promossa dal Pretore di Forlì.
Essa infatti é stata sollevata nel corso del giudizio dibattimentale, momento nel quale il Pretore esercita solo funzioni giudicanti, essendo quelle requirenti espletate da un apposito rappresentante della pubblica accusa. Nella specie, dunque, non sussisterebbe la lamentata concentrazione nella persona del Pretore delle funzioni requirenti e giudicanti.
Per quanto attiene al merito della denunzia mossa dall'ordinanza in esame e dal Pretore di Urbino l'Avvocatura chiede che la questione sia dichiarata non fondata.
Osserva infatti che, se da un lato nessuno dei precetti costituzionali stabilisce che il Pretore debba conoscere solo di reati meno gravi di quelli attribuiti alla competenza del Tribunale (il quale é, al pari del Pretore, organo giudicante di primo grado) dall'altro, la Corte Costituzionale avrebbe già avuto modo di affermare la compatibilità con i precetti costituzionali del processo pretorile con le sentenze nn. 46 e 61 del 1967, anche per quanto riguarda gli aspetti relativi alla concentrazione, in quel giudice, delle funzioni requirenti e giudicanti.
Relativamente infine all'inapplicabilità delle sanzioni sostitutive per i reati di furto aggravato commessi anteriormente all'entrata in vigore della legge impugnata, dopo aver rilevato che l'esclusione deriverebbe dall'art. 12 e non dall'art. 1 della legge n. 400 del 1984, l'Avvocatura osserva che, comunque, la rilevata diversità di trattamento, a tutto concedere, consegue ad un succedersi di leggi nel tempo, con spostamento della competenza e relative conseguenze ex art. 54 l. 689.
Non si vede quindi come il principio della par condicio, tutelato dall'art. 3 della Costituzione, possa essere richiamato in relazione ad assetti penalistici diversi, che si dispongono nel tempo in virtù di fonti normative che si succedono.
Considerato in diritto
1. - Le questioni sollevate dalle tre ordinanze riguardano tutte la compatibilità sotto vari profili dell'art. 1 della l. n. 400/1984 con l'art. 3 della Costituzione. I giudizi possono, pertanto, essere riuniti e definiti con unica sentenza.
2. - Prendendo in esame il principio, ricordato dalle due ordinanze pretorili, secondo cui la cognizione dei reati di maggiore gravità dovrebbe essere affidata al Tribunale, non può essere sottaciuto innanzitutto qualche dubbio sulla rilevanza delle questioni proposte.
Il Pretore di Forlì, infatti, si riferisce ad un procedimento per tentato furto aggravato, per il quale la pena é diminuita da un terzo a due terzi (art. 56, secondo comma cod. pen.), talché, non sembrerebbe - tenuto conto della sua autonomia dommatica - che questa forma di manifestazione del delitto in esame possa essere ascritta fra i delitti più gravi. Mentre poi, quanto alla questione sollevata dal Pretore di Urbino, é lo stesso magistrato che, sia pure ad altro proposito, riconosce che il concorso di attenuanti si propone quanto meno in rapporto di equivalenza con le aggravanti: sì che, in definitiva, la quantitas delicti sottoposta al giudizio del Pretore resta pur sempre in concreto quella del furto semplice.
Senonché, poi, é il principio stesso che, comunque, non sembra indefettibile nella legge ordinaria, stando ai più recenti orientamenti normativi. Da una parte, infatti, proprio la legge, di cui si impugna l'art. 1, ha ridotto il Tribunale a giudice esclusivamente di I grado, privandolo di quella competenza in grado d'appello, che riguardava proprio i provvedimenti pretorili. Dall'altra, il disegno di legge-delega per il nuovo codice di procedura penale, attualmente all'esame della Commissione Giustizia del Senato, prevede (art. 3 n. 13) che al Pretore possa essere attribuita anche la competenza a giudicare di reati specificamente indicati per la loro qualità. É certo, peraltro, che il principio non riceve diretta tutela costituzionale, talché la sua inosservanza, nel discrezionale potere del legislatore ordinario, non potrebbe mai di per se stessa ritenersi incompatibile col dettato di cui all'art. 3 Cost.
É vero, invece, che il principio di eguaglianza può restare vulnerato - come esattamente rilevano i remittenti - dal trattamento differenziato che imputati di reati di notevole gravità verrebbero a subire, rispetto ad altri imputati di reati meno gravi, per la perdita della maggiore garanzia offerta dal giudizio collegiale rispetto a quello del giudice monocratico.
In proposito, anzi, va detto subito che l'obbiezione dell'Avvocatura, secondo cui il principio di cui all'art. 3 Cost. non potrebbe subire compromissioni da quanto lamentato, dato che tutti gl'imputati di furto aggravato riceverebbero nella legge impugnata lo stesso trattamento, non considera che, nell'argomentare dei giudici remittenti, il tertium comparationis é rappresentato dalla situazione degli imputati di reati di pari o minore gravità, che godono di quella maggiore garenzia che la legge impugnata sottrae a chi deve rispondere di furto aggravato.
Ma, se ciò é esatto in termini generali, sembra alla Corte che l'argomento debba essere meglio meditato quando sia riferito - come nella specie, anche per ovvie ragioni di rilevanza - al delitto di furto aggravato ai sensi dell'art. 625 cod. pen., eventualmente in collegamento a taluna delle aggravanti di cui all'art. 61 cod. pen., giusta quanto dispone la ultima parte del detto art. 625.
3. - Che il delitto di furto aggravato, specie se qualificato dal concorso di due aggravanti, fosse considerato dal codice Rocco di rilevante gravità, non può essere messo in dubbio. Non solo, esso era - com'é - punito con la reclusione da tre a dieci anni, ma per di più, in forza del disposto originario di cui all'u.p. dell'art. 69 cod. pen., nella commisurazione della pena il giudice era privato della possibilità di bilanciare le aggravanti con il concorso di eventuali attenuanti, in quanto per quelle circostanze la legge determina la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato. Inoltre, ricorrendo il duplice detto aggravamento, si rendeva obbligatorio l'ordine o il mandato di cattura che, sempre ai sensi dell'originario art. 253 cod. proc. pen., doveva seguire per ogni delitto che comportasse una pena non inferiore nel massimo a dieci anni di reclusione; e la libertà provvisoria non era ammessa (l'art. 253 cod. proc. pen. fu poi interamente sostituito con l. 18 giugno 1955 n. 517 che portò a quindici anni il massimo per l'obbligatorietà della cattura). Tutto questo, però, come la dottrina ha da tempo messo in luce, corrispondeva all'ideologia dell'epoca che aveva posto l'"avere" al centro dell'ordinamento. Tant'é vero che i delitti contro la libertà personale (artt. 605-606-607 cod. pen., ma anche agli artt. 573 e 574 benché queste fattispecie sieno considerate dal codice come lesive della potestà dei genitori, nonché gli artt. 522-523 e 524 quantunque posti sotto il titolo dei delitti contro la libertà sessuale) erano e sono puniti con pene di gran lunga inferiori.
Ma l'avvento della Costituzione della Repubblica ha radicalmente mutato la considerazione che l'ordinamento attribuisce rispettivamente ai valori dell'"essere" e dell'"avere". La persona umana, infatti, é venuta incondizionatamente in primo piano in tutte le sue manifestazioni di libertà, mentre la tutela della proprietà privata é subordinata alla funzione sociale.
Il legislatore ordinario, d'altra parte, in grave ritardo nell'adeguamento della tutela penale a questa diversa considerazione del Costituente, anziché affrontare la riforma integrale di un codice penale che vige ormai da cinquantasette anni, e particolarmente quella della sua parte speciale, dove maggiormente ha inciso l'ideologia dell'epoca, ha preferito affidarsi prevalentemente al potere discrezionale del giudice.
Infatti, con d.l. 11 aprile 1974, n. 99, convertito nella l. 7 giugno 1974, n. 220, anticipando talune essenziali riforme, il legislatore é intervenuto su alcuni nodi della parte generale che consentono almeno al giudice di adeguare ai nuovi orientamenti gli aspetti più repressivi della vecchia normativa. Notevole, fra le altre, la modificazione del quarto e quinto comma dell'art. 69 che ha eliminato le limitazioni poste al giudizio di bilanciamento, di cui s'è detto sopra. Limitazioni che trovano fondamento nella pretesa di un aprioristico giudizio di disvalore effettuato dal legislatore ogniqualvolta avesse previsto per il reato circostanziato una pena di specie diversa o determinata in modo indipendente da quella fissata per il reato base: giudizio che il legislatore dell'epoca voleva insuscettibile di essere vanificato dalla concreta valutazione del giudice.
Ebbene, questa parte della riforma era destinata ad influire decisamente sul trattamento giuridico-penale del furto aggravato, la cui astratta gravità, voluta dal passato legislatore per le ragioni illustrate, era stata resa pressocché inevitabile in concreto da una minuziosa configurazione di circostanze che lasciavano al furto semplice uno spazio quasi teorico. Infatti, con la nuova formulazione dell'art. 69 cod. pen., le aggravanti del furto possono essere neutralizzate anche dalle sole attenuanti generiche che, se del caso, il giudice può persino dichiarare prevalenti. La gravità di questo delitto é attualmente, perciò, soltanto nell'astratta comminazione della pena, ma non lo é più nella realtà dell'esperienza giuridica, come ben dimostra la casistica giudiziaria, ispirata ai nuovi principi costituzionali.
Di tutto ciò sicuramente ha tenuto conto il legislatore nell'art. 1 della legge impugnata, quando ha ritenuto di attribuire al Pretore anche la cognizione in ordine al reato di furto aggravato ai sensi dell'art. 625 cod. pen.: e se ne ha riprova nel fatto che, come risulta dai lavori preparatori, ha invece respinto la proposta di includere nell'art. 1 anche il delitto di omicidio colposo, benché astrattamente sanzionato con pena di gran lunga minore proprio perché lo ha giudicato socialmente più grave nelle conseguenze.
In realtà, gli elementi strutturali essenziali che caratterizzano l'ipotesi base contemplata nell'art. 624 cod. pen., e su cui da sempre il Pretore esercita una sua antica competenza, restano immutati nella figura circostanziata: in guisa che, anche sotto questo riguardo, non può ritenersi diminuita la garanzia di un corretto giudizio, nel momento in cui l'astratta gravità del reato si dissolve nella concreta valutazione che il giudice discrezionalmente esprime.
Pertanto, il profilo concernente la gravità del reato, assunto come discrimine in riferimento al principio di eguaglianza, risulta privo di consistenza in relazione al delitto di furto aggravato ai sensi dell'art. 625 cod. pen..
4. - Va ora esaminato il profilo concernente la confluenza nel Pretore di ambo le funzioni, requirente e giudicante.
Secondo i Pretori rimettenti, l'art. 107 terzo comma, avrebbe dato rilevanza costituzionale alla distinzione delle due funzioni. Si sostiene comunque, in aderenza alle linee in proposito enunciate dalla giurisprudenza di questa Corte, che il principio di cui all'art. 3 Cost. resterebbe, però, vulnerato dalla diversa situazione in cui verrebbero a trovarsi gli imputati di reati di pari o minore gravità. Questi, infatti, godrebbero della piena garenzia delle distinte funzioni facenti capo a magistrati diversi, rispetto alla situazione di coloro che, per reati di maggiore o pari gravità, sarebbero affidati alla cognizione di un magistrato che procede al dibattimento sulla base di valutazioni, o addirittura di attività istruttorie, da lui stesso espletate.
Va detto subito, intanto, che l'eccezione d'irrilevanza in ordine a questo profilo, proposta dall'Avvocatura Generale dello Stato contro l'ordinanza del Pretore di Forlì, sotto il riflesso che la questione é stata sollevata al dibattimento dove ormai il Pretore aveva funzione di Giudice e dove sedeva un distinto rappresentante della Pubblica Accusa, non é attendibile. In realtà, il Pretore ha dato atto nell'ordinanza che gl'imputati, arrestati nella notte dalla polizia giudiziaria in flagranza del tentativo di furto, erano stati presentati al mattino successivo dalla stessa polizia direttamente all'udienza dibattimentale del Pretore per il giudizio direttissimo previsto dall'art. 505 cod. proc. pen., così come sostituito dall'art. 3 della l. 27 luglio 1984, n. 397.
Ivi il Pretore, acquisito il rapporto della polizia nonché una breve autorizzata relazione orale degli agenti che avevano eseguito l'arresto, procedeva, in presenza del difensore, all'interrogatorio degli arrestati. Dopodiché, ritenuto che, nonostante i dinieghi di questi ultimi, fossero emersi sufficienti indizi di reità, convalidava l'arresto. Solo successivamente, contestata l'imputazione, procedeva al vero e proprio giudizio direttissimo.
Da tutto ciò appare evidente che, conformemente a quanto la legge prevede, il Pretore, pur sedendo in udienza, ha sicuramente espletato, fino alla convalida dell'arresto, quelle attività che il pubblico ministero compie allorquando la polizia mette gli arrestati a sua disposizione. Del resto, é lo stesso art. 3 della legge che, all'ultimo comma, esplicitamente ricorda che "il pretore esercita i poteri conferiti al pubblico ministero e al giudice".
Non poteva, perciò il pretore sollevare la questione in momento più opportuno: nel momento, cioé, in cui più manifesto si presentava l'ibridismo della sua duplice funzione, che veniva a perdurare persino al dibattimento quando, pur sedendo ormai in funzione di Giudice, egli doveva tuttavia, nella speciale procedura ex art. 505 cod. proc. pen. novellata, continuare preliminarmente ad esercitare attività di pubblico ministero.
5. - Tornando, dunque, al quesito dei rimettenti, va rilevato che questi, pur accennando incidenter tantum ad un'asserita rilevanza costituzionale del principio di separazione delle funzioni in parola, non hanno investito della loro doglianza la sua disapplicazione nel campo del processo pretorile. Anzi, lamentando che nella specie non si verificherebbero le condizioni e le ragioni indicate dalla giurisprudenza di questa Corte a giustificazione dell'anomala confluenza delle dette funzioni in uno stesso magistrato, hanno implicitamente mostrato di voler dare acquiescenza a quell'indirizzo (cfr. da ultimo sent. nn. 45 e 61/1967 e 123/70
).