SENTENZA N. 33
ANNO 1986
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Prof. Livio PALADIN, Presidente
Avv. Oronzo REALE
Avv Albero MALAGUGINI
Prof. Antonio LAPERGOLA
Prof. Virgilio ANDRIOLI
Prof. Giuseppe FERRARI
Dott. Francesco SAJA
Prof. Giovanni CONSO
Prof. Ettore GALLO
Dott. Aldo CORASANITI
Prof. Giuseppe BORZELLINO
Dott. Francesco GRECO,Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 202, secondo comma, del codice di procedura penale, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 2 marzo 1978 dal Tribunale di Rovigo nel procedimento penale a carico di Bergamini Gaudenzio, iscritta al n. 219 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 186 del 1978;
2) ordinanza emessa il 24 marzo 1984 dalle Sezioni unite penali della Corte di cassazione sul ricorso proposto da Perla Stefano, iscritta al n. 1144 del registro ordinanze 1984 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42- bis del 1985.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 10 dicembre 1985 il Giudice relatore Giovanni Conso.
Ritenuto in fatto
1. - Bergamini Gaudenzio proponeva appello al Tribunale di Rovigo contro la sentenza del Pretore di Ficarolo nella parte in cui era stato condannato quale responsabile del delitto di lesioni colpose; proponeva, altresl', quale parte civile, ricorso per cassazione per i soli interessi civili avverso la stessa sentenza che aveva anche assolto Picozzi Vincenzo dal delitto di lesioni colpose gravi in danno del ricorrente. Il ricorso non veniva, però, notificato al Picozzi nel termine stabilito dall'art. 202, secondo comma, del codice di procedura penale.
Il Tribunale di Rovigo, investito, ai sensi dell'art. 514 del codice di procedura penale, anche della cognizione del ricorso per cassazione, con ordinanza del 2 marzo 1978 ha denunciato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della disparità di trattamento rispetto al pubblico ministero, l'illegittimità "dell'art. 202, secondo comma, c.p.p., nella parte in cui non dispone che il termine di trenta giorni accordato al p.m. dall'art. 199-bis c.p.p. si applica anche all'impugnazione della parte civile per gli interessi civili".
L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 186 del 5 luglio 1978. É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
Deduce, in primo luogo, l'Avvocatura che la previsione di termini diversi per la notifica dell'impugnazione del pubblico ministero e per la notifica dell'impugnazione della parte civile trova razionale fondamento "nella diversa posizione processuale dei soggetti del processo penale: " necessario " il pubblico ministero ", non necessaria " la parte civile". L'"interesse " pubblicistico " che assiste l'impugnazione del pubblico ministero non può essere in alcun modo equiparato a quello " privatistico " della parte civile, la cui impugnazione é diretta esclusivamente alla tutela dei suoi interessi civili"; stante l'eterogeneità dei termini considerati, sarebbe impossibile effettuare un raffronto tra l'art. 202 e l'art. 199-bis del codice di procedura penale.
La previsione di un termine più ampio rispetto a quello stabilito a favore della parte civile per la notifica dell'impugnazione del pubblico ministero non potrebbe incorrere nella censura di irrazionalità, sol che si consideri la opportunità, anche sul piano pratico, di consentire ad "un ufficio", quale é quello del pubblico ministero, onerato, tra l'altro, di numerosi incombenti, e non soltanto di quello relativo ad una particolare impugnazione, di avere margini di tempo maggiori di quelli concessi ad un singolo che altro incombente non deve espletare se non quello di provvedere alla notifica delle impugnazioni per i suoi interessi civili.
2. - Il legale rappresentante di Perla Stefano, parte civile nel procedimento penale a carico di Cocchi Dante, proponeva appello avverso la sentenza del Pretore di Bologna che aveva condannato il Cocchi alla pena di lire centomila di multa ed al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita.
Il Tribunale di Bologna dichiarava l'inammissibilità dell'appello per essere la dichiarazione di impugnazione pervenuta all'imputato oltre il termine stabilito dall'art. 202, secondo comma, del codice di procedura penale: la sentenza del Pretore era stata pronunciata il 24 novembre 1978; il Perla aveva proposto appello con dichiarazione resa al cancelliere della Pretura di Bologna il 24 novembre 1978; l'ufficiale giudiziario aveva spedito il 27 novembre 1978 la comunicazione dell'avvenuto deposito nella casa comunale della copia dell'atto da notificare; il plico raccomandato era pervenuto all'imputato il 30 novembre successivo.
Ricorreva per cassazione il Perla, deducendo che l'inosservanza del predetto termine non era derivata da inerzia od insufficiente attività della parte ma da inefficienza del servizio postale.
Le Sezioni unite penali della Corte di cassazione, con ordinanza del 24 marzo 1984, hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 202, secondo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui, stando all'indirizzo giurisprudenziale "rigoroso e pur corretto", "condiviso dalla quasi totalità della dottrina", stabilisce che anche la notificazione della dichiarazione della impugnazione della parte civile può ritenersi eseguita soltanto con la consegna del plico al destinatario.
La vulnerazione del principio di eguaglianza deriverebbe dalla disparità di trattamento riservata alla parte civile rispetto al pubblico ministero, il quale, per la notificazione della propria dichiarazione di gravame, dispone del più lungo termine di trenta giorni dalla proposizione della dichiarazione, assegnatogli dall'art. 199-bis del codice di procedura penale.
Tale disparità di trattamento apparirebbe "ancora più accentuata" sotto il profilo dell'art. 24 della Costituzione, "giacché l'esercizio del diritto di difesa nel processo penale per la parte che si ritiene lesa nella sfera degli interessi civili é reso inoperoso e svuotato di ogni contenuto per le frequenti e costantemente ricorrenti. difficoltà di ordine pratico che si frappongono al perfezionamento del procedimento di notificazione". Con la norma impugnata il legislatore avrebbe, infatti, dettato "un comportamento di pronta esecuzione e di rigoroso adempimento di un termine processuale di difficile e spesso impossibile realizzazione, sanzionato dalla decadenza, in evidente contrasto con la realtà fenomenica del suo normale svolgimento, come si ricava dalla numerosa casistica giudiziaria".
L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 42-bis del 18 febbraio 1985.
Nel giudizio non vi é stato né intervento del Presidente del Consiglio dei ministri né costituzione delle parti private.
Considerato in diritto
1. - Le due ordinanze di rimessione sollevano questioni di legittimità costituzionale strettamente connesse e, anzi, per un verso, addirittura coincidenti: i relativi giudizi vanno, quindi, riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.
2. - In entrambi i casi é oggetto di censura l'art. 202, secondo comma, del codice di procedura penale, là dove prescrive alla parte che impugna per i soli interessi civili di far notificare, a pena di decadenza, la dichiarazione di gravame alle altre parti "entro tre giorni".
Tanto il Tribunale di Rovigo quanto, in data più recente, le Sezioni unite penali della Corte di cassazione si richiamano all'art. 3 della Costituzione, per la violazione del principio di eguaglianza che emergerebbe dalla comparazione della norma censurata con l'art. 199-bis del codice di procedura penale, in forza del quale, usando le parole delle Sezioni unite penali, "il pubblico ministero, per la notificazione della propria dichiarazione di gravame, dispone del più lungo termine di trenta giorni dalla proposizione della dichiarazione stessa".
L'ordinanza della Corte di cassazione si richiama, inoltre, all'art. 24 della Costituzione, per la violazione del diritto di difesa che discenderebbe dalla previsione "di un termine processuale di difficile e spesso impossibile realizzazione... in evidente contrasto con la realtà fenomenica nel suo normale svolgimento", come dimostrano "le frequenti e costantemente ricorrenti difficoltà di ordine pratico che si frappongono al perfezionamento del procedimento di notificazione".
3. - Anche se l'inviolabilità del diritto di difesa viene invocata senza abbandonare l'ottica della disparità di trattamento, nell'intento anzi di sottolinearne ulteriormente l'incidenza ("Ma ancora più accentuata si appalesa la disparità di trattamento sotto il profilo dell'art. 24 della Costituzione"), il senso e la forza delle argomentazioni svolte consentono di ritenere che siano due le questioni di legittimità portate al vaglio di questa Corte: l'una comune alle due ordinanze, l'altra posta soltanto dalle Sezioni unite penali. Da ciò la necessità di esaminarle separatamente, secondo l'ordine dei parametri indicati.
4. - La prima questione non é fondata.
Il parallelo che si vorrebbe veder realizzato appieno, e quindi anche nei riguardi del termine per la notifica della dichiarazione di gravame, tra l'esercizio del diritto di impugnazione quale disciplinato nell'art. 202, secondo comma, e l'esercizio del diritto di impugnazione quale disciplinato nell'art. 199-bis (quasi sul modello di quanto avveniva all'epoca del codice di procedura penale del 1865 per la sola "domanda di cassazione": cfr. art. 654, primo comma) mette di fronte due situazioni che, per più di una ragione, non possono certo dirsi omogenee: da ciò la non irrazionalità di una disciplina eventualmente differenziata, come ha puntualmente osservato l'Avvocatura Generale dello Stato all'atto di intervenire per la Presidenza del Consiglio dei ministri nel giudizio promosso dal Tribunale di Rovigo.
A parte la diversa matrice delle due norme (l'art. 202, secondo comma, che, quanto a formulazione, risale al testo emanato nel 1930, trova diretta e precisa corrispondenza negli artt. 484 e 511 del codice di procedura penale del 1913, mentre l'art. 199-bis é stato introdotto con la riforma operata dalla legge 18 giugno 1955, n. 517) e a parte, di conseguenza, la diversa ratio loro rispettivamente sottesa (tradizionale formalismo che accompagna l'esercizio delle azioni civili nel processo penale, da un lato, e recente pieno riconoscimento dell'esigenza che all'imputato sia data tempestiva notizia dei momenti salienti relativi all'esercizio dell'azione penale, dall'altro), un rilievo si presenta decisivo: mentre l'art. 199-bis concerne un'impugnazione sempre e comunque attinente al rapporto processuale penale (v. sent. n. 155 del 1974), l'art. 202, secondo comma, riguarda le impugnazioni attinenti esclusivamente ai rapporti processuali civili inseriti nel processo penale (azione per le restituzioni o il risarcimento dei danni nascenti da reato; obbligazione civile per la multa o per l'ammenda).
Tanto poco la disparità di trattamento della quale si discute é da mettere in relazione ai soggetti del processo in sé e per sé considerati che lo stesso art. 202, secondo comma, e non l'art. 199-bis, viene a trovare applicazione nei confronti del pubblico ministero, allorché quest'ultimo abbia proposto la sola impugnazione prevista dall'art. 196 del codice di procedura penale: cioé, contro i capi della sentenza di condanna "riguardanti le istanze proposte a norma dell'art. 105", dettato per l'"esercizio dell'azione civile da parte del pubblico ministero nell'interesse di incapaci".
La lamentata disparità non intercorre, dunque, tra parte civile e pubblico ministero, come vorrebbe il Tribunale di Rovigo, oppure tra parte privata e pubblico ministero, come vorrebbero le Sezioni unite penali, ma tra una qualunque "parte", pubblico ministero compreso, "che impugna per i soli interessi civili" e il pubblico ministero che impugni in ordine al rapporto processuale penale.
Per tacere di quell'altra differenza, in forza della quale l'art. 199-bis, nel prevedere un termine più lungo, ne fa dipendere l'osservanza anche dal cancelliere, affidando l'iniziativa per la notificazione della dichiarazione di gravame presentata dal pubblico ministero "alle cure del cancelliere che l'ha ricevuta", Così da inserire un elemento solitamente senza riscontro negli sviluppi del procedimento di notificazione, completandone la regolamentazione con l'art. 8 del d.P.R. 8 agosto 1955, n. 666.
5. - La seconda questione, per come risulta prospettata, é inammissibile.
In tanto le Sezioni unite penali si dolgono del fatto che, ai sensi dell'art. 202, secondo comma, del codice di procedura penale, l'esercizio del diritto di difesa "é reso inoperoso e svuotato di ogni contenuto" in quanto, fra i tre orientamenti delineatisi nella giurisprudenza della Corte di cassazione circa l'individuazione del "momento nel quale l'onere della notificazione possa dirsi adempiuto", esse mostrano di optare per quello, più rigoroso, che ha esclusivo riguardo "al momento della consegna del plico al destinatario": con la conseguenza che le "frequenti e costantemente ricorrenti, difficoltà che si frappongono al perfezionamento del procedimento di notificazione", se non tempestivamente fronteggiate, finiscono con il ritorcersi sempre sull'impugnante, anche se del tutto immune da addebiti sotto il profilo della diligenza. Ovviamente, la lesione del diritto di difesa Così evidenziata non avrebbe modo di verificarsi, qualunque fosse l'entità del termine a disposizione, se per l'impugnante l'onere della notificazione risultasse assolto con la consegna all'ufficio competente in proposito o se, comunque, non andasse a scapito dell'impugnante l'inosservanza del termine dipesa da "negligenza o trascuratezza... ovvero... inefficienza" di pubblici uffici.
In effetti, qualora sussistessero gli estremi per passare al merito della questione, non sarebbe agevole disconoscere che la necessità di espletare un procedimento di notificazione nell'arco di soli tre giorni comporti l'osservanza di un termine "di difficile e spesso impossibile realizzazione", rendendo oltretutto addirittura impraticabile lo strumento della notificazione con il mezzo della posta. D'altro canto, "secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il diritto di difesa e di agire in giudizio deve essere regolato dalla legge in modo da garantirne l'effettività, sicché ove fossero stabiliti termini Così ristretti da renderne eccessivamente difficile l'esercizio o da vanificarlo, la relativa normativa dovrebbe esser dichiarata illegittima" (sent. n. 56 del 1979; v. anche sent. n. 42 del 1981).
Ma, se é chiara la causa petendi da cui muove il dubbio di legittimità costituzionale formulato in riferimento all'art. 24 della Costituzione, non altrettanto può dirsi del petitum, una volta esclusa (retro, punto 4) la possibilità di addivenire, nell'ambito di un giudizio di legittimità costituzionale, all'estensione del termine di cui all'art. 199- bis del codice di procedura penale, il solo ad essere indicato dal giudice a quo anche dopo l'ampliamento del discorso al diritto di difesa.
Esclusivamente nel caso che fosse dato di rintracciare un tipo di epilogo tale da poter essere considerato l'unico concretamente perseguibile in sede di controllo di costituzionalità e, quindi, non bisognoso di esplicita indicazione da parte del giudice a quo ai fini della precisazione del thema decidendum, il silenzio dell'ordinanza di rimessione non sarebbe di ostacolo ad affrontare il merito della questione.
Più di una sono, invece, le conclusioni che, nell'intento di ovviare agli inconvenienti lamentati, potrebbero ipotizzarsi come oggetto di domanda a questa Corte: dalla caducazione del termine (o, addirittura, dell'onere che gli si ricollega) all'invalidazione dell'art. 202, secondo comma, in quanto, sulla base dell'interpretazione allo stato preferita dalle Sezioni unite penali, fa dipendere l'adempimento dell'onere della notificazione dalla consegna del plico al destinatario anziché nelle mani dell'ufficiale giudiziario, oppure in quanto non prevede la possibilità di escludere la decadenza allorché il termine sia vanamente decorso per causa non imputabile all'impugnante. Senza contare che, sotto quest'ultimo profilo, verrebbe ad evidenziarsi come, in ultima analisi, le difficoltà lamentate dipendano non solo dalla brevità del termine, ma anche dai meccanismi fortemente condizionati e condizionanti del procedimento notificatorio, a sua volta passibile di rielaborazione o comunque di adattamenti. Per non dire, infine, dell'ipotesi di una sostituzione del termine di tre giorni con altri meno brevi ricavabili dalle regole vigenti per la notificazione delle impugnazioni in materia processuale civile, alla stregua di quanto esplicitamente statuiva circa l'appello della parte civile o dell'imputato "pel solo suo interesse civile" l'art. 370 del codice di procedura penale del 1865.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 202, secondo comma, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Rovigo con ordinanza del 2 marzo 1978 e dalle Sezioni unite penali della Corte di cassazione con ordinanza del 24 marzo 1984;
2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 202, secondo comma, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all'art. 24 della Costituzione, dalle Sezioni unite penali della Corte di cassazione con la stessa ordinanza del 24 marzo 1984.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 gennaio 1986.
Livio PALADIN - Oronzo REALE - Albero MALAGUGINI - Antonio LAPERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO
Depositata in cancelleria il 3 febbraio 1986.