SENTENZA N. 194
ANNO 1985
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN, Presidente
Avv. Oronzo REALE
Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI
Avv. Alberto MALAGUGINI
Prof. Livio PALADIN
Prof. Antonio LA PERGOLA
Prof. Virgilio ANDRIOLI
Prof. Giuseppe FERRARI
Dott. Francesco SAJA
Prof. Giovanni CONSO
Prof. Ettore GALLO
Dott. Aldo CORASANITI
Prof. Giuseppe BORZELLINO
Dott. Francesco GRECO, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, terzo comma, d.l. 15 dicembre 1979 n. 625 (Misure urgenti per la tutela dell'ordine democratico e della sicurezza pubblica), conv. nell'art. 1 legge 6 febbraio 1980 n. 15; dell'art. 280, u.c., codice penale e dell'art. 3, u.c., legge 29 maggio 1982 n. 304, promosso con ordinanza emessa il 24 febbraio 1984 dalla Corte d'Assise di Genova nei procedimenti penali riuniti a carico di Miglietta Fulvia ed altri, iscritta al n. 1010 del registro ordinanze 1984 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34 bis dell'anno 1985.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 16 aprile 1985 il Giudice relatore Ettore Gallo.
Ritenuto in fatto
Con ordinanza 24 febbraio 1984 (pervenuta a questa Corte l'8 agosto successivo) la Corte d'Assise di Genova esponeva di procedere, nei confronti di tale Miglietta Fulvia ed altri, per imputazioni concernenti il delitto di cui all'art. 280, primo e secondo comma, cod. pen., nonché altri reati aggravati dalla finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico à sensi dell'art. 1 d.l. 15 dicembre 1979 n. 625, convertito con modificazioni nella l. 6 febbraio 1980 n. 15. Precisava l'ordinanza che l'attentato, relativo all'imputazione di cui all'art. 280 cod. pen., riguardava l'incolumità personale di due persone che avevano riportato gravi lesioni.
Precisava altresì l'ordinanza che la Miglietta ed altri tre imputati, pur dovendo essere dichiarati colpevoli, apparivano meritevoli di attenuanti generiche, mentre poi alla Miglietta stessa e a due degli altri tre dovevano essere concesse anche le attenuanti previste dall'art. 3 della l. 29 maggio 1982, n. 304 per la collaborazione prestata nel processo.
Riteneva, però la Corte d'Assise: 1) che in realtà le attenuanti generiche non potessero in alcun modo essere applicate, in quanto vi ostava la preclusione introdotta dal terzo comma dell'art. 1 d.l. 15 dicembre 1979 n. 625 così come modificato dalla l. 6 febbraio 1980 n. 15; 2) che analoga preclusione comportasse l'ultimo comma dell'art. 280 cod. pen. 3) che, infine, l'art. 3 ultimo comma della l. 29 maggio 1982 n. 304 escludeva bensì, per i dissociati, le preclusioni contemplate dall'art. 1, terzo comma, della l. n. 15/1980, di cui s'é detto al n. 1, ma non altrettanto prevedeva per le "simmetriche" identiche preclusioni di cui all'ultimo comma dell'art. 280 cod. pen.
Tutte tali situazioni comporterebbero - secondo l'ordinanza - disparità di trattamento, e irrazionalità, confliggenti con l'art. 3, primo comma. Cost., e perciò veniva sollevata questione di legittimità costituzionale.
Quanto alla motivazione, ripeteva l'ordinanza quelle stesse già esposte nella precedente 21 dicembre 1983 per quanto si riferisce all'art. 1 della l. 6 febbraio 1980 n. 15: si rilevava, cioé, che la valutazione del fatto non poteva non essere globale e quindi non si poteva non tenere conto di circostanze attenuanti che venivano eventualmente a differenziare la posizione di un imputato da quella del concorrente: mentre escludendole - come, ad avviso dell'ordinanza, il legislatore prescriveva - si dava identico trattamento sanzionatorio a situazioni differenziate da merito diverso.
Circa, poi, l'analoga questione proposta in relazione all'ultimo comma dell'art. 280 cod. pen., l'ordinanza faceva osservare che, essendo simmetrico il meccanismo di esclusione, identiche erano le ragioni su cui veniva a fondarsi l'illegittimità.
Infine, per quanto si riferisce all'ultimo comma dell'art. 3 della l. n. 304/1982, la Corte genovese motivava la denunzia sostenendo che, non prevedendosi analoga esclusione per le preclusioni contenute nell'u.c. dell'art. 280 cod. pen, si determinava disparità di trattamento fra i comportamenti di dissociazione riferiti a fatti commessi prima dell'entrata in vigore della l. n. 15/1980, e quelli riferiti a fatti commessi successivamente.
La rilevanza risultava implicita nel fatto che, senza la richiesta declaratoria d'illegittimità, la Corte d'Assise non avrebbe potuto concedere le attenuanti di cui in narrativa aveva indicato taluni imputati come meritevoli.
Considerato in diritto
1. - La prima questione, che la Corte d'Assise di Genova ripropone, é quella stessa già sollevata con ordinanza 21 dicembre 1983, da questa Corte già esaminata e decisa con sent. 13 febbraio 1985 n. 38: benché debba rilevarsi che la Corte d'Assise genovese non poteva averne ancora appreso dispositivo.
Le argomentazioni addotte sono, comunque, identiche a quelle già prospettate, ed anzi l'ordinanza le richiama espressamente. La Corte costituzionale non ritiene, perciò, di doversi discostare dalla citata sentenza interpretativa.
Secondo la prassi, la questione andrà ora dichiarata manifestamente infondata.
2. - Molto più grave e complessa é, invece, l'analoga questione che l'ordinanza attuale solleva nei confronti dell'u.c. dell'art. 280 cod. pen., sempre con riferimento all'art. 3 Cost.
Secondo la Corte d'Assise genovese si tratterebbe di questione perfettamente parallela all'altra; essa avrebbe avuto, anzi, identico iter nella conversione dal decreto alla legge, ricevendo uguali modificazioni e per le stesse ragioni.
Il Ministro Guardasigilli, del resto, nel suo intervento in sede di conversione, parlò esplicitamente di "ovvie ragioni di simmetria" con quanto si proponeva in ordine all'art. 1 della l. 15/1980, di cui alla prima questione.
Tuttavia, se questo é effettivamente esatto sul piano formale, e se é vero, perciò, che questa é stata senza dubbio l'opinione dei compilatori, molte riserve debbono essere, però, espresse in ordine al testo della norma così come é risultato nella versione definitiva.
Certo, anche in questa ipotesi il legislatore impone al giudice di non dare corso a giudizio di bilanciamento, di prevalenza o di equivalenza, nei confronti di circostanze attenuanti che concorrano "con le circostanze aggravanti previste nel secondo e quarto comma". Facile, dunque, sembrerebbe, in prima approssimazione, applicare a questa ipotesi "simmetrica" i risultati raggiunti in sede d’interpretazione della corrispondente disposizione di cui all'art. 1 della citata l. 15/1980.
Ed é quanto, infatti, chiede la Corte d'Assise di Genova, aggiungendo anche un ulteriore argomento che specificamente riguarda l'art. 280 cod. pen.: argomento inteso ad esaltare la denunziata irrazionalità. Si osserva, infatti, che essendo il riferimento dell'u.c. limitato al secondo e al quarto comma, le attenuanti risulterebbero conseguentemente applicabili, e persino ammesse a giudizio favorevole di bilanciamento, nei confronti di chi, attentando alla vita di una persona, abbia cagionato lesioni gravi o gravissime. Infatti - si fa osservare - nel secondo comma, oggetto dell'esclusione, queste conseguenze sono previste limitatamente all'ipotesi di chi abbia attentato all'incolumità, mentre l'attentato alla vita sarebbe disciplinato in modo autonomo dal primo comma.
Il rilievo, però, é suggestivo ma non convincente.
Infatti, se il legislatore ha escluso quel favorevole giudizio comparativo quando sieno derivate lesioni (gravi o gravissime) dall'attentato all'incolumità della persona, sembra evidente che non abbia inteso di ammetterlo quando l'attentato fosse diretto a sopprimere la vita, giacché nel più grave attentato alla vita é ovviamente ricompreso anche quello meno grave all'incolumità: per cui tanto meno il favorevole giudizio può essere ritenuto ammissibile quando, ovviamente non escludendo l'offesa all'incolumità, l'agente miri addirittura a sopprimere la vita umana. Si tratta, insomma, di un'ovvietà logica, per la quale non é nemmeno necessario ricorrere alla nozione d'interpretazione estensiva.
3. - Vero é, invece, che ben altre considerazioni potrebbero portare ad escludere quella "simmetria" che dovrebbe dare ingresso all'interpretazione utilizzata per la prima questione.
Già nella precedente citata sentenza (n. 38/1985) questa Corte aveva incidenter tantum rilevato come il legislatore della Repubblica abbia ritenuto di condividere nel rinnovato art. 280 cod. pen. la disciplina che il codice Rocco aveva data, oltre mezzo secolo fa, alle fattispecie di lesioni personali, così come appariva nel valore letterale del dato testuale, in conformità ai suggerimenti della relazione del Guardasigilli dell'epoca. Anche il legislatore attuale, infatti, mostra di considerare circostanze aggravanti del titolo di lesione personale semplice, e non autonome figure di reato, le lesioni personali gravi o gravissime di cui all'art. 583 cod. pen.: é, infatti, soltanto sulla base di tale convinzione che ha ritenuto di poter escludere il giudizio favorevole di comparazione con circostanze attenuanti eventualmente concorrenti.
Ma la dottrina più moderna ha da tempo rilevato che, anche a prescindere da altre importanti considerazioni, fra le ipotesi previste nell'art. 583 cod. pen., ve ne é almeno qualcuna (ad es.: art. 583, primo comma, n. 1) nella quale non é ravvisabile l'elemento essenziale (la malattia) che configura nel delitto descritto nell'articolo precedente; di tal che, venendo a mancare la imprescindibile comunanza, fra le tre fattispecie, di tutti gli estremi essenziali (salva l'aggiunta di quel quid pluris che rappresenta la maggiore gravità), é da escludere che si tratti di forme circostanziate della lesione tipica.
Orbene, fino a quando il concorso di circostanze aggravanti ed attenuanti é stato regolato dalle originarie disposizioni dell'art. 69 cod. pen., ed in particolare del suo ultimo comma che escludeva qualsiasi bilanciamento quando, fra l'altro, la misura della pena determinata dalla legge in modo indipendente da quella ordinaria del reato, non sorgevano difficoltà a proposito delle fattispecie di lesioni personali: infatti, tanto per le lesioni gravi quanto per le gravissime, la pena é determinata appunto in modo indipendente, e perciò il problema del concorso di circostanze non si poneva.
Ma, dopo che l'art. 6 del d.l. 11 aprile 1974 n. 99, convertito nella l. 7 giugno 1974 n. 220 ha esteso anche alle ipotesi tutte del quarto comma dell'art. 69 cod. pen. il giudizio di equivalenza o di prevalenza, si viene a verificare l'anomala situazione di figure autonome di reato che, essendo state definite dal legislatore del '30 come circostanze aggravanti, possono essere anche poste nel nulla - se il giudice lo ritiene - dalla presenza di circostanze attenuanti anche generiche, nella globale valutazione del fatto.
Il che potrebbe indurre sospetto di disparità di trattamento nei confronti di chi debba rispondere di altre analoghe figure di reato, o almeno di chi avendo voluto e commesso soltanto lesioni lievi potrebbe vedersi sottoposto allo stesso trattamento sanzionatorio di chi ha voluto e commesso lesioni gravissime.
Né i problemi si fermerebbero qui. Ritenendo, infatti, lesioni gravi e gravissime come circostanze aggravanti del titolo di lesioni tipiche, diventa inderogabilmente operativo l'art. 59 cod. pen. che le pone a carico dell'agente, anche se da lui non conosciute o da lui ritenute per errore inesistenti: il che comporta un'imputazione sostanziale di fattispecie di reato, dalle gravi conseguenze sanzionatorie, a titolo di responsabilità oggettiva.
Ovviamente, il parametro di confronto sarebbe in tal caso diverso, perché riguarderebbe l'art. 27 Cost. e, quindi, il significato del principio di personalità della responsabilità penale. Vero é, però, che in tal caso andrebbe anche rimeditato il principio affermato da questa Corte con la sentenza 19 gennaio 1972 n. 6, secondo cui, "senza riprendere l'amplissima discussione sulla legittimità costituzionale dell'art. 42, comma terzo, cod. pen.", sarebbe sufficiente, ai fini dell'elemento psicologico di cui all'art. 583 cod. pen., la coscienza e volontà di recare un danno nel corpo alla persona offesa, irrilevanti restando la previsione e la volontà relative alla quantità di questo danno, peraltro difficile da prevedere. Senonché, a prescindere dalle questioni relative alla prevedibilità del maggior danno da parte di chi abbia diretto la sua condotta al conseguimento di lesioni semplici (che, peraltro, nemmeno l'auspicata reintroduzione del titolo di lesioni preterintenzionali, già previsto dal codice Zanardelli, in realtà risolverebbe, dato che anche in ordine alla preterintenzione si riproporrebbe il problema dell'imputazione della responsabilità per l'evento più grave non voluto), il problema di un trattamento indifferenziato e irrazionale sorge proprio nel confronto fra l'ipotesi di chi l'evento di lesioni gravi e gravissime abbia preveduto, voluto e conseguito, e di chi invece solo alle lesioni semplici abbia diretto il proposito e la condotta.
Tuttavia, in considerazione della gravità e dell’amplissima latitudine di così complessa problematica, che coinvolge i cardini stessi del sistema penale in vigore e non soltanto del codice sostanziale, sembra alla Corte inopportuno affrontarne la soluzione incidenter tantum, anche nell'auspicio che il legislatore ponga mano frattanto ad una riforma radicale del sistema stesso di cui é ormai fortemente sentita l'esigenza.
Tanto più che il diritto vivente, così come risulta anche dalle più recenti sentenze della Corte di Cassazione, persiste nella tradizionale considerazione di queste fattispecie, riducendo il collegamento psicologico, fra l'azione e il più grave evento attinto, ad una specie di presunzione di dolo eventuale, fondata sulla reale sussistenza di un dolo generico di lesione.
4. - In tali condizioni, e ferme le riserve e gli auspici espressi, non resta alla Corte che dare applicazione, anche relativamente alle ipotesi di cui al secondo comma dell'art. 280 cod. pen., ai principi espressi nella sentenza interpretativa 13 febbraio 1985 n. 38.
Deve, però, rilevarsi che, per quanto si riferisce all'ultimo comma oggetto dell'impugnazione, gli effetti della citata sentenza debbono restare limitati appunto alle ipotesi previste nel secondo comma: e ciò, sia perché l'ipotesi di cui al comma quarto (pure richiamata dal comma impugnato) non ricorre nella specie, non essendo stata cagionata la morte di persona alcuna, sia perché comunque quei principi non potrebbero mai essere applicati al titolo di omicidio. Né la dottrina, infatti, né la giurisprudenza più ossequiente alle interpretazioni tradizionali hanno mai ritenuto che l'omicidio potesse essere considerato circostanza aggravante della fattispecie di lesioni semplici.
Evidentemente il legislatore, trattandosi di una fattispecie di attentato, é stato tratto in inganno dalla categoria dei cosiddetti "delitti aggravati dall'evento" e ha perciò trattato l'omicidio, conseguente agli attentati previsti nel quarto comma, come un aggravamento della fattispecie base formulata nel primo comma dell'art. 280 cod. pen.
Senonché, va rilevato che la detta categoria non é omogenea: in essa rientrano, infatti, tanto fattispecie con eventi ulteriori per i quali l'aggravante si verifica in ogni caso, indipendentemente dal collegamento psichico con l'agente, quanto altre in cui l'evento ulteriore non deve essere voluto perché, se voluto, si verifica una figura criminosa diversa. Orbene, sicuramente tra i delitti contro la Personalità dello Stato vi sono ipotesi che rientrano nella categoria dei delitti aggravati dall'evento, e sono tutte della prima specie (si veda gli artt. 253, 255, 257, 261, 262, 287 cod. pen.), ma ad essa altrettanto sicuramente non appartengono i cosiddetti "delitti di attentato", nei quali l'evento ulteriore, che comporta aumento della pena, null'altro rappresenta se non la realizzazione del fine cui l'azione era diretta.
Quel fine che é già contemplato nella condotta attentante prevista dall'ipotesi base: la quale, perciò, si presenta come situazione di pericolo, autonomamente punita, rispetto alla situazione di danno integrata dall'evento ulteriore. É questo, infatti, il senso - non del tutto corretto - in cui si parla di "delitti a consumazione anticipata". Tuttavia, come già si era rilevato nella precedente citata sentenza, una volta che la più moderna dottrina e la Corte di Cassazione (anche a Sezioni Unite) hanno riconosciuto che l'azione descritta nei delitti di attentato debba possedere l'idoneità discendente dal principio generale di cui all'art. 49 secondo comma cod. pen., molti equivoci potrebbero essere evitati se il legislatore decidesse di abbandonare formule così arcaiche, utilizzando la forma generale di cui all'art. 56 cod. pen.
Certo si é, comunque, che - come ormai appare chiaro - l'ipotesi del comma quarto dell'art. 280 cod. pen., rappresentando il fine realizzato cui tendeva la condotta di attentato alla vita prevista nel primo comma, oppure l'evento eventuale o, quanto meno, preterintenzionale della condotta di attentato all'incolumità, ivi pure contemplata in alternativa, non può assolutamente in nessun caso essere considerato come circostanza aggravante: il che comporta l'assurdità di porre in concorso l'evento interno ad un delitto con l'evento proprio di circostanze attenuanti, giusta quanto appunto dispone l'ultimo comma dell'art. 280 cod. pen.
5. - La terza ed ultima questione, sollevata dalla Corte d'Assise di Genova, riguarda l'art. 3 della l. n. 304/1982. Questo, infatti, é stato impugnato nella parte in cui non prevede l'esclusione delle preclusioni contenute nell'art. 280 cod. pen. di cui si é parlato nei numeri precedenti, così come invece espressamente contempla l'esclusione di quelle di cui all'art. 1 della l. n. 15/1980 (di cui si é detto al n. 1) per coloro che, avendo commesso reati per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine costituzionale, collaborano con l'autorità di polizia o con quella giudiziaria.
Secondo i giudici rimettenti, l'irrazionalità della disposizione, come tale confliggente con l'art. 3 Cost., sarebbe rappresentata dalla disparità di trattamento che verrebbe a verificarsi fra chi abbia prestato la sua collaborazione con riferimento a fatti commessi prima dell'entrata in vigore della l. 6 febbraio 1980 n. 15, rispetto a chi abbia tenuto lo stesso comportamento ma con riferimento a fatti commessi successivamente all'entrata in vigore della legge predetta. Di più l'ordinanza non dice, e non chiarisce, perciò, in che esattamente consista la lamentata disparità.
Sembra, tuttavia, che si voglia mettere in evidenza come, nel primo caso, lo stesso comportamento attinga benefici più ampi in quanto i fatti, commessi prima dell'entrata in vigore della legge citata, erano stati sanzionati con pene più miti. Se così é, però, é allora evidente l'equivoco nel quale incade l'ordinanza: la diversità, infatti, fra le due situazioni non dipende dalla legge attributiva dei benefici, che sono sempre accordati in eguale misura per lo stesso meritevole comportamento processuale. Essa dipende, invece, dal fatto che i reati sieno stati commessi sotto l'impero di leggi più miti oppure più severe: situazioni ineliminabili, e ricorrenti, d'altra parte, ogni qualvolta l'agente non si sia lasciato dissuadere dalla più grave intimidazione dipendente dalla prevenzione generale contenuta nella legge più severa.
La motivazione avrebbe dovuto, invece, incentrarsi semmai proprio in relazione alla dedotta illegittimità, sulle differenze di trattamento che asseritamente venivano a discendere dalla esclusione del meccanismo preclusivo di cui all'art. 1 della legge 15/1980, che l'ultimo comma della legge denunziata comporta, e la mancata esclusione dell'analogo meccanismo inserito nell'ultimo comma dell'art. 280 cod. pen.
Ma sul punto non vi é alcun cenno.
Il che, anche a prescindere dal fatto che si richiederebbe alla Corte costituzionale un'additiva penale, e dai rilievi di merito avanzati dall'Avvocatura, é già di per sé causa d'inammissibilità.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, terzo comma, del d.l. 15 dicembre 1979 n. 625, così come convertito nell'art. 1 della l. 6 febbraio 1980 n. 15, sollevata dalla Corte d'Assise di Genova con ordinanza 24 febbraio 1984 (pervenuta a questa Corte l'8 agosto successivo) con riferimento all'art. 3, primo comma, Cost.;
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 280, ultimo comma, cod. pen., sollevata dalla stessa autorità giudiziaria con la stessa ordinanza, con riferimento all'identico parametro;
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, ultimo comma, della l. 29 maggio 1982, n. 304, sollevata sempre dalla stessa Corte d'Assise, collo stesso provvedimento e con riferimento al detto parametro, limitatamente alla parte in cui non prevede che non si applichi l'ultimo comma dell'art. 280 cod. pen., quando ricorrono le circostanze di cui ai precedenti commi dell'articolo impugnato.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 giugno 1985.
Guglielmo ROEHRSSEN - Ettore GALLO
Depositata in cancelleria il 3 luglio 1985.