SENTENZA N. 207
ANNO 1982
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Prof. Antonino DE STEFANO
Dott. Michele ROSSANO
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN
Avv. Oronzo REALE
Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI
Prof. Livio PALADIN
Dott. Arnaldo MACCARONE
Prof. Virgilio ANDRIOLI
Prof. Giuseppe FERRARI
Dott. Francesco SAJA
Prof. Giovanni CONSO
Prof. Ettore GALLO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 9, 10, 12 e 14 della legge 14 ottobre 1974, n. 497 (Nuove norme contro la criminalità) promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 23 febbraio 1976 dal tribunale di Brindisi nel procedimento penale a carico di Tetesi Antonio, iscritta al n. 409 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 177 del 7 luglio 1976;
2) cinque ordinanze emesse il 20 e il 27 maggio, il 10 giugno ed il 31 ottobre 1977 e il 3 aprile 1978 dal tribunale di Belluno, nei procedimenti penali a carico, rispettivamente di Case Mario ed altro, Zanzottera Guido, Costa Pietro, Sacchet Osvaldo e Penzo Franco, iscritte ai nn. 396, 339 e 465 del registro ordinanze 1977 e ai nn. 222 e 512 del registro ordinanze 1978 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 286 del 19 ottobre 1977, n. 265 del 28 settembre 1977, n. 334 del 7 dicembre 1977, n. 186 del 5 luglio 1978 e n. 17 del 17 gennaio 1979;
3) ordinanza emessa il 25 ottobre 1979 dal tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di Merlino Angela ed altri, iscritta al n. 787 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 357 del 31 dicembre 1980;
4) ordinanza emessa il 4 febbraio 1980 dal tribunale di Grosseto nel procedimento penale a carico di Squarcia Giuliano ed altro, iscritta al n. 157 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 131 del 14 maggio 1980.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 6 ottobre 1982 il Giudice relatore Antonino De Stefano;
udito l'avvocato dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Nelle parti relative alla misura delle pene detentive comminate per i reati di detenzione e porto illegali di "armi comuni da sparo", il Tribunale di Brindisi, nel corso di un procedimento penale a carico di Tetesi Antonio, con ordinanza 23 febbraio 1976 ha sottoposto al giudizio di questa Corte gli artt. 10, 12 e 14 della legge 14 ottobre 1974, n. 497 (Nuove norme contro la criminalità). Di fronte al principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione - si rileva nell'ordinanza - non si giustifica che tali pene, sia riguardo al minimo ("mesi otto, e, rispettivamente, un anno e quattro mesi di reclusione"), sia riguardo al massimo, siano superiori a quelle che l'art. 23, commi terzo e quarto, della legge 18 aprile 1975, n. 110 (Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi), a sua volta prevede per le ipotesi (secondo il tribunale sicuramente più gravi) della detenzione e del porto d'armi da sparo "clandestine" (quali, secondo quanto previsto al primo comma dello stesso art. 23, vanno considerate le armi da sparo "non catalogate" o "sprovviste dei prescritti numeri, contrassegni e sigle"). In base al richiamato principio costituzionale della eguaglianza, infatti, "come a situazioni eguali debbono corrispondere eguali diritti ed eguale tutela giurisdizionale, così ad uno stesso fatto, ritenuto penalmente illecito, non può che corrispondere una sanzione meno severa nell'ipotesi attenuata e una sanzione più severa nell'ipotesi aggravata". Non conformi a tali esigenze le norme impugnate sarebbero perciò - secondo il giudice a quo - in contrasto col precetto costituzionale.
Adempiute le formalità di rito, dinanzi alla Corte é intervenuta, per il Presidente del Consiglio dei ministri, l'Avvocatura dello Stato, secondo la quale, dato che le imputazioni di cui il su nominato Tetesi é chiamato a rispondere nel processo a quo, consistono in due contravvenzioni, previste dal codice penale agli artt. 697 (detenzione abusiva di armi) e 699 (porto abusivo di armi), punibili, tutt'al più, con l'arresto, non si comprenderebbe come esse consentano di proporre la questione di legittimità costituzionale sollevata dal tribunale. Probabilmente - soggiunge l'Avvocatura - altri sono i reati che il giudice a quo ritiene debbano essere contestati all'imputato, ma ciò non risulta in alcun modo, né dai capi di imputazione, né dagli atti processuali. I quali dovrebbero, quindi, essere restituiti al tribunale, perché, sul punto relativo alla rilevanza della proposta questione, dia la necessaria - e allo stato mancante - motivazione.
2. - Una questione del tutto analoga, sempre in riferimento all'art. 3 della Costituzione, ma nei confronti, oltre che degli artt. 10, 12 e 14 della legge n. 497 del 1974, dell'art. 9 della stessa legge (riguardante la "cessione" di armi), é stata altresì sollevata, su istanza della difesa e concorde richiesta del pubblico ministero, con due ordinanze, di motivazione pressocché identica, del tribunale di Belluno, emesse, in data 20 e 27 maggio 1977, nel corso di altrettanti procedimenti penali, a carico di Case Mario e Biasuz Roberto, e, rispettivamente, di Zanzottera Guido.
La soluzione del dubbio di legittimità costituzionale - afferma in entrambe le ordinanze il giudice a quo - é rilevante ai fini della decisione del procedimento penale. Quanto alla non manifesta infondatezza del dubbio stesso, riguardo agli artt. 10, 12 e 14 della legge n. 497 (detenzione e porto di armi), i motivi accolti dal tribunale di Belluno ricalcano quelli esposti nella su riferita ordinanza - alla quale viene fatto esplicito richiamo - del tribunale di Brindisi. Inoltre, per quel che particolarmente attiene alla cessione illegale - prevista, riguardo alle armi comuni da sparo, dall'art. 9 -il giudice a quo osserva che anche rispetto a questa ipotesi (sia pure limitatamente alla pena pecuniaria) la norma impugnata rivela una maggiore ingiustificata severità, rispetto alla sanzione comminata dall'art. 23, comma secondo, della legge n. 110 del 1975, per quella, indubbiamente più grave, della cessione di armi "clandestine".
Intervenuta, anche in questi giudizi, per il Presidente del Consiglio dei ministri, l'Avvocatura dello Stato ha chiesto che la questione sollevata sia dichiarata priva di fondamento. Le fattispecie delittuose poste a raffronto agli effetti della loro gravità e in relazione alle conseguenti pene per esse rispettivamente previste, sono del tutto differenti: quelle di cui agli artt. 10 e 12 della legge n. 497, concernenti le "armi da guerra" e rese valide per le "armi comuni da sparo" dal successivo art. 14, si riferiscono, rispettivamente, alla detenzione ed al porto di armi, la cui illiceità deriva dalla carenza dei prescritti titoli di polizia. Le disposizioni dell'art. 23, terzo e quarto comma, della legge n. 110, presuppongono, invece, l'esistenza dell'autorizzazione di p.s. per la detenzione e per il porto (come dimostra la previsione di revoca dell'autorizzazione e di confisca delle armi, di cui al quinto comma dello stesso art. 23), e l'illecita é in sostanza riferibile solo al tipo dell'arma posseduta. Secondo l'Avvocatura non é, quindi, irrazionale, che il legislatore abbia ritenuto una certa condotta più grave, allorché si riferisca ad armi per le quali la detenzione ed il porto mancano dei prescritti titoli di polizia, e meno grave quando invece si riferisca ad armi cosiddette "clandestine" ma autorizzate. Un problema di politica legislativa - quale sarebbe quello in tal modo risolto dal legislatore - non può essere confuso con un problema di legittimità costituzionale.
3. - In base a motivi del tutto identici a quelli addotti nelle precedenti ordinanze, la medesima questione, in relazione all'art. 23, comma terzo, della legge n. 10 del 1975, e all'art. 3, comma primo, della Costituzione, nei confronti dei soli artt. 10 e 14 della legge n. 497 del 1974, é stata ritenuta non manifestamente infondata dal tribunale di Belluno anche in altre tre ordinanze, emesse il 10 giugno e il 31 ottobre 1977, e il 3 aprile 1978, nel corso di altrettanti procedimenti penali a carico, rispettivamente, di Costa Pietro, Sacchet Osvaldo e Penzo Franco.
In nessuno dei giudizi promossi con le tre suindicate ordinanze si sono avute costituzioni di parti private o interventi del Presidente del Consiglio dei ministri.
4. - La questione di legittimità costituzionale degli artt. 10 e 14 della legge n. 497 del 1974, nella parte in cui puniscono la detenzione illegale di armi non considerate clandestine, più gravemente di quanto faccia per le armi clandestine l'art. 23 della legge n. 110 del 1975, é stata ritenuta non manifestamente infondata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, e rilevante nella fattispecie, anche in una ordinanza, emessa il 4 febbraio 1980 dal tribunale di Grosseto.
Secondo il tribunale "non può non cogliersi l'evidente sperequazione di trattamento riservata alle due diverse fattispecie, nelle quali quella oggettivamente più grave é punita con pena più lieve, onde il giudice, pur muovendo dalla pena minima edittale, é costretto ad infliggere all'imputato del reato di cui agli artt. 10 e 14 della legge n. 497 del 1974, una pena maggiore di quella che, per una violazione più grave, può essere nel minimo inflitta a chi risponda del reato di cui all'art. 23 della legge n. 110 del 1975".
La questione é stata sollevata, su eccezione della difesa, nel corso di un procedimento a carico di Squarcia Giuliano e Serafino Vincenzo, chiamati a rispondere, in concorso fra loro, secondo quanto risulta dalla stessa ordinanza, della detenzione di un'arma da essi mai denunciata.
5. - Le su indicate disposizioni degli artt. 10 e 14 della legge n. 497 del 1974 sono state impugnate anche con una ordinanza, in data 25 ottobre 1979, del tribunale di Milano. La questione é stata sollevata, su eccezione della difesa di uno degli imputati, Merlino Angela, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, nel corso di un procedimento penale, nel quale alla stessa Merlino e ad Agresta Giovanni erano stati contestati, con altri, i reati previsti e puniti dagli artt. 10 e 14 della legge n. 497 del 1974, e 23, comma secondo, della legge n. 110 del 1975, per avere, in concorso fra loro, "illegalmente detenuto una pistola Browning 7,65, con la matricola abrasa, e perciò da ritenersi arma clandestina".
Nell'ordinanza di rinvio - premesso che, pur essendo prerogativa del legislatore stabilire, in base a scelte di politica criminale, la misura della pena nelle singole fattispecie, l'uso di tale potere discrezionale deve ispirarsi al rispetto del generale principio di ragionevolezza e dei principi costituzionali - si osserva che senza dubbio la detenzione di arma "clandestina" é fatto di più grave entità, sotto ogni profilo, rispetto alla detenzione di arma comune, e pertanto non appare ragionevole aver previsto, per la prima ipotesi, sanzioni penali più lievi, nel minimo e nel massimo, di quelle previste per la seconda. In ciò, secondo il giudice a quo, il denunciato contrasto con il dettato dell'art. 3 della Costituzione, in base al quale, come situazioni identiche devono avere una eguale disciplina, così situazioni penalmente rilevanti, fra loro diverse, devono essere sanzionate in modo da rispettare il principio che a fatto più grave corrisponda una misura afflittiva più severa e a fatto meno grave una più lieve sanzione.
Né varrebbe obiettare - prosegue l'ordinanza - che, essendo diversi gli interessi protetti dalle due normative in questione, le due previsioni criminose, in conseguenza di tale diversa oggettività giuridica, potrebbero tra loro concorrere. Si tratta, infatti, di una interpretazione, come tale pur sempre opinabile, alla quale non é stata forse estranea la necessità di superare la irrazionalità del trattamento punitivo adottato dal legislatore. Comunque - si aggiunge - proprio la possibilità di interpretazioni diverse comporta la disparità di trattamento di fattispecie uguali.
Oltre che non manifestamente infondata, per le ragioni suesposte, la questione appare al tribunale rilevante, nel caso di specie, "nonostante che l'imputata - così testualmente l'ordinanza - debba rispondere non di detenzione di arma comune, bensì di detenzione di arma clandestina". "L'imputata, infatti - prosegue il giudice a quo - dovendo rispondere, allo stato, dei due reati a lei contestati in concorso, potrebbe subire, in caso di condanna, pregiudizio in conseguenza dell'esercizio del potere discrezionale, demandato al giudice ex art. 81 cod. pen., nella determinazione concreta della pena".
6. - Nel giudizio promosso dal tribunale di Grosseto, ed in quello promosso dal tribunale di Milano, non si sono avute costituzioni di parti private, o interventi del Presidente del Consiglio dei ministri.
7. - Alla pubblica udienza del 6 ottobre 1982, dopo che il giudice Antonino De Stefano ha svolto la relazione, l'avvocato dello Stato Giorgio Azzariti ha insistito per la restituzione degli atti al giudice a quo nel giudizio promosso con l'ordinanza del tribunale di Brindisi, e per la dichiarazione di non fondatezza delle questioni deferite con le due ordinanze del tribunale di Belluno, nei cui giudizi é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri.
Considerato in diritto
1. - Le otto ordinanze di cui in narrativa deferiscono alla Corte questioni di legittimità costituzionale, in parte identiche in parte connesse, aventi ad oggetto gli artt. 9, 10, 12 e 14 della legge 14 ottobre 1974, n. 497 (Nuove norme contro la criminalità), nelle parti relative alla misura delle pene previste per i delitti di cessione senza licenza dell'autorità, detenzione illegale e porto illegale in luogo pubblico o aperto al pubblico, di armi comuni da sparo.
Pertanto, i relativi giudizi vengono riuniti per esser decisi con unica sentenza.
2. - Nell'ordinanza del tribunale di Brindisi la rilevanza nel giudizio a quo della sollevata questione é affermata apoditticamente, senza il minimo riferimento alla concreta fattispecie, come giustamente eccepisce l'Avvocatura dello Stato. La stessa carenza in punto di rilevanza é dato riscontrare nelle cinque ordinanze del tribunale di Belluno. Deve pertanto, in armonia con la costante giurisprudenza di questa Corte (si vedano, da ultimo, le sentenze n. 201 del 1981 e nn. 108, 109 e 158 del 1982), dichiararsi la inammissibilità delle proposte questioni.
3. - Con le due rimanenti ordinanze, dei tribunali di Grosseto e di Milano, viene sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 10 e 14 della legge n. 497 del 1974 (rectius, degli artt. 2 e 7 della legge 2 ottobre 1967, n. 895, nei testi rispettivamente sostituiti dagli artt. 10 e 14 della legge n. 497 del 1974), nella parte in cui puniscono la detenzione illegale di armi comuni da sparo, più severamente di quanto il comma terzo dell'art. 23 della legge 18 aprile 1975, n. 110, preveda per la detenzione di armi considerate "clandestine" a norma del comma primo dello stesso articolo. In ciò i giudici a quibus ravvisano una sperequazione di trattamento, in quanto la detenzione di "arma clandestina" sarebbe fatto di più grave entità rispetto alla detenzione illegale di arma comune, e pertanto non apparirebbe ragionevole che il legislatore abbia previsto, per la prima ipotesi, sanzioni penali più lievi di quelle previste per la seconda.
4. - La questione non é fondata.
Giova premettere che la Corte di cassazione ha più volte affermato che le norme, che i giudici a quibus hanno posto a raffronto nelle ordinanze di rimessione, prevedono due condotte criminose, diverse e compatibili, in quanto violatrici di due distinti precetti legislativi, ispirati da ragioni ed esigenze diverse. La illegalità della detenzione dell'arma comune da sparo, prevista dal combinato disposto delle impugnate norme, deriva dall'aver omesso la denuncia dell'arma detenuta, in violazione dell'obbligo sancito dall'art. 38 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con r.d. 18 giugno 1931, n. 773: obbligo preordinato acché l'Autorità di pubblica sicurezza abbia tempestiva conoscenza delle persone che detengono armi e dei luoghi dove queste sono custodite. La normativa dettata per le armi "clandestine" soddisfa, invece, l'esigenza che tutte le armi comuni da sparo esistenti nello Stato siano "catalogate" e munite dei prescritti segni di identificazione, allo scopo di render possibile il controllo sulla singola arma, nell'ambito di iniziative adottate - come sottolineato nei lavori parlamentari relativi alla legge n. 110 del 1975 - per corrispondere a "precise istanze di difesa e di sicurezza sociale diffusamente avvertite in relazione al ripetersi di fenomeni criminosi particolarmente gravi". Ben può darsi, dunque, che s'incorra nella violazione soltanto dell'una o soltanto dell'altra norma, a seconda che si detenga, senza averne fatto denuncia, un'arma regolarmente catalogata e munita dei prescritti contrassegni, o si detenga un'arma, della quale sia stata fatta denuncia, ma che va considerata "clandestina", perché il suo prototipo non é stato iscritto nel catalogo nazionale ai sensi dell'art. 7 della legge n. 110 del 1975, o perché sprovvista dei numeri, dei contrassegni e delle sigle di cui all'art. 11 della stessa legge. E può darsi, invece, che s'incorra nella violazione di ambo le norme, detenendo, senza averne fatto denuncia, un'arma "clandestina"; nel qual caso si configura un concorso formale di reati, avendo la Corte di cassazione ritenuto inapplicabile il principio di specialità di cui all'art. 15 c.p., in quanto la tutela giuridica e l'oggettività dei fatti incriminati sono diverse ed autonome.
Alla luce della richiamata costante giurisprudenza, non appare viziata da irrazionalità la scelta operata dal legislatore, che riguardo a due distinte condotte criminose, ha considerato, nella discrezionalità delle valutazioni di sua competenza, più grave la detenzione di arma non denunciata rispetto alla detenzione di arma denunciata ma "clandestina", ed ha conseguentemente riservato al primo reato un trattamento penale più severo di quello comminato per il secondo; fermo restando il loro concorso formale, qualora si tratti di detenzione di arma non denunciata e "clandestina".
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i procedimenti iscritti ai nn. 409 R.O. 1976, 339, 396 e 465 R.O. 1977, 222 e 512 R.O. 1978, 157 e 787 R.O. 1980,
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, con le ordinanze del 23 febbraio 1976 (n. 409 R.O. 1976) del tribunale di Brindisi, del 20 maggio (n. 396 R.O. 1977), 27 maggio (n. 339 R.O. 1977), 10 giugno (n. 465 R.O. 1977) e 31 ottobre 1977 (n. 222 R.O. 1978), nonché del 3 aprile 1978 (n. 512 R.O. 1978) del tribunale di Belluno, degli artt. 9, 10, 12 e 14 della legge 14 ottobre 1974, n. 497 (Nuove norme contro la criminalità);
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, con le ordinanze del 25 ottobre 1979 (n. 787 R.O. 1980) del tribunale di Milano, e del 4 febbraio 1980 (n. 157 R.O. 1980) del tribunale di Grosseto, degli artt. 10 e 14 della legge 14 ottobre 1974, n. 497 (Nuove norme contro la criminalità).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 novembre 1982.
Antonino DE STEFANO - Michele ROSSANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO.
Giovanni VITALE – Cancelliere
Depositata in cancelleria il 9 dicembre 1982.