SENTENZA N. 59
ANNO 1979
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici:
Prof. Leonetto AMADEI, Presidente
Prof. Edoardo VOLTERRA
Prof. Guido ASTUTI
Dott. Michele ROSSANO
Prof. Leopoldo ELIA
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN
Avv. Oronzo REALE
Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI
Avv. Alberto MALAGUGINI
Prof. Livio PALADIN
Dott. Arnaldo MACCARONE
Prof. Antonio LA PERGOLA
Prof. Virgilio ANDRIOLI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 275 del codice di procedura penale, promosso Con ordinanza emessa il 3 febbraio 1974 dal pretore di Milano nel procedimento penale a carico di Pinnelli Giuseppe, iscritta al n. 162 del registro ordinanze 1975 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 166 del 25 giugno 1975.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 4 aprile 1979 il Giudice relatore Alberto Malagugini;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Con ordinanza in data 3 febbraio 1974, il pretore di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 275 cod. proc. pen. "nei limiti in cui non consente la scarcerazione automatica, (con la sentenza di primo grado), degli imputati condannati con rito direttissimo per reati che non consentono il mandato di cattura, in relazione agli artt. 3 e 27 della Costituzione".
L'ordinanza é stata pronunciata in accoglimento di una istanza della difesa di un imputato appellante, già condannato dal pretore in primo grado, con rito direttissimo, alla pena di giorni 20 di arresto per il reato di contravvenzione alla diffida (art. 2 legge 27 dicembre 1956, n. 1423) punito con l'arresto da 1 a 6 mesi ed al quale la libertà provvisoria, chiesta sia nell'interrogatorio in carcere che nel dibattimento, era stata negata. Sulla rilevanza della questione, il pretore osserva che, in caso di suo accoglimento, l'imputato dovrebbe beneficiare, con decorrenza dalla data della sentenza di primo grado, della scarcerazione automatica per decorrenza dei termini, essendo quello di cui all'art. 502 cod. proc. pen. preordinato al solo fine della celebrazione del giudizio direttissimo (né la rilevanza verrebbe meno a seguito della concessione della libertà provvisoria, che di fatto é stata concessa con successiva ordinanza). Nel merito viene presupposta l'interpretazione che dell'art. 275 cod. proc. pen. é data dalla concorde giurisprudenza della Cassazione: l'operatività del divieto di scarcerazione dell'imputato, con la sentenza di condanna a pena detentiva, presuppone che la condanna concerna il reato per cui é in atto la detenzione e che per esso o sia consentito il mandato di cattura, ovvero si sia legittimamente proceduto con rito direttissimo, a seguito di arresto in flagranza. E con riferimento a questa ultima ipotesi, che appunto viene in considerazione nel caso in esame, che il pretore formula obiezioni di legittimità costituzionale, per contrasto con il principio di uguaglianza (art. 3) e con la presunzione di non colpevolezza dell'imputato fino alla condanna definitiva (art. 27, comma secondo).
Evidente appare al pretore, in primo luogo, la violazione dell'art. 3 della Costituzione per la disparità di trattamento tra gli imputati detenuti per reati per i quali non é consentito il mandato di cattura, a seconda che siano o meno giudicati con rito direttissimo. Coloro che per ragioni contingenti non possono essere giudicati ai sensi degli artt. 502 e ss. cod. proc. pen. beneficiano della scarcerazione automatica; gli altri, giudicati per direttissima, se condannati, non vengono automaticamente scarcerati ma possono lucrare unicamente il beneficio, rimesso alla discrezionalità del magistrato, della libertà provvisoria. La rilevata disparità di trattamento appare tanto più iniqua se si considera che la celebrazione del dibattimento con rito direttissimo dipende da circostanze del tutto casuali connesse a situazioni soggettive del giudice (possibilità materiale del magistrato di tenere udienza entro il termine di rito) ed oggettive attinenti al processo (arrivo tempestivo del rapporto, necessità di maggiore attività istruttoria, possibilità di avvisare i difensori, ecc.).
Nella fattispecie non ricorrono poi quelle situazioni obbiettivamente diverse che giustificano, secondo la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, la relativa disparità di trattamento. Invero né la pronuncia di una sentenza non definitiva, né la diversa forma del rito processuale possono giustificare la disparità di trattamento. Alla luce dei suesposti principi di diritto processuale, recepiti dalla Suprema Corte, una sentenza di condanna non definitiva non può costituire un autonomo titolo di detenzione. "La sentenza di condanna non può legittimare la continuazione di una carcerazione preventiva che la legge non consente per l'entità del reato, indipendentemente dalla circostanza che sia stato o non, a suo tempo, impugnato il mandato o l'ordine di cattura emesso per tale reato" (Cass. Sez. I, 12 gennaio 1970 cit.). Non si vede in qual modo poi la particolare struttura del giudizio direttissimo, che si differenzia dal giudizio ordinario unicamente per la soppressione di una fase processuale, possa giustificare un diverso sistema della custodia preventiva che rivoluzioni tutti i principi stabiliti in materia dal codice di rito.
Quanto al contrasto con l'art. 27 Cost., starebbe nel fatto che, in caso di condanna con rito direttissimo per reato che non consentirebbe il mandato di cattura, l'imputato viene mantenuto in stato di detenzione, in forza dell'art. 275 cod. proc. pen., sulla base di una sentenza di condanna non definitiva, mentre una tale sentenza, per la presunzione di non colpevolezza dell'imputato, non può costituire un nuovo ed autonomo titolo di custodia preventiva nei suoi confronti.
2. - É intervenuta in giudizio l'Avvocatura dello Stato, mettendo in dubbio la rilevanza delle questioni sollevate, in un procedimento la cui natura non risulta dall'ordinanza di rinvio, e dopo che ogni questione relativa alla libertà personale dell'imputato ha ormai perduto ogni attualità.
Nel merito si sostiene l'infondatezza delle questioni, ricordando innanzi tutto che, a seguito della pubblicazione della sentenza n. 173 del 1971 che ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell'art. 246 cod. proc. pen., l'arresto in flagranza dell'imputato deve essere in ogni caso, e cioè anche quando il Procuratore della Repubblica o il pretore ritenga di procedere a giudizio direttissimo, convalidato a norma dell'art. 13 della Costituzione con provvedimento motivato dell'autorità giudiziaria.
L'applicazione dell'art. 275 cod. proc. pen. presuppone perciò in ogni caso, cioè anche nell'ipotesi di giudizio direttissimo di un imputato arrestato in flagranza, che lo stato di custodia preventiva sia stato, se non disposto, quanto meno sanzionato dall'autorità giudiziaria a norma dell'art. 13 della Costituzione.
Quanto alla pretesa violazione del principio d'uguaglianza si ricorda che già con la sentenza n. 64 del 1970 fu rilevato che i principi costituzionali in materia di carcerazione preventiva non precludono al legislatore una disciplina della materia differenziata in relazione alle varie fasi del procedimento.
In particolare, non é contrario al principio di eguaglianza che le vicende processuali, anche se indipendenti dalla volontà dell'imputato, incidano sulla durata della carcerazione preventiva: se "diversa é la posizione processuale dell'imputato che sia stato scarcerato per decorrenza dei termini primari (per la carcerazione nella fase istruttoria) e dell'imputato che entro questi termini sia stato rinviato a giudizio", ancora più evidentemente é diversa la posizione processuale dell'imputato che sia stato scarcerato per decorrenza dei termini entro i quali deve celebrarsi il giudizio direttissimo e quella dell'imputato che entro questi termini sia stato condannato. Si tratta di una diversità che logicamente ha rilievo sulla assoggettabilità dell'imputato alla custodia preventiva.
Nemmeno sussiste contrasto con la presunzione di non colpevolezza. Invero l'applicazione dell'art. 275 cod. proc. pen. in caso di giudizio direttissimo presuppone uno stato di privazione della libertà personale rispondente a legittimità, sicché l'arresto in flagranza deve essere convalidato con le forme e nei termini stabiliti dall'art. 13, secondo comma, Cost.: non si vede allora come uno stato di detenzione, legittimo di fronte alla Costituzione, possa risultare in contrasto con i precetti costituzionali solo perché al decreto motivato di convalida dell'arresto emesso dall'autorità si aggiunge e si sovrappone una sentenza di condanna, ancorché non definitiva.
Nel caso di giudizio direttissimo deve anzi dirsi che il divieto di scarcerazione, posto in via generale dall'art. 275 cod. proc. pen., trova una sua particolare ragione nel fine proprio del rito processuale abbreviato: questo trova la sua giustificazione non soltanto nella evidenza della prova in caso di arresto di flagranza, ma anche nella esigenza di dare applicazione al principio per cui la persecuzione e la repressione riescono tanto più efficaci ed esemplari quanto più sono spedite e pronte. Deve perciò dirsi, come fu detto in sede di commento al codice di procedura penale del 1913, che "la liberazione dell'imputato (condannato) toglierebbe al giudizio istantaneo quell'efficacia di esemplarità e quel vigore di repressione che debbono essere nella indole di tale specie di procedimento"; che perciò, nella ipotesi in esame, "la libertà individuale é garantita dalla prontezza del giudizio".
Considerato in diritto
1. - Il pretore di Milano dubita della legittimità costituzionale dell'art. 275 c.p.p. "nei limiti in cui non consente la scarcerazione automatica degli imputati condannati con rito direttissimo per reati che non consentono il mandato di cattura in relazione agli artt. 3 e 27 della Costituzione".
Il giudice a quo non solleva questione alcuna in ordine né alla legittimità dell'arresto in flagranza per reati che non consentono l'emissione del mandato di cattura né alla facoltà del pretore, di cui all'art. 505 in relazione all'art. 502 c.p.p. di procedere, in tali ipotesi, a giudizio direttissimo.
Nei termini proposti la questione non é fondata.
2. - L'art. 275 c.p.p. fa divieto al giudice, che abbia pronunciato sentenza di condanna a pena detentiva, anche se soggetta ad impugnazione, di ordinare la scarcerazione dell'imputato, salvo che non siano decorsi i termini massimi di carcerazione preventiva, che all'epoca dell'ordinanza di rimessione erano determinati dal terzo comma dell'art. 272 c.p.p. nel testo modificato dalla legge 1 luglio 1970, n. 406.
L'art. 272 c.p.p. é stato in seguito ulteriormente modificato (in conseguenza della sentenza n. 42 del 1974 di questa Corte) dall'art. 1 d.l. 11 aprile 1974, n. 99, convertito, senza modificazioni sul punto, nella legge 7 giugno 1974, n. 220, ma le innovazioni introdotte dal legislatore, che pure si é espressamente occupato, nei procedimenti di competenza del pretore, anche dei reati per i quali la legge non autorizza il mandato di cattura, non appaiono decisive per la soluzione della questione proposta.
3. - Infatti, il divieto di scarcerazione dell'imputato condannato a pena detentiva non completamente scontata, sempre che non sia decorso il termine massimo di carcerazione preventiva, si fonda non sulla sentenza di condanna, soggetta a gravame, e quindi su una presunzione di colpevolezza dell'imputato, ma sulla legittimità del titolo in forza del quale l'imputato medesimo é stato privato, in via cautelare, della libertà personale.
Quel titolo legittimo, l'unico che venga in considerazione ai fini di cui all'art. 275 c.p.p., non può essere caducato, per la contraddizione che non lo consente, dal giudice che pronunzia la sentenza di condanna a pena detentiva, ancorché non definitiva, a meno che la condanna sia stata interamente scontata ovvero si sia consumato il termine massimo della carcerazione preventiva, salva rimanendo la facoltà del giudice medesimo di concedere all'imputato, ricorrendone le condizioni, la libertà provvisoria.
Ogni altra lettura, sotto il profilo qui considerato, dell'art. 275 c.p.p., conterrebbe in sé una implicita denuncia della sua incostituzionalità, nonché una forzatura del testo tale da trasformare il divieto di scarcerazione in un obbligo di emissione di un provvedimento limitativo della libertà personale dell'imputato anche nei casi in cui non é di regola consentito.
Nel caso di specie, il giudice a quo non dubita della legittimità dell'arresto in flagranza disposto per il reato medesimo per il quale ha irrogato la condanna a pena detentiva; arresto da ritenersi convalidato dal giudice, con decreto motivato, in adempimento dell'obbligo disposto dall'art. 13, terzo comma, Cost. (sentenza n. 173 del 1971 di questa Corte). Neppure il pretore di Milano contesta che la sentenza di condanna a pena detentiva sia stata pronunciata prima della scadenza del termine massimo di carcerazione preventiva (fosse tale termine quello previsto dall'art. 272 c.p.p. ovvero quello indicato dall'art. 502 stesso codice).
La sentenza non definitiva di condanna non costituisce, dunque, titolo autonomo per la persistente detenzione dell'imputato, così che viene a mancare di fondamento la questione di costituzionalità promossa con riferimento all'art. 27, secondo comma, Costituzione. La diversa questione, se la disciplina normativa dei termini massimi di carcerazione preventiva per i reati di competenza pretorile (art. 272 c.p.p.) vigente al momento in cui fu stesa l'ordinanza di rimessione, fosse o meno costituzionalmente censurabile in quanto limitata alla sola fase istruttoria, esula dal presente giudizio e comunque, come si é ricordato, é già stata decisa da questa Corte con la sentenza n. 42 del 1974 cui ha fatto seguito il d.l. 11 aprile 1974, n. 99, convertito in legge 7 giugno 1974, n. 220.
4. - Neppure é fondata la questione con riferimento all'art. 3 Cost. poiché il diverso trattamento riservato, alla stregua della normativa vigente nel momento in cui fu stesa l'ordinanza di rimessione, agli imputati arrestati nella flagranza di un reato che non consente l'emissione del mandato di cattura, in conseguenza del rito con cui il pretore ritiene di poter procedere al giudizio, non é certo riferibile all'art. 275 c.p.p. D'altronde la questione, sollevata in relazione all'art. 502 c.p.p., cui l'art. 505 dello stesso codice rimanda, é già stata decisa da questa Corte, che l'ha ritenuta non fondata con la sentenza n. 209 del 1971.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 275 del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, sollevata dal pretore di Milano con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 giugno 1979.
Leonetto AMADEI - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO - Leopoldo ELIA - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI
Giovanni VITALE - Cancelliere
Depositata in cancelleria il 4 luglio 1979.