sentenza n.155 del 1973
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SENTENZA N. 155

ANNO 1973

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO, Presidente

Dott. Giuseppe  VERZÌ

Dott. Giovanni  BATTISTA BENEDETTI

Dott. Luigi  OGGIONI

Dott. Angelo  DE MARCO

Avv. Ercole  ROCCHETTI

Prof. Enzo  CAPALOZZA

Prof. Vincenzo  MICHELE TRIMARCHI

Prof. Vezio  CRISAFULLI

Dott. Nicola  REALE

Prof. Paolo  ROSSI

Avv. Leonetto  AMADEI

Prof. Giulio  GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido  ASTUTI

ha pronunciato la seguente  

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 160 del codice penale, nonché dello stesso art. 160 in relazione agli artt. 304 del codice di procedura penale e 8, primo e secondo comma, della legge 5 dicembre 1969, n. 932, promosso con ordinanza emessa il 10 novembre 1971 dal pretore di Torino nel procedimento penale a carico di Santi Gianfranco, iscritta al n. 484 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50 del 23 febbraio 1972.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 3 ottobre 1973 il Giudice relatore Enzo Capalozza;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

Nel corso di un procedimento penale a carico di Gianfranco Santi, in fase istruttoria (e pur senza che fosse stato disposto un qualsiasi atto d'istruzione), per emissione continuata di assegni a vuoto, il pretore di Torino tenuto conto che si era, bensì, maturato il tempo necessario a prescrivere il reato, ma era stato emesso, prima della scadenza del termine, avviso di procedimento da notificarsi al prevenuto (e, aggiungasi per completezza, non notificato, secondo quanto risulta dal fascicolo di causa) ha ritenuto, con ordinanza 10 novembre 1971, rilevante e non manifestamente infondato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, il dubbio di legittimità costituzionale dell'art. 160 del codice penale, considerato di per sé ed in relazione agli artt. 304 del codice di procedura penale e 8, primo e secondo comma, della legge 5 dicembre 1969, n. 932, nella parte in cui non prevede che l'avviso di procedimento abbia l'efficacia di interrompere il corso della prescrizione del reato.

Secondo il pretore, l'avviso di procedimento, al pari degli altri atti processuali interruttivi, tassativamente menzionati nel primo e nel secondo comma del citato art. 160, rivelerebbe, nel magistrato che lo ha emesso, la volontà di procedere contro un imputato, al quale, con l'avviso, oltre ad essere formulato l'invito a nominare un difensore, viene contestato, sia pure in modo generico, un illecito penale. In presenza della manifesta identica volontà di procedere, sarebbe, pertanto, irrazionale e darebbe luogo ad un'arbitraria disparità di trattamento tra imputati, pur se in procedimenti penali diversi, non prevedere che l'interruzione della prescrizione ricorra anche nel caso di emissione dell'avviso di procedimento.

Sulla rilevanza, il pretore osserva che, se la questione fosse riconosciuta fondata, la prescrizione sarebbe stata interrotta dall'avviso, e ciò consentirebbe di proseguire il procedimento contro il Santi per l'imputazione a lui ascritta.

Nel giudizio dinanzi a questa Corte, nel quale non si é costituita la parte privata, é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il 3 marzo 1972, nel quale chiede che la questione sia dichiarata non fondata.

L'Avvocatura afferma che, essendo stata denunziata "una norma che detta una disciplina più favorevole all'imputato di quella risultante dalla sua disapplicazione", il pretore avrebbe omesso l'indagine necessaria ai fini del giudizio di rilevanza sugli effetti della sentenza della Corte che dichiarasse la fondatezza della questione.

Pur astenendosi dal formulare una richiesta in punto di rilevanza, l'Avvocatura osserva che "la regola posta dal l'art. 30, terzo comma, della legge n. 87 dell'11 marzo 1953, per il quale la norma dichiarata incostituzionale non può avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione, resti paralizzata - quanto meno relativamente al giudizio a quo - dalla regola posta dall'art. 2, terzo comma, codice penale, secondo il quale in caso di successione nel tempo di leggi penali si applica quella le cui disposizioni siano più favorevoli al reo, regola quest'ultima che costituisce applicazione del principio generale sancito dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione".

Nel merito della questione, dopo aver illustrato lo scopo informativo, proprio dell'avviso di procedimento, e precisato l'ambito del concetto di "primo atto di istruzione" in ordine al quale l'avviso va comunicato, l'Avvocatura fa presente che, con il denunziato art. 160 cod. pen., il legislatore intese restringere la cerchia degli atti del procedimento penale idonei ad interrompere la prescrizione a quelli "veramente fondamentali del procedimento stesso, che, in considerazione del loro carattere obiettivo, di per sé, dimostrano la persistenza dell'interesse dello Stato a punire" (Relazione al Re per il codice penale, n. 80).

E deduce che l'avviso di procedimento, pur se, in ipotesi, venisse inteso come indice inequivocabile della presenza di una pretesa punitiva, non si collocherebbe sullo stesso piano degli atti menzionati nell'art. 160, secondo comma, cod. pen., sia perché questi presuppongono l'esistenza di seri indizi di colpevolezza, sia perché la mancanza di taluni di essi impedisce che possa essere validamente ordinato (art. 376 cod. proc. pen.) o richiesto (art. 396 cod. proc. pen.) il rinvio a giudizio dell'imputato. (Superfluo accennare alla ancor più evidente ratio della efficacia interruttiva della sentenza e del decreto di condanna di cui al primo comma dell'art. 160 cod. pen.).

Considerato in diritto

1. - É stato denunziato a questa Corte, per violazione dell'art. 3 della Costituzione, l'art. 160 del codice penale (in relazione anche alle modifiche apportate all'art. 304 del codice di procedura penale dall'art. 8, primo e secondo comma, della legge 5 dicembre 1969, n. 932), nella parte in cui non annovera l'avviso di procedimento fra gli atti interruttivi della prescrizione del reato.

2. - In via preliminare, l'Avvocatura generale si richiama ai principi relativi all'applicazione della legge più favorevole in caso di successive leggi penali (art. 2, terzo comma, cod. pen.), e pone in dubbio che sia stata compiuta una sufficiente valutazione della rilevanza, da parte del giudice a quo, il quale, senza porsi tale problema, nella causa sottoposta al suo esame, ha ritenuto operante, pur essendo pregiudizievole all'imputato, l'eventuale effetto interruttivo che venisse riconosciuto all'avviso di procedimento.

É, per altro, da osservare che questo argomento dell'Avvocatura attiene ai limiti che, nei singoli casi, incontra la "cosiddetta retroattività delle decisioni di accoglimento della Corte costituzionale" (sentenza n. 49 del 1970). Ma "i problemi che possono sorgere in quest'ordine di idee sono, evidentemente, problemi di interpretazione e devono pertanto essere risolti dai giudici comuni, nell'ambito delle rispettive competenze istituzionali" (stessa sentenza).

3. - Nel merito, la questione é infondata.

Come risulta dai lavori preparatori (vedasi la Relazione al Re, n. 80), il vigente codice penale ha voluto riservare agli "atti veramente fondamentali" del procedimento la idoneità ad interrompere il corso della prescrizione.

Ora, é certo che l'avviso della pendenza del procedimento (l'attuale comunicazione giudiziaria: art. 3 della legge 15 dicembre 1972, n. 773), teleologicamente preordinato a rendere possibile un pronto ed efficace esercizio del diritto di difesa, può precedere il promovimento dell'azione penale e può essere seguito dal cosiddetto decreto di archiviazione (art. 74, terzo e quarto comma, cod. proc. pen.), dal che si deduce che la sua emissione non esprime necessariamente il convincimento del magistrato che si debba procedere. Va altresì osservato che l'avviso é destinato non solo all'indiziato di reato, ma a tutti coloro che possono assumere la qualità di parti private (art. 8 della legge n. 932 del 1969, modificato dall'art. 3 della legge n. 773 del 1972), il che lo differenzia dalla serie degli atti elencati nell'art. 160 cod. pen., parecchi dei quali sono estranei alle altre parti private e non hanno interferenza con esse.

Questa Corte, già nella sentenza n. 97 del 1972 - la quale ha escluso che l'avviso abbia sempre obbligatorio ingresso nel processo penale, disattendendo la dedotta illegittimità della omissione nel procedimento (pretorile) che sia privo di attività istruttoria - ha osservato che, prima della legge n. 932 del 1969, la mancata previsione, nel nostro sistema processuale, dell'avviso di procedimento non era mai stata denunziata, neppure per eventuale violazione del diritto di difesa. Tanto meno l'avviso può assurgere, per forza propria e senza l'intervento del legislatore, alla dignità di atto fondamentale, da equipararsi a quelli che per l'art. 160 cod. pen., interrompono la prescrizione.

4. - Stante, dunque, la natura diversa degli atti, per legge, interruttivi - tipica espressione della potestà punitiva dello Stato - e dell'avviso di procedimento (ora comunicazione giudiziaria), che soddisfa - ripetesi - un'esigenza defensionale, la differenza di trattamento, rispetto all'istituto della estinzione del reato per prescrizione, non appare ingiustificata, e, comunque, non integra una violazione dell'art. 3 Cost., dato che non può non rientrare nella discrezionalità del legislatore stabilire quali siano gli atti idonei ad interrompere la prescrizione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 160 del codice penale, in relazione all'art. 304 del codice di procedura penale, modificato dall'art. 8, primo e secondo comma, della legge 5 dicembre 1969, n. 932, sollevata dal pretore di Torino, con ordinanza 10 novembre 1971, in riferimento all'art. 3 della Costituzione.

Così deciso - in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 novembre 1973.

Francesco  PAOLO BONIFACIO – Giuseppe  VERZÌ – Giovanni  BATTISTA BENEDETTI – Luigi  OGGIONI – Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA – Vincenzo MICHELE TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI – Nicola REALE – Paolo  ROSSI – Leonetto AMADEI - Giulio  GIONFRIDA. – Edoardo VOLTERRA – Guido ASTUTI

Arduino  SALUSTRI - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 21 novembre 1973.