SENTENZA N. 49
ANNO 1970
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI
Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), e degli artt. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, 65 del R.D. 28 maggio 1931, n. 602 (disposizioni di attuazione del codice di procedura penale), e 16 del D.P.R. 8 agosto 1955, n. 666 (norme di attuazione della legge 18 giugno 1955, n. 517, contenente modificazioni al c.p.p.), promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 12 dicembre 1967 dal tribunale di Ferrara nel procedimento penale a carico di Picchioni Franco, iscritta al n. 225 del registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 275 del 26 ottobre 1968;
2) ordinanza emessa il 1 aprile 1969 dal tribunale di Napoli nel procedimento penale a carico di Sgrosso Guido ed altri, iscritta al n. 254 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 186 del 23 luglio 1969.
Udito nella camera di consiglio del 10 febbraio 1970 il Giudice relatore Vezio Crisafulli.
Ritenuto in fatto
1. - Con ordinanza emessa il 12 dicembre 1967 nel corso di un procedimento penale a carico di Picchioni Franco, il tribunale di Ferrara ha sollevato questione di legittimità costituzionale relativamente alle norme di cui agli artt. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l1 delle disposizioni sulla legge in generale, 65 del R.D. 28 maggio 1931, n. 602, e 16 del D.P.R. 8 agosto 1955, n. 666, in riferimento all'art. 136, primo comma, della Costituzione.
Il giudice a quo spiega anzitutto, sotto il profilo della rilevanza, come nella specie dovrebbe essere applicato il principio di diritto contenuto nella sentenza 7 aprile 1967 della Corte di cassazione, secondo cui la dichiarata illegittimità costituzionale dell'art. 392 del codice di procedura penale, nella parte concernente la operatività degli artt. 304 bis, ter e quater dello stesso codice di rito, non estende i suoi effetti agli atti istruttori compiuti prima della data di pubblicazione della decisione di incostituzionalità. Tale principio di diritto si basa su di un'interpretazione, affermata anche in diverse altre pronunce della Corte suprema di cassazione, alla stregua della quale la declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma processuale non avrebbe effetto retroattivo nei giudizi in corso in ogni stato e grado, restando fermi gli atti già perfezionati alla data della sua pubblicazione: e ciò sia in applicazione degli artt. 136 della Costituzione e 30 della legge 1l marzo 1953, n. 87, sia in osservanza del fondamentale canone tempus regit actum, accolto dall'art. 11 delle preleggi, dall'art. 65 del R.D. n. 602 del 1931, contenente le disposizioni transitorie del codice di procedura penale, e dall 'art. 16 del D.P.R. n. 666 del 1955, contenente le disposizioni transitorie e di coordinamento della legge 18 giugno 1955, n. 517.
La accennata interpretazione di queste ultime norme sarebbe, però, in contrasto con il vero significato dell'art. 136 della Costituzione, quale risulta riaffermato da numerose sentenze e particolarmente da quella n. 127 del 1966 della Corte costituzionale, in quanto tale precetto costituzionale, prescrivendo la cessazione della efficacia della disposizione di legge ordinaria dichiarata costituzionalmente illegittima a partire dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione, non avrebbe introdotto alcuna distinzione tra efficacia anteriore o posteriore alla pubblicazione anzidetta, ma soltanto indicato il momento di inizio della obbligatorietà della decisione, di guisa che l'unico limite alla efficacia anche retroattiva di questa deriverebbe dalla formazione, eventualmente già verificatasi, di una "cosa giudicata". Di qui l'esigenza di promuovere la questione di legittimità costituzionale per risolvere il dubbio concernente quale delle due interpretazioni innanzi prospettate, entrambe vincolanti per il giudice ordinario, debba essere adottata.
2. - Anche il tribunale di Napoli, con ordinanza emessa il 1 aprile 1969, nel corso di un procedimento penale a carico di Sgrosso Guido ed altri, ha sollevato questione di legittimità costituzionale relativamente all'art. 30, comma terzo, della legge n. 87 del 1953 per contrasto con l'art. 136 della Costituzione, svolgendo analoghe considerazioni in riferimento ad una fattispecie in cui era stata dedotta eccezione di nullità della istruzione condotta con il rito sommario per violazione del terzo comma dell'art. 389 del codice di procedura penale, dichiarato illegittimo dalla sentenza n. 117 del 1968 della Corte costituzionale, nei limiti in cui esclude la sindacabilità, nel corso del processo, della valutazione compiuta dal pubblico ministero sulla evidenza della prova.
3. - Non vi é stata innanzi a questa Corte alcuna costituzione di parte.
Considerato in diritto
1. - I due giudizi hanno ad oggetto questioni sostanzialmente identiche in relazione allo stesso testo legislativo e possono pertanto essere decisi congiuntamente con unica sentenza.
2. - Entrambe le ordinanze denunciano anzitutto l'art. 30, terzo comma, della legge n. 87 del 1953, in quanto limiterebbe, in contrasto con l'art. 136 della Costituzione, l'efficacia cosiddetta retroattiva delle decisioni della Corte costituzionale che dichiarino la illegittimità costituzionale di una legge o di norme di legge. Ma la questione é infondata, perché, come già questa Corte ebbe ad affermare con la sentenza n. 127 del 1966, una siffatta interpretazione "restrittiva" del terzo comma dell'art. 30 é palesemente insostenibile, di fronte alla chiara formulazione testuale della norma, che esprime, con altre parole e con specifico riferimento all'applicazione giudiziale, lo stesso principio più generale ricavabile da una corretta lettura dell'art. 136 della Costituzione, quale risulta ulteriormente ribadito coordinando il medesimo art. 136 con l'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1.
Giova, richiamare, in proposito, la differenza tra l'effetto di abrogazione, prodotto dal sopravvenire di nuove leggi, e l'effetto di annullamento, derivante dalle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale. L'abrogazione non tanto estingue le norme, quanto piuttosto ne delimita la sfera materiale di efficacia, e quindi l'applicabilità, ai fatti verificatisi sino ad un certo momento del tempo: che coincide, per solito e salvo sia diversamente disposto dalla nuova legge, con l'entrata in vigore di quest'ultima.
La declaratoria di illegittimità costituzionale, determinando la cessazione di efficacia delle norme che ne sono oggetto, impedisce, invece, dopo la pubblicazione della sentenza, che le norme stesse siano comunque applicabili anche ad oggetti ai quali sarebbero state applicabili alla stregua dei comuni principi sulla successione delle leggi nel tempo. Altro é, infatti il mutamento di disciplina attuato per motivi di opportunità politica, liberamente valutata dal legislatore, altro l'accertamento, ad opera dell'organo a ciò competente, della illegittimità costituzionale di una certa disciplina legislativa: in questa seconda ipotesi, a differenza che nella prima, é perfettamente logico che sia vietato a tutti, a cominciare dagli organi giurisdizionali, di assumere le norme dichiarate incostituzionali a canoni di valutazione di qualsivoglia fatto o rapporto, pur se venuto in essere anteriormente alla pronuncia della Corte.
L'obbligatorietà delle decisioni della Corte, cui si richiama in particolare l'ordinanza del tribunale di Ferrara, si esplica a partire dal giorno successivo alla loro pubblicazione, come stabilito dall'art. 136 della Costituzione, nel senso - precisamente - che da quella data nessun giudice può fare applicazione delle norme dichiarate illegittime, nessun'altra autorità può darvi esecuzione o assumerle comunque a base di propri atti, e nessun privato potrebbe avvalersene, perché gli atti e i comportamenti che pretendessero trovare in quelle la propria regola sarebbero privi di fondamento legale. Si spiega così come anche questioni di legittimità costituzionale di norme abrogate da leggi ordinarie frattanto sopravvenute possano essere rilevanti, e come tali avere ingresso alla Corte, qualora si tratti di norme di cui si dovrebbe fare ancora applicazione in base ai principi di diritto intertemporale.
3. - Tale é, senza dubbio, il sistema delineato dagli artt. 136 della Costituzione e 1 della legge costituzionale del 1948, al quale é pienamente conforme, nella lettera e nella ratio, il terzo comma dell'art. 30 della legge n. 87 del 1953. Né si può dire sussistano al riguardo serie divergenze nella dottrina e nella prevalente giurisprudenza ordinaria ed amministrativa, motivi di dubbio e di dissenso manifestandosi soltanto in ordine ai limiti che, per effetto di altre norme dell'ordinamento, si oppongano, nei singoli casi, alla cosiddetta retroattività delle decisioni di accoglimento della Corte costituzionale. Ma i problemi che possono sorgere in quest'ordine di idee sono, evidentemente, problemi di interpretazione, e devono pertanto essere risolti dai giudici comuni, nell'ambito delle rispettive competenze istituzionali: nella più rigorosa osservanza, beninteso, dei principi costituzionali che presiedono al sindacato di legittimità costituzionale delle leggi, ai quali - come sopra rilevato - nulla toglie e nulla aggiunge il terzo comma dell'art. 30 della legge n. 87.
Con particolare riguardo all'applicazione giudiziale, il sistema positivamente adottato implica, per logica necessità, che le norme colpite da pronuncia di illegittimità, e alle quali é pertanto vietato fare riferimento, sarebbero altrimenti applicabili, poiché il divieto non avrebbe senso con riguardo a norme che già fossero di per sé insuscettibili di applicazione per ragioni diverse dalla loro dichiarata illegittimità. In altri termini, il terzo comma dell'art. 30 della legge n. 87, in perfetta coerenza con quanto disposto dagli artt. 136 della Costituzione e 1 legge costituzionale n. 1 del 1948, implicitamente rinvia alle norme che regolano nel nostro ordinamento l'applicazione del diritto oggettivo ai casi concreti, allo stesso modo come alle medesime norme rinvia l'art. 23 della legge n. 87, quando richiede che la questione di legittimità costituzionale, sollevata in un giudizio e rimessa a questa Corte, sia rilevante per la definizione del giudizio, demandandone il relativo apprezzamento al giudice davanti al quale pende la causa.
Come anche la Cassazione penale ha in varie occasioni riconosciuto, rilevanza della questione e divieto di applicazione di norme dichiarate costituzionalmente illegittime sono termini inscindibili. Ed infatti, come ai giudici é fatto obbligo di sospendere il giudizio provocando una pronuncia della Corte, ogni qual volta dovrebbero applicare norme di dubbia costituzionalità, così, simmetricamente, é ad essi proibito applicare norme che siano ormai state dichiarate costituzionalmente illegittime. Quel che - prima - era obbligo di sospendere e adire la Corte, diventa, - dopo - divieto di applicare: in entrambi i casi presupponendosi l'applicabilità delle norme in questione.
4. - Alla luce delle considerazioni che precedono, risulta altresì l'infondatezza della ulteriore questione sollevata, quasi in linea accessoria, dal tribunale di Ferrara, in relazione al principio che si suole esprimere con il brocardo tempus regit actum, ricavabile dall'art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile e dagli artt. 65 del r.d. 28 maggio 1931, n. 602, e 16 d.P.R. 8 agosto 1955, n. 666, in quanto, combinandosi con il terzo comma dell'art. 30 della legge n.87, concorrerebbe a limitare l'efficacia "retroattiva" delle sentenze della Corte. Anche se l'assunto dell'ordinanza fosse esatto, non ne seguirebbe alcun vizio di legittimità del principio denunciato, che si pone sopra un piano diverso. Certo, ogni norma che impedisce l'applicabilità di altre norme, indirettamente ne impedisce, com'é ovvio, la disapplicazione conseguente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale, eventualmente intervenuta ad opera della Corte; ma non per questo può considerarsi in contrasto con l'art. 136 della Costituzione. A ritenere diversamente, illegittimo dovrebbe dirsi il principio del giudicato, sol perché - con l'eccezione della materia penale -si risolve a sua volta in un limite alla retroattività delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale delle norme di cui la sentenza passata in giudicato ebbe a fare applicazione.
Ma é da soggiungere che il vero significato del principio censurato nell'ordinanza é tutt'altro: tempus regit actum vuol dire che la validità degli atti é e rimane regolata dalla legge vigente al momento della loro formazione e perciò, lungi dall'escludere, postula al contrario che a tale legge gli operatori giuridici debbano fare riferimento quando siano da valutare atti anteriormente compiuti. Postula, in altre parole, che, se non fosse intervenuta pronuncia di illegittimità costituzionale di norme disciplinanti la formazione di determinati atti, proprio alla stregua di tali norme dovrebbe in prosieguo operarsi, se é quando tuttora possibile, la valutazione degli atti posti in essere nel tempo in cui quelle erano in vigore: ciò che, invece, é vietato dopo la pubblicazione della sentenza di questa Corte, che delle norme stesse abbia accertato erga omnes la incostituzionalità.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate, in riferimento all'art. 136 della Costituzione, le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), e degli artt. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, 65 del R.D. 28 maggio 1931, n. 602 (disposizioni di attuazione del codice di procedura penale), e 16 del D.P.R. 8 agosto 1955, n. 666 (norme di attuazione della legge 18 giugno 1955, n. 517, contenente modificazioni al codice di procedura penale), sollevate con le ordinanze di cui in epigrafe.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 marzo 1970.
Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni BATTISTA BENEDETTI - Francesco PAOLO BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo MICHELE TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI
Depositata in cancelleria il 2 aprile 1970.