Sentenza n. 206 del 1971
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SENTENZA N. 206

ANNO 1971

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Prof. Michele FRAGALI, Presidente

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI,

ha pronunciato la seguente  

SENTENZA 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 185, 306, 408 e 422 del codice di procedura penale, promossi con ordinanze emesse il 21 gennaio 1970 dal pretore di Napoli nel procedimento penale a carico di Moesch Vittorio e Demata Olga ed il 14 gennaio 1970 dal tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di Merlanzoli Carmelino, iscritte ai nn. 78 e 85 del registro ordinanze 1970 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 82 del 1 aprile 1970.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 10 novembre 1971 il Giudice relatore Enzo Capalozza;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.  

Ritenuto in fatto 

1. - Nel corso di un procedimento penale a carico di Vittorio Moesch e di Olga Demata, imputati, rispettivamente, di sottrazione e di agevolazione colposa a sottrazione di beni pignorati dall'Esattoria comunale di Napoli "Gestione Gerit", il pretore di quella città, con ordinanza del 21 gennaio 1970 - dopo aver precisato che l'Esattoria, sebbene fosse da considerare danneggiata dai reati, non era stata citata in giudizio per non avere assunto alcuna delle qualità processuali previste dall'art. 408 del codice di procedura penale - riteneva rilevante e non manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale dello stesso art. 408, nella parte in cui non prevede la citazione del danneggiato dal reato che non sia, contemporaneamente, parte civile già costituita o parte offesa o querelante o denunziante, e, conseguentemente, del successivo art. 422, nella parte in cui consente la sanatoria della nullità comminata dall'art. 412 dello stesso codice.

Sulla non manifesta infondatezza della questione, il pretore osserva che il danneggiato dal reato, il quale non abbia alcuna delle accennate qualifiche, non é sufficientemente tutelato dall'avviso di procedimento - la cui omissione non é sanzionata da nullità - ai fini del tempestivo esercizio, nel processo penale, dell'azione civile. La quale, invece, é ora, dopo la sentenza n. 132 del 1968 di questa Corte, pienamente garantita alle persone che rivestano una delle qualifiche su indicate. Da ciò, secondo il pretore, deriverebbe il contrasto delle disposizioni censurate, non solo con il diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost., bensì pure con il principio di uguaglianza, per la disparità di trattamento tra le anzidette categorie di soggetti e quella degli altri danneggiati, sebbene tutti abbiano lo stesso interesse ad essere chiamati nel processo penale, per potervi esercitare l'azione civile.

Nel giudizio innanzi a questa Corte non si sono costituite le parti private.

Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, é intervenuto con atto depositato il 15 aprile 1970, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

Dopo aver richiamato la citata sentenza n. 132 del 1968 di questa Corte ed i suoi precedenti dottrinali e giurisprudenziali, l'Avvocatura prospetta le differenze sostanziali sussistenti, a suo avviso, tra i concetti di offeso, di danneggiato di parte civile.

Al riguardo deduce che, secondo la prevalente dottrina, la "parte offesa" - menzionata in parecchie disposizioni, ma non legislativamente definita - tenderebbe ad identificarsi con il soggetto passivo del reato, e cioè con il titolare dell'interesse specificamente tutelato dalla relativa norma incriminatrice, e si distinguerebbe dal danneggiato dal reato. Fa, poi, presente che, mentre nell'abrogato codice di rito, proprio mediante la individuazione della persona offesa si perveniva a fissare uno dei requisiti di legittimazione all'esercizio dell'azione civile, nel codice vigente si fa, invece, espresso riferimento, per tale legittimazione, alla "persona alla quale il reato ha recato danno" (art. 22 cod. proc. pen.). Terminologia, per altro, che non é stata seguita con una costanza così assoluta da far ritenere abbandonata la disciplina tradizionale: e ciò anche perché, sotto l'imperio dell'attuale codice, si sarebbe affermata la separazione tra danno risarcibile ed offesa criminale.

Ciò premesso, l'Avvocatura riconosce che la tesi ora prospettata non é inoppugnabile, data l'ampia formula che l'articolo 185 cod. pen. adotta per sancire l'obbligo delle restituzioni e del risarcimento. Esclude, però, che da tale obbligo e da quello dell'accertamento della misura del danno - ove sia possibile - (art. 489, secondo comma, cod. proc. pen.) possano desumersi argomenti che inducano ad imporre al giudice la citazione a giudizio del danneggiato dal reato, sfornito della qualità di persona offesa e non ancora costituitosi parte civile, data la diversità delle rispettive situazioni giuridiche. Il soggetto passivo - o persona offesa - sarebbe, infatti, un contraddittore necessario dell'imputato e, quindi, parte del processo ancor prima della costituzione di parte civile, mentre il danneggiato acquisirebbe garanzie processuali ed acquisterebbe la qualità di parte solo dopo l'anzidetta costituzione e condizionatamente alla validità di questa.

D'altronde, secondo l'Avvocatura, "il principio del contraddittorio sancito dall'art. 24 Cost. non coinvolge il danneggiato che non sia soggetto passivo del reato né sia costituito parte civile": il danno da lui risentito - se non accertato ai fini penali (art. 299 cod. proc. pen.) - resterebbe ignoto e non può essere addossato al giudice il compito di individuarlo né di sollecitare l'iniziativa di chi lo abbia subito.

La citazione a giudizio del danneggiato - conclude l'Avvocatura - contrasterebbe con le regole della disponibilità dell'azione civile e con l'accessorietà del relativo rapporto, mentre l'avviso di procedimento sarebbe, nella specie, una misura sufficiente di garanzia.

2. - Il tribunale di Milano, nel corso di un procedimento penale per omicidio colposo a carico di Carmelino Merlanzoli - dopo aver rilevato che la moglie della vittima, parte offesa dal reato, a seguito della citazione a giudizio si era ritualmente costituita parte civile, ma non aveva potuto esercitare il suo diritto nella fase istruttoria, per il fatto di ignorare l'esistenza del procedimento suddetto, anche a motivo del mancato avviso di cui alla legge 5 dicembre 1969, n. 932 - con ordinanza del 14 gennaio 1970, riteneva rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 24, primo e secondo comma, della Costituzione, dell'art. 306 cod. proc. pen., nella parte in cui, attribuendo alla persona offesa dal reato talune facoltà, esclude ogni altro diritto nel procedimento in fase istruttoria, ivi compreso quello alla citazione ovvero all'avviso del procedimento penale con l'indicazione dell'autorità procedente, e dell'art. 185 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede quale nullità insanabile per la fase istruttoria l'inosservanza di una disposizione che statuisce l'obbligo della citazione o dell'avviso sopra indicati.

Sulla non manifesta infondatezza della questione, il tribunale si richiama ai principi affermati con la sentenza n. 132 del 1968 di questa Corte ed assume che la mancata previsione, per la fase istruttoria, della citazione e dell'avviso di procedimento, si tradurrebbe nell'impossibilità, per la parte offesa (e per il querelante ecc.) di agire in giudizio a tutela dei propri diritti, per tutto il tempo in cui il procedimento si trova in tale fase.

Nel giudizio innanzi a questa Corte non vi é stata costituzione di parte.  

Considerato in diritto 

1. - Le due ordinanze (del pretore di Napoli e del tribunale di Milano), pur non avendo lo stesso oggetto, sollevano questioni che attengono alle guarentigie processuali del danneggiato da reato, che non sia costituito parte civile o non sia persona offesa o querelante o denunziante; e, rispettivamente, a quelle della persona offesa, nella fase istruttoria: i giudizi possono, quindi, essere riuniti e definiti con unica sentenza.

2. - La questione proposta dal pretore di Napoli concerne gli artt. 408 e 422 (in relazione all'art. 412) del codice di procedura penale, che si assumono illegittimi in quanto non richiedono, a pena di nullità assoluta, la citazione in dibattimento del danneggiato che non rivesta alcuna delle qualifiche indicate nell'art. 408.

Nei termini in cui é stata prospettata, la censura non ha fondamento.

L'art. 185 del codice penale statuisce che ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale obbliga - oltreché alle restituzioni - anche al risarcimento a carico del colpevole e delle persone che, a norma delle leggi civili, debbano rispondere per il fatto di lui. É da osservare, però, che trattasi di norma di diritto sostanziale, alla quale non fa riscontro, nel codice di rito, una coincidente normativa processuale: e ciò alla stregua delle esigenze di concentrazione e di speditezza del processo penale, che sarebbe gravemente appesantito dalla moltiplicazione delle parti civili. E, altresì, alla stregua dello stesso carattere di supremazia - per la sua funzione pubblicistica - di tale processo, già affermata da questa Corte (da ultimo, nella sentenza n. 190 del 1971), che ha indotto il legislatore a non richiedere, a pena di nullità, la difficile ricerca individuale di eventuali danneggiati (per i quali il pregiudizio può anche non essere di carattere patrimoniale: art. 185, secondo comma, cod. pen. e art. 2059 cod. civ.) e a limitare l'obbligo della citazione al dibattimento per l'offeso, per il querelante, per il denunziante e, tra i danneggiati, per quelli che si siano costituiti parte civile (art. 408, secondo comma, cod. proc. pen.).

Che l'art. 22 cod. proc. pen. attribuisca ad ogni danneggiato la facoltà di costituirsi parte civile, non significa che chi non siasi avvalso di tale facoltà acquisisca quei diritti che gli sarebbero riconosciuti se gli competesse, a seguito della costituzione, il ruolo di parte (o se si trattasse di chi, quale querelante o denunziante, abbia dato avvio al processo, o di chi, quale direttamente offeso dal reato, sia un contraddittore dell'imputato).

Giustificata così la diversità di trattamento, é da escludersi la violazione dell'art. 3 della Costituzione.

La scelta legislativa ha una sua coerenza, perché é indubitabile che, nell'economia del processo penale e per il raggiungimento degli scopi di questo, ben diversa é l'importanza dell'offeso dal reato, del querelante o del denunziante, e quella del semplice civilmente danneggiato: l'offeso dal reato, il querelante e il denunziante sono normalmente in grado di offrire un contributo all'accertamento della verità dei fatti e al convincimento del giudice; il semplice danneggiato lamenta il pregiudizio che ha sofferto e ne rivendica il ristoro, al di fuori della dialettica del processo.

Né il sistema prescelto viola l'art. 24 Cost.: non il primo comma, perché a nessuno che abbia sofferto un danno (diretto e immediato) dal reato, é sottratto il diritto di far valere le proprie ragioni nel processo penale (vigilantibus iura succurrunt); non il comma successivo, perché la costituzione di parte civile consente sia la difesa svolta personalmente, sia la difesa tecnica. Per di più, l'efficacia riflessa del giudicato penale abilita il danneggiato ad avvalersi, a proprio vantaggio, del dictum giudiziario (a meno che sia risultato che il fatto non sussiste o che l'imputato non l'ha commesso o che il fatto fu commesso nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima, ovvero che non é sufficiente la prova che il fatto sussista o che l'imputato l'abbia commesso: art. 25 cod. proc. pen.; vedi anche art. 27, primo comma, stesso codice).

Non é che il sistema sia perfetto (ad alcuni inconvenienti, per altra via, questa Corte ha già ovviato: sentenza n. 55 del 1971), ma ciò é conseguenza della compenetrazione dell'azione civile nel processo penale, adottata dalla nostra legislazione, e della stessa funzione subordinata e sussidiaria, nel rapporto processuale penale, attribuita alla parte civile.

3. - Dalla premessa che i danneggiati, non altrimenti qualificati, non rientrano di per sé nella nozione di parte privata (se non dopo che siansi costituiti parte civile) discende che non può imporsi al giudice l'individuazione di ciascuno di essi, come non può imporglisi (tanto meno a pena di nullità) di disporne la citazione in giudizio.

4. - Per le stesse ragioni, non é essenziale al processo l'avviso di procedimento a tutti i danneggiati: soddisfa alle esigenze volute dall'art. 8 della legge 5 dicembre 1969, n. 932, sostitutivo dell'art. 304 cod. proc. pen., e non contrasta con i precetti costituzionali, la notificazione effettuata ai soli danneggiati cogniti: "tutti coloro che possono assumere la qualità di parte privata" (art. 8, secondo comma, legge su citata) sono quelli, e soltanto quelli, che tali risultano allo stato degli atti o che successivamente vengono a risultare.

5. - Quanto al dubbio di costituzionalità degli artt. 306 e 185 cod. proc. pen., avanzato dal tribunale di Milano, per eventuale contrasto con l'art. 24, primo e secondo comma, della Costituzione, é da premettere che l'art. 306 conferisce alla persona offesa anche non costituita parte civile delle limitate facoltà, nel corso dell'istruzione, dirette all'accertamento della verità, senza altri diritti nel procedimento; e, altresì, che il denunziato art. 185 cod. proc. pen. non concerne la parte civile, bensì riguarda le nullità attinenti alla capacità del giudice, all'iniziativa e all'intervento del pubblico ministero e all'intervento, assistenza e rappresentanza dell'imputato.

D'altronde, questa Corte, con sua sentenza n. 136 del 1968, dichiarando infondata la questione relativa alla non impugnabilità della costituzione di parte civile in sede di istruttoria sommaria, ha già accolto il principio che il contraddittorio tra imputato e parte civile non si instaura nella fase istruttoria, bensì nel dibattimento (artt. 98, 99 e 100 cod. proc. pen.).

Principio non smentito dalla diversa disciplina statuita per l'istruzione formale dall'art. 97 cod. proc. pen., che prevede la opposizione del pubblico ministero o dell'imputato alla costituzione di parte civile e la relativa decisione del giudice istruttore, dappoiché per il sesto comma dello stesso art. 97, la costituzione di parte civile può venire esclusa, pur se prima - durante l'istruzione - era stata ammessa; e, per l'art. 99 cod. proc. pen., "la costituzione di parte civile può essere dichiarata inammissibile dal giudice anche d'ufficio con ordinanza in qualsiasi stato del procedimento di primo grado, prima dell'inizio della discussione finale nel dibattimento" (eccezioni alla cosiddetta immanenza della parte civile).

Né disdice al criterio della provvisorietà della costituzione di parte civile (sino alle soglie della discussione finale di primo grado) la superstite validità degli atti dell'istruzione e del giudizio, se in qualunque stato e grado del procedimento detta costituzione venga dichiarata nulla (art. 100, terzo comma, cod. proc. pen.), essendo tale validità conforme alla natura del processo penale, che esige la utilizzazione degli elementi acquisiti al processo ai fini del soddisfacimento della pretesa punitiva, che é relativamente autonoma rispetto alla pretesa risarcitoria (e restitutoria), siccome emerge dal disposto dell'art. 100, secondo comma, del codice di procedura penale.  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 408 e 422 del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, e degli articoli 306 e 185 dello stesso codice, in riferimento all'art. 24 della Costituzione, rispettivamente sollevate con le ordinanze in epigrafe.  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1971.

Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI

 

Depositata in cancelleria il 28 dicembre 1971.