Sentenza n. 156 del 1971
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SENTENZA N. 156

ANNO 1971

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI,

ha pronunciato la seguente  

SENTENZA 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 7, primo e secondo comma, della legge 14 luglio 1959, n. 741 (norme transitorie per garantire minimi di trattamento economico e normativo ai lavoratori), e dell'articolo unico del d.P.R. 11 settembre 1960, n. 1326 (norme sul trattamento economico e normativo dei lavoratori dipendenti dalle imprese grafiche e affini), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 12 giugno 1969 dal tribunale di Vigevano nel procedimento civile vertente tra Graziotto Maria e Magnani Pietro, iscritta al n. 356 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 269 del 22 ottobre 1969;

2) ordinanza emessa il 12 dicembre 1969 dalla Corte suprema di cassazione - sezione 2a civile - nel procedimento civile vertente tra la società Azienda grafica e affini (SAGRAF) ed Esposito Salvatore, iscritta al n. 57 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 76 del 25 marzo 1970.

Visti gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 18 maggio 1971 il Giudice relatore Costantino Mortati;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Michele Savarese, per il Presidente del Consiglio dei ministri.  

Ritenuto in fatto 

1. - Nel corso della causa civile promossa da Graziotto Maria per conseguire il pagamento di retribuzioni e somme accessorie dovutele in seguito alle prestazioni di lavoro svolte alle dipendenze di Magnani Pietro e da determinarsi dal giudice ai sensi degli artt. 36 della Costituzione e 2099 e seguenti del codice civile, il convenuto eccepiva che il rapporto di lavoro in questione era regolato dal contratto collettivo nazionale per i lavoratori addetti alle aziende fabbricanti maglierie e calzetterie, stipulato il 24 maggio 1957 e reso efficace erga omnes con decreto presidenziale 28 agosto 1960, n. 1325, e che, avendo le relative clausole acquisito forza di legge, esse non potevano venir disapplicate dal giudice, neppure in virtù dei poteri di cui agli artt. 36 della Costituzione e 2099 del codice civile.

L'attrice assumeva invece che il contratto collettivo 24 maggio 1957 era stato superato da altri più recenti (17 maggio 1962 e 25 maggio 1965) e che pertanto il giudice ben poteva rifarsi ad essi per determinare la retribuzione sufficiente, indipendentemente dall'appartenenza delle parti alle organizzazioni sindacali stipulanti.

Nell'ordinanza in data 12 giugno 1969 il tribunale di Vigevano, ritenuto che le clausole dei contratti collettivi rese efficaci erga omnes hanno forza di legge e non possono essere disapplicate dal giudice, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 7, primo e secondo comma, della legge 14 luglio 1959, n. 741, dai quali deriva il conferimento ad esse della forza di legge, per violazione dell'art. 36 della Costituzione.

Se infatti le norme delegate in questione presentano caratteristiche particolari, in quanto non possono "essere in contrasto" con norme imperative di legge (art. 5, legge citata) e possono invece essere modificate da "accordi e contratti collettivi aventi efficacia verso tutti gli appartenenti alla categoria" (art. 7), deve ciò nondimeno ritenersi, a giudizio del tribunale, che il giudice ordinario non possa disapplicarle, anche ove le ritenga in contrasto con la Costituzione. Il contrasto fra clausole di contratto collettivo e norme imperative di legge non rende inoperante la recezione, ma solo viziate da illegittimità costituzionale sotto il profilo dell'eccesso di delega le norme delegate: il giudice perciò non può considerare tali clausole come "non immesse" e disapplicarle, ma deve rimettere alla Corte costituzionale l'esame della questione.

La dedotta inadeguatezza dei minimi salariali fissati per legge si risolve quindi, a parere del tribunale, in una violazione dell'art. 36 della Costituzione da parte delle norme che operano il conferimento a tali clausole della forza di legge, cioè degli artt. 1 e 7, primo e secondo comma, della legge n. 741 del 1959. In tale legge, infatti, non vi é nulla che consenta di ritenere conferito al giudice l'eccezionale potere di adeguare una retribuzione legislativamente fissata al limite sancito dall'art. 36 della Costituzione. Anzi, il contrario sembra desumibile dai commi secondo e terzo dell'art. 7, in virtù dei quali, fino a quando non interverranno successive modifiche di legge o contratti collettivi aventi efficacia verso tutti gli appartenenti alla categoria, solo l'accordo tra il datore di lavoro ed il lavoratore, sia esso concretato in un contratto individuale o in un contratto collettivo di diritto comune, può portare ad una modificazione dei minimi salariali fissati dalla legge delegata.

2. - Dopo che l'ordinanza é stata regolarmente comunicata, notificata e pubblicata, é intervenuto nel processo avanti la Corte il Presidente del Consiglio dei ministri e l'Avvocatura generale dello Stato che lo rappresenta ha concluso per l'infondatezza della questione, richiamando il precedente contrario offerto dalla sentenza n. 129 del 1963 di questa Corte ed assumendo che, con la norma del secondo comma dell'art. 7 della legge n. 741 del 1959, é stata attuata una opportuna ed anzi indispensabile saldatura normativa tra la scadenza dei contratti collettivi, estesi erga omnes, e la stipulazione dei nuovi contratti collettivi di categoria.

3. - Nel corso di analoga controversia proposta da Esposito Salvatore contro la società SAGRAF avanti il tribunale di Napoli, dopo che la tesi della diretta applicabilità dell'art. 36 della Costituzione era stata accolta in prime cure ed in appello, la stessa questione é stata sollevata dalla Corte di cassazione, adita con ricorso della convenuta; nell'ordinanza in data 12 dicembre 1969, tuttavia, essa ha impugnato, sempre con riferimento all'art. 36 della Costituzione, anziché le norme della legge n. 741 del 1959 cui si era rifatto il tribunale di Vigevano, il decreto presidenziale 11 settembre 1960, n. 1326, che aveva reso efficace erga omnes il contratto collettivo per i tipografici 1 ottobre 1959, di cui la convenuta reclamava l'applicazione e che l'attore affermava invece essere superato dal contratto collettivo di diritto comune stipulato il 6 gennaio 1962.

Secondo la Corte di cassazione, la norma che consente al giudice ordinario di stabilire la nuova retribuzione da corrispondersi ad un determinato lavoratore, utilizzando un contratto collettivo postcorporativo, di per sé non efficace rispetto alle parti in causa, come criterio orientativo per applicare l'art. 36 della Costituzione, é l'art. 2099 del codice civile, per cui quando, come nella specie, l'apprezzamento e la valutazione della conformità dei minimi retributivi al precetto costituzionale sono già stati effettuati dal legislatore, sia pure mediante decreti delegati, il potere discrezionale - equitativo, conferito al giudice dall'art. 2099 del codice civile viene meno ed egli non può sostituirsi al legislatore.

Allo stesso risultato conduce altresì la considerazione che l'art. 5 della legge n. 741 del 1959, con l'espressione "norme imperative di legge", potrebbe aver inteso stabilire l'inapplicabilità da parte del giudice ordinario delle clausole di contratto collettivo contrastanti con le sole norme di legge ordinaria, mentre nel caso di contrasto con norme costituzionali sarebbe rimasto fermo l'obbligo del giudice di sollevare incidente di costituzionalità.

Nel corso della motivazione la Corte si sofferma quindi ad analizzare la portata della sentenza n. 129 del 1963 della Corte costituzionale per concludere che essa non dice esplicitamente che il giudice ordinario adito dal lavoratore possa provvedere alla disapplicazione della clausola senza sollevare l'eccezione d'incostituzionalità della legge delegata in riferimento all'art. 36 della Costituzione; né sarebbe possibile interpretare la sentenza nel senso che lo dica implicitamente, sia per i rilievi sopra enunciati a proposito dell'art. 2099, capoverso, del codice civile, al quale la Corte costituzionale non si era richiamata perché estraneo al suo decidere, sia perché la stessa aveva interpretato, in riferimento all'art. 36 della Costituzione, l'art. 7 e non anche l'art. 5 della legge, sia infine poiché in quel caso il giudice a quo aveva denunciato l'art. 7 della legge di delegazione e non la legge delegata.

4. - Anche in questo giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato come per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, la quale ha concluso perché la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

In primo luogo l'interveniente osserva che la denuncia dell'"incostituzionalità sopravvenuta" del decreto presidenziale n. 1326 del 1960 per effetto dei contratti collettivi di diritto comune stipulati successivamente non può essere considerata come una questione di legittimità costituzionale, ma piuttosto come una questione di interpretazione ed applicazione di norme giuridiche, riservata al giudice ordinario.

Se infatti si ammette che questo testo legislativo era originariamente valido non sembra concepibile che l'incostituzionalità possa derivare dal mutato valore dei salari, che é un mero fatto economico e non giuridico. Quanto mai, da questo punto di vista, avrebbe dovuto essere tacciato d'incostituzionalità, piuttosto che il decreto presidenziale, l'art. 7 della legge n. 741 del 1959, cui deve farsi risalire questa sorta di "principio nominalistico" conseguente alla dichiarata ultrattività dei minimi salariali fissati con effetto erga omnes, che rappresenta la causa prima degli inconvenienti lamentati.

Ma, secondo l'Avvocatura, la questione sarebbe infondata anche se riferita all'art. 7 della legge n. 741 del 1959, come risulta dalla decisione di questa Corte n. 129 del 1963, della quale la Corte di cassazione ha adottato una interpretazione inaccettabile. Se infatti la Corte costituzionale avesse inteso subordinare l'esercizio del potere del giudice di adeguare i minimi salariali ad una previa dichiarazione d'incostituzionalità della legge delegata, essa non avrebbe certamente potuto affermare che "nessun dubbio sorge circa la legittimazione dei lavoratori non associati ai sindacati che ebbero a dar vita ai contratti collettivi recepiti nella legge di chiedere ed ottenere la rivalutazione del trattamento economico stabilito nei contratti medesimi".

Né ha maggior pregio l'argomento fondato sull'art. 2099 del codice civile, poiché il potere del giudice di adeguare i minimi salariali in relazione ai lavoratori non iscritti ai sindacati (o il cui datore di lavoro non sia iscritto) trova la sua base nell'art. 36 della Costituzione, di cui é indubbio il carattere precettivo, e che quindi, lungi dall'impedire, rappresenta il fondamento dell'applicazione dell'art. 2099.

All'argomento fondato sull'art. 5 della legge delega, infine, l'Avvocatura replica osservando che il contrasto fra le clausole di contratto collettivo rese efficaci erga omnes e le norme costituzionali non sussiste poiché quelle tendevano ad assicurare un trattamento minimo, mentre l'art. 36 della Costituzione prescrive l'attuazione - se del caso attraverso l'intervento del giudice - di un trattamento sufficiente.  

Considerato in diritto 

1. - Le due cause attengono alla stessa questione e pertanto si rende opportuna la loro riunione e la decisione con unica sentenza.

2. - L'ordinanza del tribunale di Vigevano denuncia gli artt. 1 e 7, primo e secondo comma, della legge 14 luglio 1959, n. 741, mentre quella della Corte di cassazione si riferisce al decreto presidenziale delegato n. 1326 dell'11 settembre 1960: ma entrambe deducono la violazione dell'art. 36 della Costituzione, ritenendo che detti testi, con l'imporre l'uno l'obbligatorietà erga omnes delle clausole dei contratti collettivi di lavoro stipulati anteriormente all'entrata in vigore della legge 741, e l'altro, emesso in esecuzione di quest'ultima, l'osservanza coattiva dei minimi salariali stabiliti con il contratto collettivo per i lavoratori dell'industria grafica del 1 ottobre 1959 hanno precluso al giudice di merito il potere di adeguare i minimi salariali stessi alle esigenze di vita dei lavoratori quando fossero sopravvenuti mutamenti nella situazione economico - sociale tali da rendere i minimi contrattuali non più idonei a soddisfarle. Sicché l'eliminazione da parte della Corte delle norme denunciate si rende necessaria affinché possa trovare applicazione il principio del primo comma dell'art. 36.

3. - Per valutare l'esattezza delle censure così formulate occorre ricordare che la legge n. 741 volle porre riparo alla situazione anomala verificatasi pel fatto che, non essendo subentrato all'ordinamento corporativo, abrogato con il d.l.l. 23 novembre 1944, n. 769, il nuovo assetto organizzativo cui l'art. 39 Cost. affida la formazione dei contratti collettivi di diritto pubblico, era venuta a mancare, nei confronti di vasti gruppi di lavoratori, per i quali non vigevano contratti di tal genere, quella garanzia di un trattamento minimo voluta affidare agli accordi fra le contrapposte associazioni di categoria. A siffatta carenza la legge predetta intese provvedere delegando il Governo ad emanare norme con forza di legge aventi a contenuto le stesse clausole dei preesistenti contratti collettivi di diritto comune, proponendosi così di conseguire risultati analoghi a quelli stabiliti dal citato art. 39 ma senza l'impiego delle diverse forme e dei procedimenti previsti da quest'ultimo.

La soluzione adottata non poteva non rivestire carattere provvisorio, transitorio ed eccezionale, e solo con riguardo ad esso la Corte, con la sentenza n. 106 del 1962, poté riconoscerne la legittimità costituzionale.

Se si tiene presente la finalità voluta conseguire con la emanazione della legge, sembra logico inferire che la statuizione dell'ultrattività delle clausole rese obbligatorie per tutti gli appartenenti alla categoria, fino al sopravvenire di nuove disposizioni di legge o di contratti collettivi, corrispondeva al presupposto di un non lontano adempimento del precetto costituzionale che avrebbe reso possibile il regolare esercizio di quell'autonomia sindacale considerata dalla Costituzione quale più idoneo strumento di disciplina dei rapporti di lavoro.

Intendere tale ultrattività come svincolata dal detto presupposto e considerarla espressione di una volontà di mantenere ferme a tempo indeterminato le clausole dei contratti recepiti, anche in presenza di circostanze sopravvenute che abbiano svuotato il valore protettivo ad esse proprio, significherebbe contrastare al proposito perseguito. Tale contrasto avrebbe assunto carattere di estrema gravità ove l'ultrattività fosse stata riferita alla parte relativa al trattamento salariale, così da mantenerlo rigidamente fermo anche quando fattori intervenuti successivamente ai contratti collettivi in atto avessero reso questo insufficiente, in modo grave ed evidente, al minimo vitale. Infatti l'interesse alla determinazione del salario in modo da soddisfare le esigenze minime di vita, mentre assume una rilevanza prioritaria rispetto agli altri presi ad oggetto della contrattazione collettiva, in quanto in certo modo ne condiziona il pieno ed effettivo godimento, rimane poi assai più di questo suscettibile di venire compromesso per effetto dei mutamenti che più frequentemente si verificano nel mercato del lavoro, o per effetto del deterioramento del valore della moneta. In corrispondenza a tali peculiarità l'art. 36, primo comma, Cost. ha stabilito per il diritto alla retribuzione sufficiente una disciplina particolareggiata che ne rende possibile una diretta tutela per opera del giudice, anche all'infuori di apposite norme di legge applicative.

Da quanto precede si può dedurre che l'opinione espressa nelle ordinanze circa la necessità di una previa pronuncia di incostituzionalità delle disposizioni denunciate per rendere possibile l'intervento perequativo del giudice, si sarebbe potuta accogliere solo nel caso in cui fosse stato sancito un espresso divieto di siffatto intervento. Non verificandosi l'ipotesi prospettata si deve ritenere sottintesa la volontà del legislatore di non pregiudicare comunque l'esperimento delle comuni azioni giudiziarie allo scopo della disapplicazione delle clausole sul salario divenute inadeguate e della loro sostituzione con altre conformi al precetto dell'art. 36.

Sarebbe infatti aberrante far discendere da una legge che si proponeva lo scopo di consentire ai lavoratori non vincolati a contratti collettivi di beneficiare del trattamento più favorevole da questi disposto l'effetto contrario di ricostituire la sperequazione salariale voluta eliminare.

Non potrebbe obiettarsi che, così ritenendo, si verrebbe ad estendere la portata della legge n. 741 facendola valere (in contrasto con quanto statuito con la citata sentenza n. 106) anche nei confronti di contratti collettivi successivi all'entrata in vigore della medesima, dato che, secondo l'interpretazione accolta, non questi sono da assumere a parametro della pronuncia richiesta al giudice bensì l'art. 36, mentre la sussistenza di tali contratti (che potrebbero anche mancare senza che la fattispecie ipotizzata subisca mutamento) assume un valore di fatto, quale indice (o uno degli indici) rivelatore di una nuova situazione, da tenere presente al limitato effetto di decidere circa la congruità del salario.

4. - Le considerazioni ora prospettate erano alla base della sentenza della Corte n. 129 del 1963, con la quale ebbe a ritenersi che l'art. 7 in contestazione fosse da interpretare non già secondo la sua formulazione letterale, bensì con riferimento alle finalità volute perseguire (anche se dovute raggiungere con l'impiego di mezzi di per sé inadatti) e perciò, da applicare in modo tale da non porre ostacolo all'intervento correttivo dell'autorità giudiziaria nel senso prima chiarito.

Quest'interpretazione non ha convinto i giudici a quibus, i quali hanno opposto ad essa rilievi vari, che risultano più analiticamente puntualizzati dalla Corte di cassazione. Essa ha osservato, che mentre manca nella sentenza un'esplicita statuizione circa l'applicabilità al caso, per opera del giudice, dell'art. 36 Cost., non se ne può neanche argomentare una implicita perché la norma di raffronto allora invocata era l'art. 3 Cost. e non già, come ora, l'art. 36, ed altresì perché essa non aveva tenuto conto né dell'art. 2099, capoverso, del codice civile, né dell'art. 5 della legge n. 741.

A tali argomentazioni si può opporre anzitutto che l'interpretazione che si censura era stata assunta dalla Corte anche con preciso e testuale riferimento all'art. 36, la cui violazione risultava denunciata da una delle ordinanze, la quale allegava considerazioni analoghe a quelle ora prospettate. In secondo luogo il mancato riferimento all'art. 2099 appare irrilevante perché questa disposizione é anteriore all'entrata in vigore della Costituzione, e si inserisce in un ordinamento dei rapporti di lavoro che predisponeva, con l'art. 77, ultimo comma, del d.l.l. 1 luglio 1926, n. 1130, congegni idonei ad assicurare la corrispondenza della contrattazione collettiva ai mutamenti delle situazioni di fatto, così che il condizionamento con esso disposto dell'intervento del giudice alla mancanza di norme corporative lascia intatto il problema, ora agitato, della diretta efficacia della norma costituzionale nei confronti di norme di legge di carattere provvisorio ed eccezionale.

Quanto infine all'art. 5 della legge n. 741 non sembra dubbio che le norme imperative cui esso si riferisce siano quelle, legislative o equiparate, considerate nell'art. 1399 del codice civile, sicché se ne deve ritenere l'irrilevanza nella presente questione, la cui risoluzione, come si é detto, deve farsi derivare dal coordinamento fra l'art. 7 della legge predetta e l'art. 36 della Costituzione.

5. - Quanto precede dovrebbe portare alla conclusione della infondatezza delle censure di incostituzionalità. Tuttavia, in presenza dei dubbi sull'interpretazione prospettata e fatta valere con la precedente sentenza, ed in considerazione dell'eventualità, sia di una loro persistenza, con conseguente futura proposizione di altre questioni di eguale contenuto, sia di quella, ancora più grave, che si giunga, sulla base di una interpretazione letterale degli artt. 1 e 7, al disconoscimento del diritto al salario sufficiente da parte di giudici di fronte ai quali non venga prospettata la questione di costituzionalità, o che non la sollevino di ufficio, la Corte é dell'avviso che debba essere dichiarata fondata l'allegata violazione dell'articolo 36 Cost., in quanto con la legge di delegazione si sia inteso inibire al giudice di adeguare (al di sopra dei minimi prescritti dai decreti delegati) il trattamento economico previsto dai contratti individuali di lavoro alle situazioni sopravvenute. Eguale statuizione deve emettersi nei confronti dell'articolo unico del d.P.R. 11 settembre 1960, n. 1326, il solo denunciato dalla Corte di cassazione, nella parte in cui, in fedele adempimento del potere delegato, rende obbligatorie tutte le clausole del contratto collettivo nazionale di lavoro 1 ottobre 1959 per i dipendenti delle aziende grafiche ed affini e quindi vincola all'osservanza anche di quelle relative ai minimi salariali, pur quando sia accertato un mutamento nella situazione di fatto che li abbia resi insufficienti.

Dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 7 della legge n. 741 del 1959, nel senso specificato, deriva la conseguenza della illegittimità di tutti i decreti presidenziali delegati emessi in applicazione dell'articolo predetto, nella parte in cui, imponendo l'efficacia erga omnes dei contratti collettivi con essi recepiti, precludono al giudice l'adeguazione dei minimi salariali, in essi stabiliti, alle situazioni sopravvenute che li abbiano resi insufficienti.

Ciò in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87.  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l'illegittimità costituzionale:

a) dell'art. 7, secondo comma, della legge 14 luglio 1959, n. 741, nella parte in cui esclude che la sopravvenuta non corrispondenza dei minimi economici al salario sufficiente conferisca al giudice ordinario i poteri che gli vengono dall'art. 36 della Costituzione;

b) dell'articolo unico del d.P.R. 11 settembre 1960, n. 1326, nella parte in cui esclude che la sopravvenuta non corrispondenza dei minimi salariali fissati nel contratto collettivo nazionale di lavoro 1 ottobre 1959, per i dipendenti delle industrie grafiche e affini, conferisca al giudice ordinarie l'esercizio del potere derivante dall'art. 36 della Costituzione;

2) in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara l'illegittimità costituzionale degli articoli unici di tutti i decreti del Presidente della Repubblica aventi forza di legge, emanati in base alla delega di cui agli artt. 1 e 7 della legge 14 luglio 1959, n. 741, limitatamente alla parte in cui escludono che la sopravvenuta non corrispondenza dei minimi salariali fissati nei contratti collettivi resi con essi validi per tutti gli appartenenti alle rispettive categorie conferisca al giudice ordinario l'esercizio del potere attribuito dall'art. 36 della Costituzione.  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 giugno 1971.

Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI

 

Depositata in cancelleria il 6 luglio 1971.