Sentenza n. 97 del 1970
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SENTENZA N. 97

ANNO 1970

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici: 

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZI'

Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 18, primo e secondo comma, del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3282, contenente la legge sul gratuito patrocinio, degli artt. 128 e 130 del codice di procedura penale e degli artt. 4 e 5 delle relative disposizioni di attuazione, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 17 aprile 1968 dal pretore di Roma nel procedimento penale a carico di Zangrilli Giuseppe, iscritta al n. 176 del registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 248 del 28 settembre 1968;

2) ordinanza emessa il 12 agosto 1968 dal giudice istruttore del tribunale di Vercelli nel procedimento penale a carico di Burgio Vittorio, iscritta al n. 224 del registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 305 del 30 novembre 1968;

3) ordinanza emessa il 10 dicembre 1968 dal pretore di Roma nel procedimento penale a carico di Carrus Anna, iscritta al n. 55 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 78 del 26 marzo 1969;

4) ordinanza emessa il 12 aprile 1969 dal giudice istruttore del tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di Fiaschini Angelo e Sanna Giuseppe, iscritta al n. 354 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 269 del 22 ottobre 1969.

Visti gli atti di costituzione dell'avv. Maurizio Catti e d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 5 maggio 1970 il Giudice relatore Angelo De Marco;

uditi l'avv. Maurizio Catti ed il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Casamassima, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Con ordinanza 17 aprile 1968, emessa nel procedimento penale a carico di Giuseppe Zangrilli, il pretore di Roma, accogliendo analoga istanza del difensore di ufficio dell'imputato, avv. Maurizio Catti, dichiarava non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 128 e 130 del codice di procedura penale e degli artt. 4 e 5 delle relative norme di attuazione, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione.

La non manifesta infondatezza veniva motivata considerando che il combinato disposto dei richiamati articoli della Costituzione "prevede il lavoro come diritto, come dignità e come effettività, concetto quest'ultimo cui deve appunto attribuirsi il conseguente diritto ad una retribuzione certa e proporzionata alla qualità e quantità del lavoro, per cui non può negarsi, in fatto, una discriminazione operata appunto nei confronti del professionista che presta la propria opera coartato nella sua personale libertà e per interessi di terzi ai quali lo Stato, ove voglia rispettare la norma di ordine pubblico, dovrebbe assicurare e garantire la funzione, addossandosene direttamente il relativo onere (come, ad esempio, nel caso del perito medico - legale)".

Nessuna motivazione circa la rilevanza nel giudizio a quo della sollevata questione.

Dopo gli adempimenti di legge l'ordinanza viene ora alla cognizione di questa Corte.

Nel giudizio, così instaurato, si é costituito l'avv. Maurizio Catti (assistito, ma non rappresentato, dall'avv. Ferruccio Cappi, privo all'uopo di apposito mandato), però a nome e nell'interesse proprio e non dell'imputato. La Corte, con ordinanza dibattimentale, ha dichiarato inammissibile tale costituzione.

2. - Nel corso del procedimento penale a carico di Vittorio Burgio, il giudice istruttore presso il tribunale di Vercelli, prima di provvedere sulla richiesta del p.m. di ordinare il rinvio a giudizio dell'imputato, con ordinanza 12 agosto 1968, sollevava d'ufficio la questione di legittimità costituzionale dell'art. 18, primo e secondo comma, del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3282, dell'art. 128, primo e secondo comma, del codice di procedura penale e dell'art. 4 del R.D. 28 maggio 1931, n. 602, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, e 24, secondo e terzo comma, della Costituzione.

Dopo una dettagliata premessa di fatto nella quale si pone in evidenza il fatto che, nel caso concreto, il difensore d'ufficio, nominato per il patrocinio dell'imputato non abbiente, praticamente non aveva assolto il suo mandato, tanto da far ritenere come soltanto formalmente e non sostanzialmente osservate le norme che prescrivono l'assistenza dell'imputato per taluni atti istruttori e che, quindi, tutti gli atti di tal genere compiuti nell'istruttoria de qua avrebbero dovuto essere dichiarati nulli ai sensi dell'art. 185, n. 3 cod. proc. pen., il giudice a quo - ed evidentemente in questa considerazione deve ritenersi contenuto il giudizio di rilevanza - rileva che una tale dichiarazione sarebbe possibile soltanto sulla base di un previo riconoscimento della illegittimità costituzionale di talune norme sul gratuito patrocinio e sulla difesa d'ufficio.

Identificate, poi, tali norme nell'art. 18, primo e secondo comma, del R.D. n. 3282 del 1923, nell'art. 128 del codice di procedura penale e nell'art. 4 delle disposizioni di attuazione di detto codice, il giudice a quo ne prospettava la illegittimità costituzionale, sostanzialmente sotto i seguenti profili:

a) Dal combinato disposto delle norme sopra richiamate risulterebbe che l'imputato povero il quale, per cause a lui non imputabili, non abbia presentato l'istanza per l'ammissione al gratuito patrocinio é tenuto a pagare l'onorario al proprio difensore di ufficio anche se non abbia i mezzi per farlo.

L'avvocato di ufficio di imputato povero, sapendo di non poter essere pagato, non svolge alcuna valida difesa.

Ne discende la violazione dell'art. 24, commi secondo e terzo, della Costituzione, in quanto l'imputato non abbiente non é in grado di esercitare direttamente il diritto di difesa e gli appositi istituti (gratuito patrocinio e difesa d'ufficio) non sono idonei ad assicurare i mezzi per una effettiva difesa.

b) Comunque é sempre violato il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, in quanto tra cittadini abbienti e cittadini non abbienti esiste una grave disparità per quanto attiene alla possibilità di un effettivo esercizio del diritto di difesa.

c) Infine, pur negando la rilevanza della questione ai fini del giudizio a quo, secondo il giudice istruttore, é il principio fondamentale dell'istituto del gratuito patrocinio - difesa gratuita - che sarebbe inficiato di incostituzionalità, cosicché questa Corte, facendo ricorso all'art. 27 della legge n. 87 del 1953 e riesaminando la soluzione già adottata con la sentenza n. 114 del 1964, ben potrebbe dichiararlo in questa occasione.

Dopo gli adempimenti di legge, la questione viene ora alla cognizione di questa Corte.

Nel giudizio, così promosso, é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che con la memoria di costituzione eccepisce, in sostanza quanto segue:

a) La disciplina della concessione del gratuito patrocinio in sede penale é contenuta negli artt. 15, ultimo comma, e 29, terzo comma, e non nell'art. 18, primo e secondo comma, del R.D. n. 3282 del 1923.

Cadono, pertanto, tutte le argomentazioni dirette a dimostrarne la illegittimità tratta dal citato art. 18, essendo ben diversa la disciplina contenuta, per la materia penale, nei richiamati artt. 15 e 29.

b) Dal combinato disposto degli artt. 128 cod. proc. pen., 4 delle relative norme di attuazione e degli artt. 15 e 29, non già 18, del R.D. n. 3282 del 1923, risulta in modo chiaro che al non abbiente é assicurata la difesa gratuita, cosicché cade il presupposto, dedotto dall'erroneo richiamo all'art. 18, della denunziata disparità di trattamento tra cittadini abbienti e non abbienti e della prospettata violazione dell'art. 3 della Costituzione.

c) Che, infine, i difensori d'ufficio non retribuiti esercitino la loro funzione senza il dovuto impegno, cosicché la loro assistenza si riduce ad una mera lustra, costituisce, bensì, un grave inconveniente, ma un inconveniente che non ha rilevanza giuridica e tanto meno costituzionale e riguarda soltanto il ben diverso campo dell'etica professionale.

Non sussistono, perciò, ragioni valide perché la Corte ritorni sulla decisione adottata con la sentenza n. 114 del 1964.      

3. - Con ordinanza 10 dicembre 1968, emessa nel corso del procedimento penale a carico di tale Anna Carrus, il pretore di Roma, accogliendo in parte analoga eccezione sollevata dal difensore d'ufficio della Carrus, ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 128 del codice di procedura penale e 4 e 5 delle relative norme di attuazione, in riferimento agli artt. 23 e 36 della Costituzione.

La rilevanza viene motivata con la connessione alla retta costituzione del rapporto processuale in atto (violazione dell'art. 185 c.p.p.).

La non manifesta infondatezza viene, in sostanza, motivata con le seguenti considerazioni:

La Corte costituzionale, con sentenza 11 dicembre 1964, n. 114, nel dichiarare infondata l'analoga questione sollevata in relazione al gratuito patrocinio, riconduceva questo istituto alle prestazioni obbligatorie previste dall'art. 23 della Costituzione, avvertendo, peraltro, che, in caso di prestazioni imposte a liberi professionisti, la presenza di vari presupposti valeva a legittimarle.

Tra questi presupposti si indicavano in particolare:

a) ragioni di interesse generale;

b) condizioni di imposizione tali che la prestazione del servizio non trasformasse la libera professione in modo da annullare le soddisfazioni delle esigenze economiche e morali del soggetto.

Ragioni d'interesse generale possono giustificare l'assicurazione della tutela giurisdizionale dei non abbienti, ma non anche quella degli abbienti che o per irreperibilità non siano in grado di nominarsi un difensore o non vogliano farlo, donde l'illegittimità, proprio in relazione all'art. 23 della Costituzione, di imporre all'avvocato di assumersi il rischio patrimoniale di una prestazione che giova soltanto al prevenuto e che, quindi, da questi dovrebbe essere retribuita ai sensi dell'art. 36 della Costituzione.

D'altra parte, in concreto, l'esercizio della difesa di ufficio si é trasformato in una finzione che mortifica lo stesso avvocato che deve assumerlo e che non può svolgerlo con la dovuta serietà, senza ridurre e, quindi, annullare le soddisfazioni economiche che l'incarico di fiducia gli procura.

Il giudizio, così promosso, dopo gli adempimenti di legge, viene ora alla cognizione della Corte. Non vi sono state costituzioni o interventi di parti.

4. - Con ordinanza 12 aprile 1969, emessa nel procedimento penale a carico di tali Angelo Fiaschini e Giuseppe Sanna, il giudice istruttore del tribunale di Milano ha sollevato di ufficio questione di legittimità costituzionale dell'articolo 128 del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

Secondo il giudice a quo l'art. 128 cod. proc. pen. porrebbe in essere "una frode" e "una ipocrisia costituzionale", in quanto mentre in apparenza sembrerebbe assicurare anche ai non abbienti un valido ed effettivo servizio del diritto di difesa, nella sostanza, dato che i difensori d'ufficio non retribuiti si limitano ad una assistenza meramente formale e superficiale, senza che vi sia alcun mezzo valido per indurli ad un diverso comportamento, si risolverebbe in una mera lustra, con conseguente violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione.

Il giudizio di rilevanza é, poi, motivato nei seguenti testuali termini: "Basti dire che ove essa (l'eccezione di incostituzionalità) venisse accolta, bisognerebbe assicurare una difesa degna di questo nome agli imputati Sanna e Fiaschini, prima di continuare a procedere contro di loro".

Dopo gli adempimenti di legge, il giudizio, così promosso, viene ora alla cognizione della Corte.

Non vi sono stati interventi o costituzione di parti.

 

Considerato in diritto

 

1. - I giudizi come sopra promossi vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza, dato che hanno per oggetto la stessa questione di legittimità costituzionale degli istituti della difesa d'ufficio e del gratuito patrocinio, anche se prospettata sotto profili in parte diversi.

2. - É opportuno premettere che la questione di legittimità costituzionale degli artt. 128, comma secondo, e 131 del codice di procedura penale (in connessione col gratuito patrocinio), in riferimento agli artt. 24, comma terzo, e 35, comma primo, della Costituzione, é già stata esaminata e dichiarata non fondata da questa Corte con sentenza n. 114 del 1964.

É necessario poi richiamare i principi di massima affermati con tale sentenza.

Da tutte le ordinanze di rinvio in esame, infatti, risulta chiaramente che i giudici, che le hanno estese, di quella sentenza avevano piena conoscenza ed ora prospettano la questione sotto profili che solo apparentemente sono diversi.

In primo luogo la Corte, per negare il contrasto delle norme impugnate con l'art. 24 della Costituzione, ha affermato che l'istituto del gratuito patrocinio, anche nell'attuale disciplina, ed il complesso delle norme vigenti, comunque dirette ad assicurare la difesa dei non abbienti, debbono considerarsi compresi nell'espressione "appositi istituti" adoperata dal Costituente nell'articolo suddetto.

Ha, poi, negato il contrasto con l'art. 35 della Costituzione, affermando che la tutela del lavoro in tutte le sue forme, enunciata in detto articolo, non esclude che, in forza dell'art. 23 della Costituzione stessa, possano, con legge, essere imposte ai liberi professionisti prestazioni gratuite, purché non siano tali da trasformare lo status del libero professionista nello status di soggetto prevalentemente tenuto alla prestazione di un servizio obbligatorio non remunerato o comunque da impedire che l'esercizio della libera professione possa essere sufficiente ad assicurare la soddisfazione delle esigenze economiche e morali del professionista.

La Corte, infine, ha rilevato che ben diversa questione é quella della completa adeguatezza dell'attuale disciplina al fine perseguito dalla Costituzione, ma, al riguardo, ha affermato il principio che la insufficienza o scarsa efficienza di una norma di legge, rispetto agli scopi voluti dalla Costituzione, non può condurre a riconoscerla senz'altro contraria alla Costituzione, col risultato di far venir meno il poco già attuato.

Principio quest'ultimo riaffermato nella sentenza n. 1 del 1969 nei seguenti termini: "Una eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale che si fondasse sulla sola parziarietà della disciplina, richiederebbe intanto di condurre ad un regresso della situazione normativa, aprendo un vuoto, che non sarebbe colmabile in sede di interpretazione".

Questi richiami bastano a respingere molte argomentazioni delle ordinanze di rinvio e tutte quelle avanzate dal pretore di Roma con l'ordinanza del 17 aprile 1968 e dal pretore di Milano con l'ordinanza 19 aprile 1969.

3. - Il giudice istruttore presso il tribunale di Vercelli, con ordinanza 18 agosto 1968, affermato che la difesa d'ufficio si risolve in una mera formalità priva di contenuto concreto, con la quale non può ritenersi assicurata neppure una parvenza di vera e propria difesa, invoca l'art. 18 del r.d. 30 dicembre 1923, n. 3282 (che approva la legge sul gratuito patrocinio), in forza del quale per ottenere l'ammissione al gratuito patrocinio (da parte delle apposite commissioni) occorre far domanda in carta bollata, con la quale bisogna dimostrare anche il cosiddetto fumus boni juris.

Di qui, secondo il giudice a quo, la necessità anche per il non abbiente, prima ancora di essere ammesso a quel beneficio, di procurarsi il danaro necessario per la carta bollata e per retribuire un legale che estenda la domanda nei dovuti termini, con la conseguente violazione del principio di eguaglianza non solo tra abbienti e non abbienti, ma anche fra chi riesca e chi invece non riesca a procurarsi neppure quel poco danaro, il quale perciò non può esercitare il diritto di difesa garantito dall'art. 24 della Costituzione; tanto più che, senza ammissione al gratuito patrocinio, anche il difensore d'ufficio deve essere retribuito (art. 4 disp. att. c.p.p.).

Giunge, così, a denunziare, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la illegittimità dell'art. 18, primo e secondo comma, del r.d. 30 dicembre 1923, n. 3282, ed, in conseguenza, degli artt. 128, primo e secondo comma, del codice di procedura penale e 4 del r.d. 28 maggio 1931, n. 602.

Per quanto attiene alla efficienza della difesa d'ufficio basta ricordare che anche questa Corte con la più volte richiamata sentenza n. 114 del 1964 non ha mancato di auspicare una opportuna riforma legislativa, aggiungendo, come si é posto sopra in rilievo, che questo auspicio non significa che la normativa esistente, per quanto inadeguata, si debba, per ciò solo, dichiarare costituzionalmente illegittima.

Per quanto attiene, poi, al merito della questione, come é stata prospettata a questa Corte, si rileva:

Come esattamente eccepisce l'Avvocatura generale dello Stato, a differenza di quanto afferma il giudice a quo, a norma dell'art. 15, ultimo comma, del r.d. n. 3282 del 1923, in materia penale per essere ammessi al gratuito patrocinio basta provare lo stato di povertà (a norma del terzo comma dello stesso articolo i relativi certificati debbono essere rilasciati in carta libera) e l'ammissione é fatta dal presidente della magistratura innanzi alla quale deve trattarsi la causa o dal presidente della Corte d'assise.

Cadono, così, tutte le argomentazioni che, partendo dal falso presupposto dell'applicabilità alla specie dell'art. 18 dello stesso r.d., il giudice a quo trae dall'obbligo della presentazione di domanda in carta bollata e della conseguente necessità di assistenza di un legale per la compilazione della domanda stessa.

Risultano, pertanto, insussistenti le violazioni dei principi sanciti dagli artt. 3 e 24, comma secondo e terzo, della Costituzione, che, sulla base di quelle argomentazioni, il giudice a quo ha ritenuto di dover denunziare a questa Corte.

4. - Il pretore di Roma, con l'ordinanza 10 dicembre 1968, prende le mosse proprio dalla sentenza di questa Corte n. 114 del 1964.

Infatti, egli premette che questa Corte, con tale sentenza, "dichiarando infondata l'analoga questione relativa al gratuito patrocinio, riconduceva questo alle prestazioni obbligatorie previste dall'art. 23 della Costituzione, avvertendo, peraltro, che in caso di prestazioni imposte ai liberi professionisti la presenza di vari presupposti valeva a legittimarla" e fra questi indicava in particolare: "a) ragioni di interesse generale, b) condizioni di imposizioni tali, che la prestazione del servizio non trasformasse la libera professione in modo da annullare le soddisfazioni delle esigenze economiche e morali del soggetto". Dopodiché il pretore rileva che:

a) mentre la Costituzione garantisce la difesa gratuita dei non abbienti, nulla dice per gli abbienti, cosicché non sembra legittimo, proprio in relazione all'art. 23 della Costituzione ed alle finalità di pubblico interesse che esso presuppone, imporre all'avvocato di assumere il rischio patrimoniale di non essere retribuito, che giova soltanto al prevenuto;

b) la difesa d'ufficio si é, in concreto, trasformata in una finzione tale da abbattere moralmente lo stesso avvocato che, per i suoi impegni, non può materialmente svolgere con la debita serietà il compito affidatogli senza vedersi ridurre e, quindi, annullare quelle soddisfazioni economiche che l'incarico di fiducia, al contrario, gli conferisce.

In base a questi rilievi il pretore ha sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 128 del codice di procedura penale e 4 e 5 delle relative norme di attuazione, in riferimento agli artt. 23 e 36 della Costituzione.

Precisati così i termini della questione, si rileva:

L'art. 24 della Costituzione al secondo comma sancisce che la difesa é diritto inviolabile del cittadino in ogni stato e grado di procedimento. L'esercizio di tale diritto é, poi, praticamente imposto dalla normativa vigente in materia processuale. Nel giudizio penale l'imputato deve, a pena di nullità, essere assistito dal difensore (art. 125 c.p.p.) e in base alla più recente giurisprudenza di questa Corte tale obbligo deve essere esteso anche al periodo istruttorio. In materia civile davanti al pretore le parti, di regola, non possono stare in giudizio se non con il ministero di un difensore; salvo i casi in cui la legge dispone altrimenti, davanti ai tribunali e alle Corti d'appello le parti debbono stare in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente e davanti la Corte di cassazione col ministero di un avvocato iscritto in apposito albo (art. 82 c.p.p.).

Davanti a questa Corte e davanti al Consiglio di Stato ed alla Corte dei conti é pure obbligatorio il patrocinio di un avvocato iscritto nell'apposito albo delle magistrature superiori. Ecco perché gli esercenti le professioni forensi, in quanto dell'opera di essi il pubblico sia per legge obbligato a valersi, agli effetti della legge penale, sono considerati persone esercenti un servizio di pubblica necessità (art. 359, n. 1, c.p.).

É, poi, molto significativo in relazione alla questione in esame che il secondo comma dello stesso art. 359 del codice penale considera persone esercenti un servizio di pubblica necessità anche i privati che, non esercitando una pubblica funzione né prestando un pubblico servizio, adempiono un servizio dichiarato di pubblica necessità mediante un atto della pubblica Amministrazione, essendo evidente il riferimento alla materia ora soggetta all'osservanza del precetto di cui all'art. 23 della Costituzione.

Ma in materia penale vi é di più: poiché l'imputato deve essere assistito dal difensore a pena di nullità del giudizio, interessa tutta la collettività che quella nullità non si verifichi e perciò il difensore d'ufficio deve essere nominato anche all'imputato abbiente che per qualsiasi ragione ne sia rimasto privo o, addirittura, non intenda nominarne uno di fiducia.

Appunto in considerazione di quanto precede, questa Corte non solo con la più volte citata decisione del 1964, n. 114, argomentando dall'art. 23 della Costituzione, ha escluso l'illegittimità dell'imposizione agli avvocati dell'obbligo di difesa gratuita dei non abbienti; ma, con la decisione n. 23 del 1968, per il carattere di pubblico interesse, data la funzione di essenziale collaborazione con gli organi della giurisdizione riconosciuto alla professione forense, ha ritenuto legittima la corresponsione obbligatoria di predeterminati contributi alla Cassa nazionale di previdenza e di assistenza degli avvocati e procuratori, anche da parte di soggetti diversi dagli esercenti tali professioni ed indipendentemente da tale qualità.

Ciò posto, il sostenere che l'imposizione dell'obbligo della difesa d'ufficio nel giudizio penale anche di persone eventualmente abbienti (che, quindi, in base all 'art. 4 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale sono tenute a corrispondere l'onorario al difensore) esuli dalla previsione dell'art. 23 della Costituzione perché "impone all'avvocato di assumere il rischio patrimoniale di non essere retribuito" é veramente eccessivo: infatti, come sopra si é posto in rilievo, la difesa dell'imputato, con o senza retribuzione, é di interesse pubblico, in quanto attiene alla validità del giudizio che, alla sua volta, é di azione e di interesse pubblici; perciò la si può imporre.

Sul punto, poi, che una seria ed effettiva difesa di ufficio impegnerebbe talmente da annullare la possibilità dell'esercizio della professione libera, si é pronunciata questa Corte - sempre con la sentenza n. 114 del 1964 - osservando: "Ma nel caso in esame non v'é dubbio che la previsione, contenuta nella legge, di una saltuaria prestazione obbligatoria, eventualmente gratuita, non contrasta con l'indicata norma costituzionale (art. 23) né col sistema di principi che da essa si ricava".

Né l'ordinanza di rinvio contiene argomenti tali da potere indurre questa Corte a mutare opinione.

Dimostrato, così, che non può ravvisarsi alcuna violazione dell 'art. 23 della Costituzione, in base ai principi sopra richiamati, viene meno anche la prospettata violazione dell'art. 36.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 128 e 130 del codice di procedura penale, degli artt. 4 e 5 del R.D. 28 maggio 1931, n. 602, contenente "Disposizioni per l'attuazione del codice di procedura penale", e dell'art. 18 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3282: "Approvazione del testo di legge sul gratuito patrocinio", sollevata con le ordinanze in epigrafe in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 23, 24, 35 e 36 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 giugno 1970.

Giuseppe BRANCA  -  Michele FRAGALI  -  Costantino MORTATI  -  Giuseppe CHIARELLI  -  Giuseppe VERZÌ  -  Giovanni BATTISTA BENEDETTI  -  Francesco PAOLO BONIFACIO  -  Luigi OGGIONI  -  Angelo DE MARCO  -  Ercole ROCCHETTI  -  Enzo CAPALOZZA  -  Vezio CRISAFULLI  -  Nicola REALE  -  Paolo ROSSI

 

 

Depositata in cancelleria il 16 giugno 1970.