Sentenza n. 95 del 1968
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SENTENZA N. 95

ANNO 1968

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Aldo SANDULLI, Presidente

Dott. Antonio MANCA

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI, 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1 del R.D. 10 maggio 1923, n. 1792, recante "Convalida dei regi decreti 19 novembre 1921, n. 1592 e 16 novembre 1921, n. 1593 e modificazione dell'imposta sul consumo del gas e dell'energia elettrica", promosso con ordinanza emessa il 14 marzo 1966 dal Tribunale di Monza nel procedimento penale a carico di Brenna Riccardo ed altri, iscritta al n. 204 del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 299 del 26 novembre 1966.

Visti gli atti di costituzione di Brenna Riccardo ed altri e d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 30 maggio 1968 la relazione del Giudice Giuseppe Chiarelli;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giovanni Albisinni, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Nel corso del procedimento penale a carico di Riccardo Brenna e altri, imputati del reato di cui agli artt. 10 del Codice penale e 25 e 45 del D. M. 8 luglio 1924 (T.U. disposizioni legislative concernenti l'imposta di fabbricazione degli spiriti), il Tribunale di Monza, con ordinanza 14 marzo 1966, premesso che l'art. 25 del citato testo unico riproduce la disposizione contenuta nell'art. 1, n. 12, all. 1, del decreto-legge 19 novembre 1921, n. 1592, ha rimesso a questa Corte la questione di legittimità costituzionale, sollevata dalla difesa degli imputati, dell'art. 1 del R.D. 10 maggio 1923, n. 1792, così formulato:

"Sono convalidati i regi decreti 19 novembre 1921, n. 1592, concernente la sistemazione delle imposte di produzione e di consumo, e 16 novembre 1921, n. 1593, concernente le imposte sul caffé, sui suoi surrogati e sugli organi di illuminazione".

Poiché il decreto 10 maggio 1923 era stato emanato in base alla delegazione di poteri conferiti al Governo con la legge 3 dicembre 1922, n. 1601, si osserva nell'ordinanza che la delega ivi contenuta non aveva per oggetto la convalida di decreti-legge, e tanto meno del D.L. n. 1592 del 1921, e che, in base ai principi costituzionali in vigore prima della legge n. 100 del 1926, i decreti-legge non potevano essere convalidati se non con la conversione in legge da parte del Parlamento. L'art. 1 del decreto 10 maggio 1923 avrebbe pertanto superato i limiti delega, e sarebbe stato costituzionalmente illegittimo per violazione dei principi che regolavano, all'epoca della sue emanazione, la convalida dei decreti-legge, nonché l'esercizio, da parte del Governo, del potere legislativo delegato dalle Camere.

L'ordinanza é stata regolarmente notificata e comunicata. Con deduzioni in data 20 novembre 1966, che sostanzialmente si riportano agli argomenti dell'ordinanza, si sono costituiti in giudizio i signori Ambrogio, Riccardo, Pierluigi e Giancarlo Brenna, rappresentati e difesi dagli avvocati prof. Enrico Allorio, Sergio Carpinelli, Gino Colombo e Edoardo Orsenigo.

É intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con atto 16 dicembre 1966. In esso si contesta che l'art. 1 del decreto n. 1792 del 1923 abbia inteso convertire in legge il decreto n. 1592 del 1921, di cui invece si sono volute inserire le disposizioni nel riordinamento di norme a cui il Governo era stato delegato; e ciò rientra nei limiti della delega. Né vi é dubbio che questa consentisse l'emanazione di norme riguardanti le imposte di fabbricazione.

La difesa dei sigg. Brenna ha presentato una successiva memoria.

In essa si osserva che il Tribunale di Monza si era trovato nella necessità di affrontare il problema della legittimità costituzionale del decreto-legge 19 novembre 1921, il cui art. 1 era stato riprodotto nell'art. 25, secondo comma, del T.U. 8 luglio 1924, alla stregua del quale gli imputati dovevano essere giudicati. Ribadendo gli argomenti portati dall'ordinanza, nella memoria si sostiene che il Governo, nel convalidare il decreto legge del 1921 col decreto 10 maggio 1923, non si sarebbe contenuto nell'ambito della delegazione dei poteri conferitigli con la legge n. 1601 del 1922. Alle deduzioni della difesa del Presidente del Consiglio si oppone che la "convalida" presuppone l'esistenza di un atto inficiato da vizi, che ne determinano la invalidità. Ma il decreto legge n. 1592 del 1921 era pienamente valido, e pertanto il Governo, parlando di convalida, non poteva intendere che la conversione in legge. Si insiste quindi per la dichiarazione di illegittimità costituzionale.

Nella discussione orale, la difesa del Presidente del Consiglio si é rimessa agli scritti.

 

Considerato in diritto

 

1. - La questione che la Corte é chiamata a decidere é se l'art. 1 del decreto 10 maggio 1923, n. 1792, emanato in virtù della delegazione di poteri conferiti al Governo con la legge 3 dicembre 1922, n. 1601, sia viziato da illegittimità costituzionale per eccesso dalla delega. Con tale articolo si convalidavano, secondo l'espressione ivi adoperata, i decreti legge n. 1592 e 1593 del 1921; ma si assume nell'ordinanza di rimessione, e si sostiene dalle parti private, che la delega di cui alla detta legge non aveva per oggetto la convalida di decreti-legge, la quale, secondo i principi costituzionali del tempo, non poteva avvenire che attraverso la conversione in legge, ad opera del Parlamento.

La disposizione impugnata avrebbe perciò superato i limiti della delega.

2. - In precedenti sentenze, la Corte, nell'affermare la propria competenza a giudicare sulla legittimità dei decreti delegati anteriori all'entrata in vigore della Costituzione, ha fissato i termini in cui va condotta l'indagine sulla costituzionalità di essi (sentenze n. 37 e 54 del 1957, sentenza n. 53 del 1961).

Nelle ricordate decisioni si é rilevato che, nell'ordinamento costituzionale precedente l'attuale, due principi fondamentali, generalmente validi, condizionavano la legittimità dei decreti delegati: l'esistenza di una delega del Parlamento, con oggetto chiaramente definito, e l'osservanza, da parte del legislatore delegato, dei limiti segnati con la delega.

Su la base di tali principi, l'esame della presente questione deve essere rivolto ad accertare il contenuto della delega, di cui alla legge 3 dicembre 1922, n. 1601, e quello della norma impugnata, per stabilire, attraverso il loro raffronto, se quest'ultima si é mantenuta nei limiti della prima.

3. - La legge 3 dicembre 1922 conferiva al Governo, come dice il suo titolo, una delegazione di pieni poteri per il riordinamento del sistema tributario e della pubblica Amministrazione. L'art. 1 specificava che al Governo era attribuita la facoltà di emanare disposizioni aventi vigore di legge "per riordinare il sistema tributario allo scopo di semplificarlo, di adeguarlo alle necessità del bilancio e di meglio distribuire il carico delle imposte", nonché per una generale riorganizzazione della pubblica amministrazione. Dell'uso della facoltà conferitagli il Governo doveva dar conto al Parlamento entro il marzo 1924 (art. 2).

La vastità della delega e gli scopi di essa implicavano una revisione, nelle materie indicate, dell'ordinamento normativo allora vigente. Pertanto, nei limiti delle predette materie, il Governo poteva emanare norme, aventi vigore di legge, innovative, abrogative, o modificative delle norme preesistenti; il che non escludeva che potesse emanare disposizioni confermative di alcune di esse. Nel riesame, a cui il Governo era tenuto, dell'intero sistema tributario, poteva ben presentarsi l'opportunità di lasciare immodificate alcune norme, considerate non contrastanti con le esigenze di semplificazione del sistema e di una migliore distribuzione del carico delle imposte.

La volontà di lasciare immutate tali norme, dopo averle considerate nel complesso del sistema in via di riordinamento, poteva esprimersi con la loro testuale riproduzione in uno dei decreti emanati in base alla delega, o con un richiamo ad esse, formulato ob relationem. Nel render conto al Parlamento del proprio operato, il Governo era così in grado di dimostrare la corrispondenza del suo esame alla estensione della materia delegata e di indicare quali norme, nel riordinato sistema, aveva modificate o introdotte o abrogate e quali invece aveva mantenute.

Ai fini della presente indagine é inoltre da osservare, per quanto sia ovvio, che la revisione dell'ordinamento normativo affidato al Governo comprendeva indiscriminatamente tutte le norme allora vigenti nelle materie oggetto della delega, indipendentemente dalla loro natura formale; vale a dire, sia che fossero contenute in leggi formali, sia che fossero contenute in decreti legislativi o decreti legge; ed é noto quanta materia, nella legislazione del tempo, fosse disciplinata da decreti-legge. É superfluo aggiungere che, rispetto alle norme in questi contenute, il Governo aveva gli stessi poteri, innanzi indicati, di abrogare, modificare o conservare.

4. - Le considerazioni innanzi esposte valgono a chiarire il significato della formula, adoperata nell'art. 1 del decreto 10 maggio 1923, n. 1792: "Sono convalidati i regi decreti" 19 novembre 1921, n. 1592, e 16 novembre 1921, n. 1593.

É fuori dubbio che tale espressione non può essere intesa con riferimento alla nozione di convalida, elaborata sulla base del diritto privato (art. 1423 e 1444 del Codice civile) e del diritto amministrativo, secondo la quale la convalida presuppone un atto invalido (negozio annullabile; atto amministrativo illegittimo), di cui si eliminano i vizi. Come esattamente ha rilevato la difesa delle parti private, i decreti-legge di cui trattasi non erano atti invalidi, secondo l'ordinamento del tempo, né erano soggetti a un termine di conversione.

Nel momento dell'emanazione del decreto delegato, le norme in essi contenute erano pertanto validamente in vigore, e come tali rientravano nel complesso di norme di cui era stata affidata al Governo la revisione e il riordinamento.

Già si é visto che il Governo, nelle materie oggetto della delega, poteva modificare o mantenere in vigore le norme preesistenti: nel caso in esame, ritenne di mantenerle immutate, e si servì ellitticamente di una forma di richiamo ("sono Convalidati i decreti", ecc.), alla quale non può attribuirsi altro significato se non quello di affermare che le norme dei due decreti erano conservate nel loro contenuto e nel loro vigore, ed entravano a far parte del riordinato sistema tributario, essendosi riconosciuta la loro rispondenza agli scopi per cui la delega era stata conferita.

Nel far questo, il Governo esercitava, pertanto, un potere che era compreso nella delega, e non si sostituiva al Parlamento nel suo potere di conversione in legge.

Se ne ha una conferma nella considerazione che, se nella cosiddetta convalida si ravvisasse un atto eccedente i limiti della delega, si dovrebbe ritenere che il Governo non avrebbe potuto neanche modificare alcuna norma dei decreti-legge in vigore al momento dell'esercizio della delega e non ancora convertiti, in quanto, con tale modifica, si sarebbe sostituito al Parlamento nel potere di apportare emendamenti in sede di conversione. Ma ciò vorrebbe dire considerare quei decreti-legge sottratti a quel riordinamento del sistema tributario e dell'organizzazione della pubblica Amministrazione per la cui attuazione la delega era stata concessa.

La semplice enunciazione di queste proposizioni rivela come una simile interpretazione della legge delega, oltre a non trovare giustificazione nell'ordinamento del tempo, in cui, come si é ripetuto, avevano il medesimo vigore leggi formali e decreti legge, indipendentemente da limiti temporali di conversione, sarebbe in contrasto con i fini di riordinamento generale a cui la delega era diretta, e ne altererebbe l'oggetto, che era costituito dall'intero sistema delle norme tributarie e delle norme relative all'organizzazione della pubblica amministrazione, in quel momento vigenti.

Deve pertanto concludersi che con la convalida del decreto legge n. 1592 del 1921 il Governo non oltrepassò i limiti della delega, dando luogo a una conversione in legge di competenza del Parlamento, e che legittimamente le norme di quel decreto furono mantenute invariate, e continuarono ad aver vigore, nell'ordinamento tributario, riordinato in attuazione della delega.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale, proposta con l'ordinanza indicata in epigrafe, dell'art. 1 del R.D. 10 maggio 1923, n. 1792, recante "Convalida dei regi decreti 19 novembre 1921, n. 1592 e 16 novembre 1921, n. 1593 e modificazione dell'imposta sul consumo del gas e dell'energia elettrica", per eccesso dalla delega rispetto alla legge 3 dicembre 1922, n. 1601.

 Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 luglio 1968.

 

Aldo SANDULLI - Antonio MANCA - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI 

 

 

Depositata in cancelleria il 10 luglio 1968.