SENTENZA N. 25
ANNO 1961
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici:
Avv. Giuseppe CAPPI, Presidente
Prof. Gaspare AMBROSINI
Dott. Mario COSATTI
Prof. Francesco Pantaleo GABRIELI
Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO
Prof. Nicola JAEGER
Prof. Giovanni CASSANDRO
Dott. Antonio MANCA
Prof. Aldo SANDULLI
Prof. Giuseppe BRANCA
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dei DD.PP.RR. 30 agosto 1951, nn. 904, 905, 906, 907, 908, 909, 910, 933, promosso con ordinanza emessa il 27 aprile 1960 dalla Corte di appello di Roma nel procedimento civile vertente tra l'Ente per la colonizzazione della Maremma tosco-laziale e del territorio del Fucino e Torlonia Alessandro, Anna Maria e Giulia, e il Ministero dell'agricoltura e delle foreste, iscritta al n. 79 del Registro ordinanze 1960 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 254 del 15 ottobre 1960.
Vista la dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udita nell'udienza pubblica del 22 marzo 1961 la relazione del Giudice Giovanni Cassandro;
uditi gli avvocati Leopoldo Piccardi e Rosario Nicolò, per i Torlonia, l'avv. Guido Astuti, per l'Ente per la valorizzazione del territorio del Fucino, e il sostituto avvocato generale dello Stato Francesco Agrò, per il Ministero dell'agricoltura e delle foreste e per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Con ordinanza 27 aprile-29 luglio 1960 la Corte d'appello di Roma ha sottoposto all'esame di questa Corte due questioni di legittimità costituzionale, sollevate l'una e l'altra con l'appello incidentale proposto dai signori Alessandro, Giulia e Anna Maria Torlonia contro la sentenza del Tribunale di Roma 11 febbraio-21 giugno 1954.
La prima questione trarrebbe origine dal fatto, lamentato appunto dai Torlonia nell'appello incidentale, che il Tribunale di Roma, violando l'art. 4 della legge 21 ottobre 1950, n. 841, aveva ritenuto produttivo di effetto retroattivo il verificarsi, al 28 novembre 1950, della condizione, apposta nei due testamenti di Alessandro e Anna Maria Torlonia - rispettivamente del 26 agosto 1884 e del 21 maggio 1901 -, del raggiungimento del 25 anno di età da parte dell'istituito erede nascituro. Da ciò la conseguenza che Alessandro Torlonia - nel quale, in virtù delle disposizioni testamentarie ora richiamate, e nonostante che queste prevedessero un meccanismo di chiamata all'eredità in parte diverso (coincidevano per la persona del primo chiamato, divergevano per i chiamati in ordine successivo), si erano in definitiva concentrate le due vocazioni ereditarie -, doveva essere ritenuto al 15 novembre 1949 titolare dei patrimoni provenienti dall'eredità di Alessandro e di Anna Maria Torlonia, confusi ormai tra loro e col suo; e con l'altra conseguenza che tre (Alessandro, Anna Maria e Giulia Torlonia) dovevano essere considerati i soggetti da sottoporre ad esproprio quali titolari del condominio fucense alla data del 15 novembre 1949.
"Più specificamente" - prosegue testualmente l'ordinanza "i Torlonia affermavano l'incompatibilità dell'art. 4 della legge 21 ottobre 1950 con i principi generali di diritto comune relativi alla retroattività della condizione".
La seconda questione di legittimità sorge, invece, dall'altra censura mossa dai Torlonia alla sentenza del Tribunale, secondo la quale questo, al luogo di riconoscere l'incostituzionalità dei decreti di esproprio perché avevano colpito beni obiettivamente inespropriabili (1: immobili urbani, impianti industriali, impianti ferroviari; 2: immobili posti fuori dell'ambito territoriale stabilito dal D.P.R. 7 febbraio 1951, n. 66, e per giunta, in parte non ricompresi neppure nei piani particolareggiati), aveva disposto soltanto una consulenza tecnica.
Soggiunge l'ordinanza: "É evidente, pertanto, che con tale doglianza i Torlonia denunciavano la violazione in genere della legge 21 ottobre 1950, n. 841".
Le due questioni di legittimità costituzionale definite così, mediante riferimento all'appello incidentale dei signori Torlonia, sono state ritenute non manifestamente infondate dalla Corte d'appello di Roma che in conseguenza ha sospeso il giudizio e trasmesso gli atti a questa Corte.
L'ordinanza, notificata alle parti costituite nel giudizio e comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento il 30 luglio 1960, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 15 ottobre 1960, n. 254.
2. - I termini delle proposte questioni sono chiariti dall'esposizione che l'ordinanza fa delle tesi che le parti sostennero davanti al Tribunale di Roma, poi davanti alla stessa Corte d'appello e che sono in massima parte quelle medesime illustrate e difese nelle deduzioni e nelle memorie depositate davanti a questa Corte.
a) Sostiene, infatti, la difesa dei Torlonia nelle deduzioni depositate in cancelleria il 4 novembre dello scorso anno, che i decreti di esproprio avrebbero violato le norme contenute nell'art. 4 della legge 21 ottobre 1950, n. 841 (c. d. legge stralcio), in quanto non avrebbero rispettato la condizione giuridica dei beni dei Torlonia al momento dell'entrata in vigore della legge stralcio, identificando al luogo di cinque, quattro soggetti passivi dell'espropriazione con la conseguenza di ricomprendere illegittimamente nella espropriazione circa 650 ettari di terreno.
Infatti, non essendosi verificata alla data dell'entrata in vigore della legge la condizione apposta ai due testamenti sopra ricordati (del compimento del 25 anno di età dell'istituito erede nascituro), ne conseguiva che Alessandro Torlonia fu Carlo a quel momento era destinatario soltanto di un'aspettativa e non poteva essere considerato erede; e, inoltre, che i patrimoni provenienti dall'eredità di Alessandro Torlonia e di Anna Maria Torlonia dovevano ritenersi separati tra loro e separati da quello di Alessandro Torlonia e caratterizzati dall'autonomia che é peculiare delle eredità giacenti. L'Ente per la colonizzazione della Maremma e del Fucino, pertanto, violò i limiti posti dalla legge di delegazione, procedendo, come procedé, all'espropriazione di Giulia Torlonia per 25/144 dell'agro fucense, di Anna Maria Torlonia per altrettante quote, di Alessandro Torlonia sempre per questo stesso numero di quote e ancora per 69/144 di Alessandro Torlonia "quale erede del patrimonio destinato al nascituro dei defunti principi Alessandro Torlonia e Anna Maria Torlonia".
I 69/144 dell'agro fucense sarebbero stati arbitrariamente riuniti mentre si sarebbe dovuto procedere all'esproprio tenendo distinti i 44/144 provenienti dall'eredità di Anna Maria Torlonia, dai 15/144 provenienti dall'eredità di Alessandro Torlonia.
b) La seconda questione di legittimità nascerebbe, come s'é visto, dall'espropriazione che l'Ente Maremma avrebbe fatta di beni oggettivamente non espropriabili perché esclusi dall'ambito di applicazione della legge 21 ottobre 1950, n. 841.
Tali beni sarebbero i seguenti:
a) il gruppo di fabbricati siti nella piazza Torlonia di Avezzano; b) gli immobili già appartenenti alla s. p. a. S.A.I.L.A. e destinati alla lavorazione del legno; c) i fabbricati dell'ex cantiere Incile, tuttora adibiti alla manutenzione, oltre che del vecchio emissario, della centrale idroelettrica di Capistrello e Canistro e delle linee telefoniche ed elettriche; d) altri beni elencati nella perizia descrittiva del 12 marzo 1959 del dott. A. Ravaglia sotto le voci d, e, f, g, h; beni destinati a un' azienda industriale per la lavorazione dello zucchero, o impianti ferroviari, o impianti di pompaggio dell'acqua per lo zuccherificio, o palazzine padronali di caccia, case di guardia, scuole.
Ora, di questi beni taluni - e sono la maggior parte - non si troverebbero nella zona di applicazione della legge stralcio, che dovrebbe considerarsi limitata, in base al D.P.R. 7 febbraio 1951, n. 66, al solo territorio del Fucino e, quindi, alla parte del territorio dei Comuni elencati in questo medesimo decreto, ricadente in detto territorio; altri sono beni urbani per natura e per destinazione, così qualificati anche in catasto e di più, in parte, nemmeno inseriti nei piani particolareggiati di esproprio.
E poiché la legge di delegazione consentirebbe l'espropriazione soltanto della "proprietà terriera", non di quella urbana, e soltanto di beni compresi nella zona di riforma, sarebbe evidente anche sotto questo secondo aspetto - dell'oggetto dell'espropriazione -, l'illegittimità dei decreti di esproprio.
La difesa dei signori Torlonia conclude chiedendo alla Corte la dichiarazione di illegittimità costituzionale dei decreti 30 agosto 1951, nn. 904, 905, 906, 907, 908, 933, 909, 910 e 2 dicembre 1952, nn. 1299, 1300, in relazione agli artt. 76 e 77 della Costituzione e 1, 2, 4 della legge n. 230 del 1950.
3. - L'Ente per la valorizzazione del territorio del Fucino (succeduto all'Ente per la colonizzazione della Maremma tosco- laziale e del territorio del Fucino, a norma della legge 9 agosto 1954, n. 639, e del D.P.R. 30 novembre 1954, n. 1246) si é costituito nel presente giudizio mediante il deposito delle sue deduzioni il 3 novembre dello scorso anno.
La difesa dell'Ente sostiene questa tesi: che essendosi verificata la condizione, apposta ai due testamenti sopra ricordati, del raggiungimento del 25 anno di età nella persona del figlio di Carlo Torlonia, Alessandro, nel quale si erano concentrate a suo tempo le due vocazioni ereditarie, il 28 novembre 1950, dopo, cioè, la data del 15 novembre 1949 e prima della pubblicazione dei piani e decreti di esproprio, codesto avveramento, giusta i principi e le norme del diritto civile, avrebbe avuto effetto retroattivo quanto meno sino dal momento della nascita di Alessandro Torlonia. Dovrebbe trarsene la conseguenza che questi era al 15 novembre titolare delle due quote di eredità, che avevano cessato di costituire due distinte eredità giacenti, confondendosi nel suo patrimonio. Aggiunge la difesa dell'Ente che a rigore l'espropriazione si sarebbe dovuta dirigere contro tre e non, come invece fece l'Ente, quattro titolari del condominio fucense, anche se questo modo di procedere dell'Ente, del quale si danno quelle che ad avviso della difesa sono le ragioni giustificatrici, non ha prodotto alcuna conseguenza giuridica o materiale, lesiva dei diritti soggettivi degli eredi Torlonia, come, del resto, sarebbe ammesso dalla parte avversa che fa derivare l'illegittimità costituzionale dei decreti di esproprio tutta dal punto che i soggetti da sottoporre all'espropriazione avrebbero dovuto essere individuati in cinque e non in quattro, tanto meno, dunque, in tre.
Del resto, la difesa dell'Ente sostiene che anche sugli effetti che conseguono dall'avverarsi della condizione sospensiva apposta nelle disposizioni di ultima volontà, siano a titolo universale o particolare, e dalla accettazione, da parte dell'erede, dell'eredità, una volta verificata la condizione, non ci sarebbe contrasto tra le parti, ma che il contrasto sorgerebbe sul valore o l'efficacia, derogatoria oppure non delle norme di diritto comune, delle norme contenute nell'art. 4 della legge stralcio, che a torto la difesa dei Torlonia interpreterebbe nel senso che cristallizzino in ogni caso la situazione nello stato anche apparente in cui essa si trovasse al 15 novembre 1949.
Su questo punto la difesa dell'Ente si richiama alla tesi costantemente sostenuta nel corso dei giudizi che hanno preceduto questo di legittimità costituzionale ed accolta nella sentenza già ricordata del Tribunale di Roma, secondo la quale l'art. 4 della legge stralcio non conterrebbe alcuna disposizione che in questa materia deroghi al diritto comune. Le norme di quell'articolo, infatti, pur vietando di prendere in considerazione (sono all'incirca le parole del Tribunale) fatti o negozi giuridici che comportino traslazione della proprietà da chi era titolare al 15 novembre 1949 a titolari successivi, non vieterebbe punto di prendere cognizione difatti sopravvenuti ai quali la legge attribuisca effetti rilevanti al fine di determinare quale soggetto debba essere ritenuto proprietario alla data del 15 novembre 1949 o all'altra dell'entrata in vigore della legge nel caso previsto dal quinto comma del medesimo art. 4. In altri termini la legge di riforma impone che si proceda all'espropriazione di coloro ai quali i beni appartenevano al 15 novembre 1949, ma non detta norme che regolino come codesta appartenenza debba essere identificata alla data del 15 novembre 1949; o, detto diversamente, "non sancisce in base a quali principi si debba ricercare se una persona fosse o non fosse proprietaria di un terreno" a quella data.
Sulla seconda questione: 1) sostiene la difesa dell'Ente che l'art. 1, n. 7, del ricordato D.P.R. 7 febbraio 1951, n. 66, non avrebbe limitato l'espropriabilità ai soli terreni emersi dal prosciugamento del Fucino, ma avrebbe ricompreso nella zona di applicazione della riforma, l'intera circoscrizione dei dieci Comuni ivi elencati; 2) la pretesa destinazione urbana o industriale di taluno dei beni espropriati non sussisterebbe. Premesso che nei confronti di un dominio terriero dell'estensione del Fucino il rapporto di servizio o la "destinazione pertinenziale" devono essere calcolati con criteri diversi da quelli di solito seguiti per individuare le pertinenze di un modesto fondo rustico, e premesso anche che sarebbe incontrovertibile che gli immobili, pertinenza di un fondo rustico, possono essere costruiti in zone più o meno adiacenti al fondo al cui servizio sono destinati, la difesa dell'Ente afferma che tutti gli immobili espropriati, senza alcuna eccezione, erano regolarmente iscritti nel catasto rustico in vigore al 15 novembre 1949 e come tali continuarono ad essere iscritti nel nuovo catasto terreni entrato in conservazione in alcuni Comuni del Fucino e i cui dati particellari furono assunti a base dei decreti di esproprio; 3) in particolare la relazione tecnica dell'Ente Fucino, allegata agli atti, dimostrerebbe: a) che i terreni e fabbricati siti in Avezzano erano al 15 novembre 1949 o terreno coltivabile e coltivato o edifici qualificabili come pertinenze di una grande azienda agricola; b) che l'ex cantiere Incile era un deposito di attrezzi e di vario materiale di uso aziendale per la manutenzione dei fabbricati, strade (per 270 km.) e canali (per 250 km.); c) che i magazzini già della S.A.I.L.A., cessata che fu la loro originaria destinazione industriale, furono utilizzati a scopi esclusivamente rurali e, anche dopo la vendita fatta alla S.A.Z.A. con atto inefficace di diritto, a norma dell'art. 20 della legge 21 ottobre 1950, n. 841; d) che tutte le altre costruzioni erano case d'abitazione di guardiani addetti alla sorveglianza delle opere idrauliche, delle strade, delle piantagioni, oppure erano case coloniche; e) che le particelle cedute alla S.A.Z.A. con atti stipulati tra il febbraio e l'aprile del 1951, quindi inefficaci di diritto nei confronti dell'Ente di riforma, rappresenterebbero superfici aziendali riservate al servizio dei circa 9000 affittuari del territorio del Fucino per il trasporto, il controllo e la pesatura dei prodotti che essi vendevano alla società dello zuccherificio.
Prosegue la difesa dell'Ente che un esame dei dati storico - giuridici della situazione catastale contestata tra le parti confermerebbe la tesi che l'Ente di riforma nel compilare il piano di espropriazione delle proprietà Torlonia in Comune di Avezzano si sarebbe attenuto alla consistenza catastale al 15 novembre 1949, la quale comprendeva, e sin dal 1924, tutti i beni indicati nel piano e, quindi, nei decreti di espropriazione.
La difesa dell'Ente conclude prospettando subordinatamente la tesi che l'accoglimento di una o più delle questioni relative alla natura ed espropriabilità di taluni tra i beni espropriati, dovendo trovare fondamento nel contrasto coi criteri e le norme della legge di delegazione, dovrebbe portare, se mai, a una dichiarazione di illegittimità parziale dei decreti delegati di esproprio.
4. - Si é costituita in giudizio anche l'Amministrazione dell'agricoltura e foreste, nella persona del Ministro pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura dello Stato, che nelle deduzioni depositate il 22 agosto 1960 sostiene le medesime tesi prospettate dalla difesa dell'Ente, alle quali, dunque, é sufficiente fare riferimento.
Viceversa, nella memoria depositata il 1 marzo 1961, l'Avvocatura espone la tesi che uno dei principi fondamentali della legislazione di riforma fondiaria sarebbe questo: che agli Enti di riforma é attribuito un potere di scelta sui terreni da assoggettare ad esproprio, al quale potere corrisponderebbe un vincolo di indisponibilità di codesti terreni che dura fino a quando non sia attuato l'intento espropriativo della legge. Il momento nel quale questa indisponibilità si pone é stabilito dalla legge al 15 novembre 1949, con la conseguenza che devono considerarsi inefficaci - di un inefficacia da ricondurre a una presunzione assoluta di frode tutti gli atti dispositivi tendenti a un mutamento della consistenza della proprietà terriera. Ma se questa é la ratio della norma, non sarebbe sostenibile la tesi che mira a togliere ogni effetto a una condizione sospensiva casuale - quale sarebbe quella della quale si discute - la cui apposizione - scrive l'Avvocatura - "non é in alcun modo riconducibile alla cennata ragione di inefficacia".
5. - In una memoria depositata il 9 marzo scorso la difesa dei signori Torlonia ribadisce con molta diffusione le sue tesi, segnatamente quelle che, a suo avviso, sorreggerebbero la fondatezza della prima questione di legittimità costituzionale. In particolare essa si prospetta l'obiezione che alla sua interpretazione delle norme contenute nell'art. 4 della legge stralcio é stata mossa dalla difesa dell'Ente e del Ministero dell'agricoltura ed é stata fatta propria dal Tribunale di Roma, secondo la quale - così come la formula la difesa dei Torlonia - la retroattività dell'acquisto del titolo di erede comporterebbe l'inapplicabilità della disposizione contenuta nell'art. 4 della legge stralcio. Senonché la legge speciale non avrebbe potuto prendere in considerazione quel principio della retroattività dell'acquisto mortis causa, perché, ponendo un termine finale per l'esercizio del potere di espropriazione (31 dicembre 1952), non poteva subordinare l'esercizio di siffatto potere alle situazioni di pendenza esistenti al momento dell'entrata in vigore della legge. Del che si troverebbe conferma nella costante giurisprudenza di questa Corte che ha tenuto ben distinta la "dichiaratività" dalla "retroattività", escludendo sempre la rilevanza di fatti costitutivi o modificativi intervenuti dopo il 15 novembre 1949, anche quando questi fatti fossero capaci, per i principi del diritto comune, di avere una efficacia retro attiva.
Ora l'evento che condiziona un acquisto avrebbe carattere di efficacia costitutiva; ad esso, una volta verificato, si ricollegherebbe immediatamente una modificazione della situazione preesistente, di maniera che il normale effetto retroattivo, che la legge comune ricollega all'avverata condizione, non sarebbe se non "un contingente modo di essere della modificazione intervenuta, non connaturale a questa, ma che troverebbe la sua esclusiva giustificazione nella legge" e che, pertanto, non opererebbe quante volte - e questo della legge stralcio sarebbe un caso - "la legge abbia mostrato di volerlo limitare o di escluderlo rispetto a certe situazioni".
In conseguenza di ciò il problema si ridurrebbe a vedere quale trattamento debba essere riservato a un complesso di beni ereditari che alla data del 15 novembre 1949 costituissero una eredità giacente, e la soluzione, in analogia anche qui con la giurisprudenza della Corte, sarebbe di considerare codesti beni come costituenti un patrimonio autonomo. Di qui il vizio dei decreti di esproprio che hanno considerato le due eredità giacenti riunite in un patrimonio unico per il motivo che il chiamato era per entrambi i patrimoni la medesima persona, motivo irrilevante perché non poteva escludersi in ipotesi che la condizione alla quale era subordinata la vocazione ereditaria non si verificasse e, dato il diverso ordine successorio fissato nei due testamenti, i patrimoni avessero in definitiva destinazioni soggettive diverse.
Relativamente alla seconda questione di legittimità, la difesa dei signori Torlonia adduce ed illustra norme, dati e circostanze, con riferimento segnatamente alla perizia del dottor Ravaglia, che suffragherebbero la tesi secondo la quale furono espropriati illegittimamente: 1) beni non compresi nei piani di esproprio, tutti di preminente natura urbana e industriale (palazzo Torlonia e annessi; opificio industriale ex S.A.I.L.A.; cantieri Incile) e posti tutti al di fuori del Fucino e a distanza notevole da questo; 2) beni inclusi nel piano di esproprio ma certamente non rurali, di natura urbana e industriale (ferrovie con relativa sede, piazzale, piani di caricamento, impianto sollevamento dell'acqua industriale, depositi per bietole occorrenti per l'industria). In particolare, la difesa dei Torlonia sottolinea il fatto che la questione non é stata sollevata per i molti fabbricati, case per guardiani e dirigenti agricoli, magazzini, officine, rimesse e via, beni che, pur non potendo essere qualificati rustici, destinati come sono, tuttavia, ad assolvere le necessarie funzioni di controllo e di manutenzione del capitale fondiario, sono stati ampiamente ricompresi nell'espropriazione, ma soltanto per quelle che per la loro evidente natura urbana e per la loro ubicazione fuori del territorio del Fucino non può dubitarsi che non rientrino nell'ambito delle leggi di riforma fondiaria, che parlano costantemente di proprietà terriera privata. Né varrebbe il richiamo che la difesa dell'Ente farebbe alla categoria giuridica delle pertinenze, stante che il rapporto pertinenziale non sorge senza un atto di volontà del proprietario della cosa principale e della cosa accessoria, idoneo a creare il collegamento funzionale tra l'una e l'altra e senza che questo collegamento sia effettivo e che, quindi, risulti dalla situazione di fatto: condizioni tutte che non si verificherebbero in riferimento ai beni espropriati ai signori Torlonia a questo titolo.
6. - La difesa dell'Ente Fucino ha presentato una memoria illustrativa delle sue tesi, che per essere stata depositata fuori termine non può essere presa in considerazione.
All'udienza del 22 marzo 1961 la difesa dei signori Torlonia, la difesa dell'Ente Fucino e l'Avvocatura dello Stato hanno con molta diffusione ribadito le loro rispettive posizioni difensive e insistito nelle già prese conclusioni.
Considerato in diritto
1. - La prima questione non é fondata.
La Corte d'appello di Roma l'ha formulata facendo riferimento quasi esclusivamente ai motivi dell'appello incidentale dei signori Torlonia, e perciò non con la precisione che sarebbe stata desiderabile. E in qualche imprecisione é incorsa anche la difesa dei signori Torlonia nell'atto di intervento (non più nella memoria illustrativa), nel quale sono indicati, tra i decreti impugnati d'illegittimità costituzionale, decreti che, viceversa, non figurano nell'ordinanza e il contrasto é stato proposto come esistente non già con la legge 21 ottobre 1950, n. 841 (cosiddetta legge stralcio), ma con la precedente legge 12 maggio 1950, n. 230 (cosiddetta legge Sila). Tuttavia l'ordinanza stessa, che é assai diffusa nella narrazione dei precedenti che hanno condotto al presente giudizio di legittimità, come non lascia dubbi sul fatto che i decreti impugnati per incostituzionalità sono i decreti 30 agosto 1951, nn. 904, 905, 906, 907, 908, 909, 910 e 933, così consente di individuare esattamente la questione sottoposta all'esame della Corte, che sta tutta e soltanto nel decidere se l'ordinario effetto retroattivo assegnato al verificarsi della condizione sospensiva, apposta a una istituzione ereditaria, sia limitato o escluso dalla disposizione contenuta nell'art. 4 della citata legge 21 ottobre 1950, n. 841, la quale sottopone all'espropriazione di una quota determinata, sulla base di certi criteri, "la proprietà privata nella sua consistenza al 15 novembre 1949".
É, infatti, pacifico tra le parti che il signor Alessandro Torlonia, compiuto il venticinquesimo anno di età il 28 novembre 1950 - dopo l'entrata in vigore della legge di riforma, dunque, ma prima della pubblicazione dei piani particolareggiati e dei decreti di espropriazione - abbia acquistato la titolarità dei beni provenienti da due distinte vocazioni ereditarie che, in base a vicende che non é necessario qui ricordare, si erano concentrate nella sua persona; e che tale acquisto, giusta le norme e i principi di diritto civile che regolano le istituzioni ereditarie soggette a condizione e l'accettazione dell'eredità (artt. 646 e 459 Cod. civ.), abbia effetto retroattivo.
In verità, la difesa dei signori Torlonia sostiene che siffatto effetto non é necessariamente legato al verificarsi della condizione, evento di natura costitutiva e modificativa di una situazione preesistente, e non già dichiarativa, ma che esso discende normalmente dalla legge la quale perciò, può, quando voglia, limitarlo e escluderlo. Ma é evidente che questa tesi, della fondatezza della quale la Corte non deve occuparsi, non altera i termini della questione, che resta pur sempre quella sopra definita di accertare se codesto normale effetto retroattivo voluto dalla legge comune sia stato eliminato, per i casi che riguardano la riforma fondiaria, dalla norma richiamata dell'art. 4 della cosiddetta legge stralcio.
Ora, la Corte non ritiene che questa norma abbia imposto al legislatore delegato l'obbligo di procedere all'espropriazione muovendo dall'apparente "consistenza" della proprietà terriera al 15 novembre 1949 e senza tenere alcun conto degli effetti che, secondo le regole del diritto comune, eventi successivi a quella data potessero determinare relativamente alla titolarità e alla situazione dei beni assoggettabili ad espropriazione. Le disposizioni contenute nella legge stralcio al quinto comma di questo medesimo art. 4 o nell'art. 20, le quali stabiliscono, con riferimento a termini anche diversi da quello del 15 novembre 1949, l'inefficacia di diritto, nei confronti degli enti incaricati della riforma fondiaria, di atti tra vivi o mortis causa a titolo gratuito o a titolo oneroso, si pongono come deroghe eccezionali; ma, appunto per questo loro carattere di eccezionalità, non possono offrire giustificazione per interpretare la norma dell'art. 4 come una deroga generale a tutte quante le norme del diritto comune, per effetto delle quali la reale consistenza della proprietà terriera, sia sotto il profilo soggettivo sia sotto quello oggettivo, sia diversa da quella apparente alla data del 15 novembre 1949. Il legislatore ha voluto che fosse colpita la proprietà terriera a questa data, ma nella sua situazione reale, non già nella sua consistenza apparente.
A un interpretazione diversa ripugna non soltanto la lettera e il sistema della legge di riforma, ma la ragione sua e gli scopi che volle perseguire, che non furono già quelli di trasferire allo Stato o ad un ente pubblico beni oggettivamente idonei a conseguire un fine di pubblica utilità - (come é, invece, dell'ordinaria espropriazione per pubblica utilità), sibbene l'altro di colpire la proprietà terriera eccedente certi limiti di estensione e di valore; da che la necessità di procedere di regola, e quante volte non sia diversamente stabilito, nei confronti non già di chi apparisse, ma di chi fosse titolare dei beni da esproriare e per l'effettivo valore dei beni stessi alla data del 15 novembre 1949.
Non vale opporre a questo, che é un principio fondamentale della legge di riforma fondiaria, la brevità del termine entro il quale (31 dicembre 1952), il potere di espropriazione poteva essere esercitato: le difficoltà e gli inconvenienti che codesta brevità può aver provocati, come é stato già affermato dalla Corte, non possono modificare o deformare il sistema della legge, né giustificarne un interpretazione che autorizzi a sottoporre ad espropriazione chi non fosse il vero proprietario al 15 novembre 1949, o ad esimerne chi, invece, lo era. Del resto, nel caso del quale si discute nel presente giudizio, queste difficoltà o inconvenienti non sussistevano, dato che la condizione si era avverata il 28 novembre 1950, prima ancora che l'Ente di riforma procedesse alla compilazione dei piani particolareggiati e prima ancora che fossero pubblicati i decreti delegati di espropriazione. A questi criteri, infine, la Corte si é costantemente ispirata nelle sue decisioni in materia di riforma fondiaria (cfr. sentenze nn. 67 del 1957, 17, 56 e 57 del 1960). Si tratta sì di casi non perfettamente identici a quello che forma oggetto del presente giudizio, ma la soluzione che la Corte ne ha data é ispirata al medesimo principio che si applica in questa decisione, secondo il quale l'efficacia retroattiva riconosciuta dalla legge comune a eventi o atti successivi al 15 novembre 1949, e collegati a situazioni in via di formazione anteriormente a tale data, non trova ostacolo nella norma dell'art. 4 della cosiddetta legge stralcio.
2. - La difesa dei signori Torlonia sostiene anche che il legislatore delegato, procedendo all'espropriazione di terreni non ricadenti nel territorio del Fucino, avrebbe violato i limiti della delegazione quali, per questa parte, risultano fissati dal D.P.R. 7 febbraio 1951, n. 66. La questione é fondata e comporta l'illegittimità, sotto questo profilo, dei decreti di esproprio.
Il decreto ora ricordato, infatti, al n. 7 dell'art. 1 inserisce tra i territori ai quali, ai sensi dell'art. 1, secondo comma, della legge 21 ottobre 1950, n. 841, si devono applicare le disposizioni contenute nelle leggi di riforma, il "territorio del Fucino (prov. de L'Aquila) Comuni di Aielli, Avezzano, Celano, Cerchio, Collarmele, Luco dé Marsi, Ortucchio, Pescina, S. Benedetto dei Marsi, Trasacco". Ora non pare dubbio alla Corte che con questa formula il legislatore abbia voluto identificare il territorio del Fucino, quale si é formato storicamente sulla base della prima concessione borbonica, e che di conseguenza l'elenco dei Comuni che segue all'intitolazione "territorio del Fucino" stia a indicare non già per intero la circoscrizione territoriale di quei Comuni come zona di attuazione della riforma, ma soltanto quella parte di essi che ricomprende i terreni che concorrono a costituire appunto quel territorio. Era a questo che il legislatore voleva si applicasse la riforma fondiaria, ed a questo soltanto volle fare immediato e diretto riferimento, sicché l'indicazione dei Comuni sopra elencati non é se non un ulteriore elemento di identificazione del comprensorio del Fucino, quale unica zona territoriale della Provincia de L'Aquila alla quale doveva essere applicata la riforma. Di che é conferma il medesimo decreto, che in tutti gli altri casi ha adottato una diversa formulazione, indicando dapprima la Provincia, poi i Comuni colpiti nell'ambito di questa e, infine, nell'ambito di questi, le parti del territorio che costituivano la sfera di applicazione della legge.
Vero é che il D.P.R. 7 febbraio 1951, n. 66, non é una legge di delegazione, bensì anch'esso, a sua volta, un decreto delegato. Senonché la Corte ritiene che l'inosservanza nei singoli decreti di esproprio delle zone territoriali fissate da quel decreto, configuri egualmente un vizio di costituzionalità e si risolva in una violazione della legge di delegazione, la quale, stabilendo, nel secondo comma dell'art. 4, la regola che la determinazione dei "territori" deve essere fatta dal Governo entro il 30 giugno 1951 con decreti aventi valore di legge ordinaria, e fissando per i decreti di espropriazione un termine diverso e più largo, ha voluto chiaramente che quella determinazione, una volta che il legislatore delegato l'avesse compiuta, fosse definitiva e vincolatrice e non potesse essere modificata di volta in volta ad opera dei singoli decreti di espropriazione.
3. - In terzo ed ultimo luogo i decreti impugnati avrebbero violato i limiti della delegazione assoggettando ad espropriazione beni che, per la loro natura urbana, o per la loro destinazione industriale, sfuggono alla sfera di efficacia della legge 21 ottobre 1950, n. 841.
La questione é fondata. Non vale opporre, come oppongono la difesa dell'Ente e l'Avvocatura dello Stato, che quei beni fossero iscritti nel catasto rustico e costituissero pertinenze dei fondi rustici espropriati. Per rimuovere la prima eccezione basta rilevare - a prescindere dal fatto che quella iscrizione é dubbia e contestata tra le parti - che il fatto che un bene di sua natura urbano sia iscritto nel catasto rustico, non muta la natura di questo bene, non lo trasforma cioè in "proprietà terriera", così come la intende la legge di riforma fondiaria.
Un discorso più lungo richiede, invece, la seconda eccezione. Occorre appena ricordare che la legge 21 ottobre 1950, n. 841, non menziona tra i beni espropriabili le pertinenze, ma si limita a dichiarare che oggetto dell'espropriazione é soltanto "la proprietà terriera privata". Con che non si vuol dire che il legislatore abbia voluto escludere dall'espropriazione le pertinenze, ma che di queste esso ha accolto il concetto adottato dal Codice civile, giusta il quale pertinenze, alle quali si estende la sorte della cosa principale (art. 818 Cod. civ.), sono da intendere le "cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un'altra cosa" (art. 817, primo comma, Cod. civ.). Sostenere un concetto più ampio delle pertinenze o addirittura un concetto variabile a seconda dell'entità dei beni soggetti all'espropriazione, sicché quel che vale nella generalità dei casi non dovrebbe valere nei confronti del territorio del Fucino, é una tesi che non trova alcun fondamento nella legge di delegazione, che ha dimostrato anche qui, in maniera non equivoca, di voler seguire e applicare le regole generali.
Che al lume di quel concetto possano ritenersi pertinenze dei fondi espropriati gli impianti necessari per assicurare la difesa dei terreni dalle acque e tutelare le opere di bonifica compiute in così lungo spazio di tempo, pare alla Corte, ma pare anche, viceversa, che non possano ricondursi sotto quel concetto impianti ferroviari, opifici industriali, un palazzo sede di uffici sito nel cuore di una città. Certamente nel corso dell'opera di bonifica del lago del Fucino e per il conseguente sviluppo economico-sociale, sono sorti vincoli e legami tra città e campagna, tra attività agricola e attività industriale, reciprocamente integrantisi, ma si tratta di un generale fenomeno storico che non può essere né spiegato, né ricondotto ai concetti privatistici di cosa principale e di pertinenza, né regolato alla stregua di questi.
Né gioverebbe alla tesi della difesa dell'Ente il ricorso dal concetto di azienda come complesso di beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa. In primo luogo, pare difficile considerare come appartenenti ad un'unica azienda più che tredicimila ettari di terra variamente condotti, o direttamente dai proprietari o mediante mezzadria o mediante affitto a migliaia di piccoli coltivatori. Ma decisive sono le considerazioni che il nesso il quale lega gli elementi di una azienda non può essere ricondotto al vincolo che lega la cosa accessoria a quella principale, e l'altra che la riforma fondiaria é diretta non già ad aziende, ma a fondi, sia pure instructi, che non sono, come si sa, assimilabili all'azienda. La legge 21 ottobre 1950, n. 841, parla sì di "terreni a cultura intensiva formanti aziende agrarie organiche ed efficienti in forme associative con i lavoratori e provvisti di impianti strumentali moderni e centralizzati" (art. 10, primo comma), ma per escluderli di norma dall'espropriazione, sia pure nel concorso di altre condizioni. Di regola l'espropriazione é di una quota parte dei beni di un soggetto privato, sicché anche quando codesti beni fossero organizzati in un complesso aziendale unitario, l'azione espropriatrice dissolverebbe quel complesso riconducendo i terreni alla loro unità catastale e predisponendo così le condizioni per la costituzione della piccola proprietà coltivatrice, punto d'arrivo della riforma fondiaria.
Spetta al giudice del merito, sulla base degli enunciati criteri, stabilire la esatta confinazione del territorio del Fucino e individuare i beni che non sono pertinenza dei fondi espropriati.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dei DD.PP.RR. 30 agosto 1951, nn. 904, 905, 906, 907, 908, 909, 910 e 933, relativa alla identificazione delle persone assoggettate all'espropriazione;
dichiara l'illegittimità dei sopra indicati decreti in relazione all'art. 4 della legge 21 ottobre 1950, n. 841, e in riferimento agli artt. 76 e 77 della Costituzione, in quanto hanno incluso nell'espropriazione beni non ricadenti nel territorio del Fucino e che non costituiscono pertinenze dei terreni espropriati.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 maggio 1961.
Giuseppe CAPPI - Gaspare AMBROSINI - Mario COSATTI - Francesco Pantaleo GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI
Depositata in cancelleria il 17 maggio 1961.