Sentenza n. 122 del 2024

SENTENZA N. 122

ANNO 2024

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da: Presidente:

Augusto Antonio BARBERA;

Giudici: Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, comma 1, lettera a), del decreto-legge 2 ottobre 2008, n. 151 (Misure urgenti in materia di prevenzione e accertamento di reati, di contrasto alla criminalità organizzata e all’immigrazione clandestina), inserito dalla legge di conversione 28 novembre 2008, n. 186, e modificato dall’art. 2, comma 21, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), promosso dalla Corte d’appello di Napoli, nel procedimento instaurato da F. V. e A. L. contro il Ministero dell’interno, Ufficio territoriale del Governo di Napoli, con ordinanza del 16 novembre 2023, iscritta al n. 159 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell’anno 2023.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 21 maggio 2024 il Giudice relatore Giovanni Pitruzzella;

deliberato nella camera di consiglio del 21 maggio 2024.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 16 novembre 2023 (r.o. n. 159 del 2023), la Corte d’appello di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, comma 1, lettera a), del decreto-legge 2 ottobre 2008, n. 151 (Misure urgenti in materia di prevenzione e accertamento di reati, di contrasto alla criminalità organizzata e all’immigrazione clandestina), inserito dalla legge di conversione 28 novembre 2008, n. 186, e successivamente modificato dall’art. 2, comma 21, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica).

1.1.– La disposizione censurata nega i benefici previsti per i superstiti delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata a chi sia «parente o affine entro il quarto grado di soggetti nei cui confronti risulti in corso un procedimento per l’applicazione o sia applicata una misura di prevenzione di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575, e successive modificazioni, ovvero di soggetti nei cui confronti risulti in corso un procedimento penale per uno dei delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale».

La Corte d’appello di Napoli afferma di dover applicare tale previsione, in considerazione del rapporto di parentela di una parte con un soggetto colpito dalla misura di prevenzione della sorveglianza speciale.

1.2.– Ad avviso della Corte rimettente, la preclusione, che condurrebbe al rigetto della domanda, sarebbe irragionevole.

Essa poggerebbe su una massima d’esperienza che potrebbe essere agevolmente contraddetta e, per altro verso, rischierebbe di pregiudicare proprio coloro che coraggiosamente si siano dissociati dalle famiglie d’origine e per questo abbiano perso un congiunto.

La finalità di evitare che le risorse pubbliche siano distolte a vantaggio di persone legate alla criminalità organizzata sarebbe già soddisfatta con il requisito dell’estraneità a tali ambienti.

Il giudice a quo prospetta il contrasto con l’art. 3 Cost. anche in riferimento alla violazione del principio di eguaglianza.

La «rigida previsione» dettata dalla legge, peraltro applicabile solo ai superstiti e non al «soggetto direttamente danneggiato», implicherebbe «una vera e propria discriminazione fondata esclusivamente sull’origine familiare».

Nel precludere ogni prova contraria, la disposizione censurata lederebbe, infine, il diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Cost.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto di dichiarare le questioni inammissibili o, comunque, non fondate.

2.1.– In linea preliminare, le questioni sollevate dalla Corte d’appello di Napoli sarebbero inammissibili per difetto di rilevanza.

Il diniego delle provvidenze non sarebbe giustificato soltanto dalla «presunzione iuris et de iure di vicinanza ai contesti della criminalità organizzata», ma anche da molteplici elementi, che confermerebbero in concreto tale vicinanza.

2.2.– Nel merito, le censure del rimettente sarebbero prive di fondamento.

La disciplina sottoposta al vaglio di questa Corte si prefiggerebbe di impedire che i sodalizi criminali lucrino i benefici economici concessi dallo Stato, in virtù dei «legami di cointeressenza, solidarietà, copertura o, quanto meno, di soggezione o tolleranza» che si instaurano nel contesto familiare.

La scelta discrezionale del legislatore si tradurrebbe, pertanto, in una presunzione «assoluta ma non irragionevole».

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe (r.o. n. 159 del 2023), la Corte d’appello di Napoli dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, comma 1, lettera a), del d.l. n. 151 del 2008, come convertito, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.

1.1.– L’originaria formulazione, inserita dalla legge di conversione 28 novembre 2008, n. 186, escludeva i benefici previsti per i superstiti delle vittime del terrorismo e della criminalità soltanto per chi fosse «coniuge, affine o convivente» dei soggetti che si trovavano nelle peculiari condizioni definite dalla legge. Nessuna esclusione era prevista in rapporto ai parenti.

In seguito alle innovazioni apportate dall’art. 2, comma 21, della legge n. 94 del 2009, tale disposizione oggi nega i benefici elargiti ai superstiti delle vittime della criminalità organizzata non soltanto al coniuge o al convivente, ma anche a chi sia «parente o affine entro il quarto grado di soggetti nei cui confronti risulti in corso un procedimento per l’applicazione o sia applicata una misura di prevenzione di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575, e successive modificazioni, ovvero di soggetti nei cui confronti risulti in corso un procedimento penale per uno dei delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale».

Sull’esclusione, applicabile a parenti e affini, si incentrano le censure del rimettente.

1.2.– La condizione ostativa, estesa a un’ampia platea di parenti e affini, a prescindere dal rapporto di frequentazione, si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto un duplice profilo.

La Corte rimettente denuncia, in primo luogo, la violazione del principio di ragionevolezza.

La disposizione censurata si fonderebbe su una massima d’esperienza fallace, che potrebbe essere «sconfessata dalla realtà», in quanto non è «affatto impossibile, né tantomeno difficile, nella realtà, che soggetti che abbiano rapporti di parentela o affinità anche stretta con appartenenti all’ambiente criminale siano estranei ad esso».

Così congegnata, la preclusione finirebbe «per danneggiare, senza ragione alcuna, proprio i soggetti più meritevoli, cioè coloro che, pur avendo legami familiari con appartenenti alle organizzazioni criminali, se ne siano discostati e che magari proprio per tale ragione abbiano subito la perdita di un loro caro».

Né l’esclusione indiscriminata prevista dalla disposizione censurata sarebbe giustificata dall’esigenza di impedire che delle risorse dello Stato profitti la criminalità organizzata. Tale esigenza sarebbe già soddisfatta dal requisito dell’assoluta estraneità agli ambienti delinquenziali.

La presunzione assoluta sarebbe lesiva, inoltre, del principio di eguaglianza, in quanto determinerebbe «una vera e propria discriminazione fondata esclusivamente sull’origine familiare» e riserverebbe ai parenti della vittima un trattamento deteriore rispetto al «soggetto direttamente danneggiato», viceversa escluso dall’àmbito applicativo della «rigida previsione» di cui si discute.

Il giudice a quo ravvisa, infine, la violazione dell’art. 24 Cost. e, a tale riguardo, sostiene che la presunzione assoluta, nel negare ingresso alla prova contraria, comprometta il diritto di difesa.

2.– La difesa dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale, in quanto carenti di rilevanza.

L’eccezione non è fondata.

2.1.– Anche nella prospettiva di un più diffuso accesso al sindacato di costituzionalità, la rilevanza postula l’applicabilità della disposizione censurata nel giudizio principale e non si identifica nell’utilità concreta che una pronuncia di accoglimento può apportare alle parti (fra le molte, sentenza n. 174 del 2019, punto 2.1. del Considerato in diritto).

È necessario e sufficiente che la disposizione sospettata di illegittimità costituzionale incida sul percorso argomentativo che il rimettente è chiamato a compiere, quand’anche il tenore della decisione non muti (di recente, sentenza n. 25 del 2024, punto 2.2. del Considerato in diritto).

La valutazione di tali presupposti è demandata al giudice a quo e si sottrae al sindacato di questa Corte, ove sia suffragata da una motivazione non implausibile.

2.2.– Il rimettente ha evidenziato che assume priorità logica l’esame della condizione ostativa assoluta, per la sua portata dirimente e per la sua attinenza alla ragione più liquida di decisione.

In questo percorso argomentativo, lineare e coerente, solo la declaratoria di illegittimità costituzionale della previsione censurata imporrebbe quell’accertamento in concreto che, nella delibazione compiuta dai giudici d’appello, implica una più articolata indagine, in mancanza di elementi decisivi, idonei prima facie a giustificare il diniego delle provvidenze.

Al vaglio compiuto dal giudice a quo l’eccezione dell’Avvocatura generale dello Stato contrappone un diverso inquadramento dei dati probatori acquisiti, che esula dal sindacato devoluto a questa Corte e non vale a connotare come implausibile il ragionamento svolto in ordine alla rilevanza.

3.– Le questioni sono fondate.

4.– Il legislatore, con la legge 20 ottobre 1990, n. 302 (Norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata), ha riconosciuto un’elargizione, oggi determinata nell’ammontare complessivo di euro 200.000,00 (art. 4), ai superstiti di chi perda la vita per effetto di ferite o lesioni riportate in conseguenza dello svolgersi di atti di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico o di fatti delittuosi commessi per il perseguimento delle finalità delle associazioni mafiose. L’importo è stato così ridefinito, per gli eventi successivi al primo gennaio 2003, dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 28 novembre 2003, n. 337 (Disposizioni urgenti in favore delle vittime militari e civili di attentati terroristici all’estero), convertito, con modificazioni, nella legge 24 dicembre 2003, n. 369.

Di tali provvidenze beneficiano i «componenti la famiglia» (art. 4, comma 1, della legge n. 302 del 1990) e, dopo i fratelli e le sorelle conviventi a carico, i «soggetti non parenti né affini, né legati da rapporto di coniugio, che risultino conviventi a carico della persona deceduta negli ultimi tre anni precedenti l’evento» e i «conviventi more uxorio» (art. 4, comma 2, della legge n. 302 del 1990).

Il coniuge di cittadinanza italiana o il convivente more uxorio e i parenti a carico entro il secondo grado di cittadinanza italiana possono optare per un assegno vitalizio personale, non reversibile, di ammontare diversamente graduato in ragione del numero dei beneficiari (art. 5 della legge n. 302 del 1990).

5.– Le elargizioni e l’assegno vitalizio attuano la solidarietà della Repubblica per le persone colpite negli affetti più cari da episodi di mafia o terrorismo.

La finalità solidaristica che permea tali provvidenze è avvalorata dai criteri di attribuzione, svincolati «dalle condizioni economiche e dall’età del soggetto leso o dei soggetti beneficiari e dal diritto al risarcimento del danno agli stessi spettante nei confronti dei responsabili dei fatti delittuosi» (art. 10, comma 1, della legge n. 302 del 1990).

6.– Spetta alla discrezionalità del legislatore il compito di individuare criteri selettivi appropriati, al fine di salvaguardare un impiego oculato delle risorse pubbliche, nel rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, pietra angolare di quel patto tra lo Stato e i cittadini che le misure di sostegno intervengono a rinsaldare.

La connotazione solidaristica delle prestazioni, pur se estranee alla garanzia delle condizioni minime di sussistenza, impone scelte rispettose della parità di trattamento e coerenti con la ratio ispiratrice della disciplina di favore prevista dalla legge.

Nella delimitazione della platea dei beneficiari, il legislatore ben può enucleare presunzioni assolute di indegnità, purché siano corroborate da massime d’esperienza plausibili e rispecchino l’id quod plerumque accidit.

7.– Da tali criteri si discosta, per molteplici ragioni, la disposizione censurata.

8.– La disciplina dettata dal d.l. n. 151 del 2008, come convertito, si prefigge di evitare che le limitate risorse dello Stato siano sviate dal sostegno delle vittime della mafia e del terrorismo e avvantaggino, per vie indirette, le stesse associazioni criminali che intendono contrastare.

La scelta legislativa di prescrivere le verifiche più approfondite nell’attribuzione delle provvidenze si correla, dunque, a una finalità legittima e trae origine dalla considerazione che, nei circuiti criminali e nelle famiglie che attorno ad essi gravitano, sono capillari i legami di mutuo sostegno, di connivenza o di tacita condivisione.

9.– La finalità, pur legittima, è perseguita, tuttavia, con mezzi sproporzionati.

La sproporzione si apprezza sotto un duplice versante.

10.– Anzitutto, la legge già prescrive requisiti tassativi e stringenti di meritevolezza.

L’art. 1, comma 2, lettera b), della legge n. 302 del 1990 sancisce il presupposto della totale estraneità della vittima diretta agli ambienti criminali.

L’art. 9-bis della legge n. 302 del 1990, introdotto dall’art. 1, comma 259, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), puntualizza che le condizioni di estraneità alla commissione degli atti terroristici o criminali e agli ambienti delinquenziali «sono richieste, per la concessione dei benefici previsti dalla presente legge, nei confronti di tutti i soggetti destinatari» e, dunque, non soltanto delle vittime dirette.

Al fine di fugare ogni dubbio e di scongiurare il rischio di interpretazioni elusive, il legislatore, con l’art. 2-quinquies, comma 1, lettera b), del d.l. n. 151 del 2008, come convertito, dopo aver introdotto la disposizione censurata nel presente giudizio, ha scelto di subordinare il riconoscimento delle provvidenze ai superstiti alla condizione che «il beneficiario risulti essere del tutto estraneo ad ambienti e rapporti delinquenziali, ovvero risulti, al tempo dell’evento, già dissociato dagli ambienti e dai rapporti delinquenziali cui partecipava».

È dunque immanente al sistema la necessità di una verifica rigorosa della radicale estraneità al contesto criminale. L’estraneità, peraltro, non si esaurisce nella mera condizione di incensurato o, in negativo, nella mancanza di affiliazione alle consorterie criminali, ma postula, in positivo e in senso più pregnante, la prova di una condotta di vita antitetica al codice di comportamento delle organizzazioni malavitose.

Su chi rivendica elargizioni o assegni vitalizi, grava l’onere di dimostrare in modo persuasivo l’estraneità, che assurge a elemento costitutivo del diritto, e la carenza di una prova adeguata ridonda a danno di chi reclama le provvidenze.

L’assetto delineato dalla legge è già presidiato da accorgimenti e da cautele, che convergono nella necessità di una disamina accurata e conducono, ove permangano dubbi, al rigetto delle domande per difetto di prova dei presupposti normativi.

L’esigenza di indirizzare la solidarietà dello Stato verso le persone meritevoli è già assicurata in modo efficace dalla prescrizione di una penetrante verifica giudiziale delle condizioni tipizzate dalla legge e dal rigoroso onere probatorio imposto al beneficiario.

11.– In secondo luogo, si deve rilevare che la presunzione è viziata da un’irragionevolezza intrinseca.

11.1.– La legge conferisce rilievo a rapporti di parentela e di affinità fino al quarto grado, che includono una vasta categoria di persone e si caratterizzano per una diversa, talvolta più tenue, intensità del vincolo familiare.

Anche da un punto di vista oggettivo, la presunzione assoluta censurata contempla requisiti di particolare ampiezza: è sufficiente che il parente o l’affine entro il quarto grado sia sottoposto a un procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione o che a tale misura sia già in concreto assoggettato o che, in alternativa, sia coinvolto in un procedimento penale per uno dei delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale.

Tale catalogo, che si è arricchito nel volgere degli anni, annovera fattispecie incriminatrici contraddistinte da un disvalore eterogeneo e disancorate da un comune riferimento al contesto della criminalità terroristica o mafiosa.

11.2.– La latitudine del meccanismo presuntivo consente, pertanto, di ipotizzare in modo agevole che, al rapporto di parentela o di affinità fino al quarto grado, possa non corrispondere alcuna contiguità al circuito criminale.

Nel tempo presente, anche i vincoli familiari si allentano e non è infrequente che si diradino i rapporti di prossimità che possono dare consistenza, anche in una cerchia più estesa di parenti e affini, alla presunzione assoluta sottoposta al vaglio di questa Corte.

11.3.– A tale profilo di irragionevolezza, che smentisce la rispondenza della presunzione a un solido fondamento empirico, si associa un ulteriore elemento di palese contraddittorietà.

La condizione ostativa, nella sua assolutezza, pregiudica proprio coloro che si siano dissociati dal contesto familiare e, per tale scelta di vita, abbiano sperimentato l’isolamento e perdite dolorose.

Così strutturata, la presunzione assoluta si configura come uno stigma per l’appartenenza a un determinato nucleo familiare, anche quando non se ne condividano valori e stili di vita.

12.– La presunzione assoluta vìola anche il diritto di agire e difendersi in giudizio (art. 24 Cost.), impedendo di dimostrare al soggetto interessato, con tutte le garanzie del giusto processo, di meritare appieno i benefici che lo Stato accorda.

È la dialettica del processo, con il dispiegarsi del contraddittorio, che consente di ricostruire in maniera completa la storia personale e familiare delle parti e di delineare, al di là di rigidi e penalizzanti meccanismi presuntivi, la specificità di ogni vicenda.

In un giudizio che coinvolge le vite dei singoli e gli stessi valori fondamentali della convivenza civile, emerge nitida la necessità di un accertamento esaustivo, che dissipi le ombre e le incertezze e restituisca alla collettività un quadro circostanziato, senza imbrigliare nella rigidità delle presunzioni assolute la ricchezza, multiforme e contraddittoria, del reale.

13.– Sarà il ponderato apprezzamento del giudice a riscontrare, con il metro esigente che la normativa impone, la meritevolezza di chi richiede i benefici, alla stregua delle condizioni fissate, in termini generali, dall’art. 2-quinquies, comma 1, lettera b), del d.l. n. 151 del 2008, come convertito.

Nell’apprezzamento in concreto che il giudice è chiamato a compiere, i vincoli di parentela o di affinità richiedono un vaglio ancor più incisivo sull’assenza di ogni contatto con ambienti delinquenziali, sulla scelta di recidere i legami con la famiglia di appartenenza, su quell’estraneità che presuppone, in termini più netti e radicali, una condotta di vita incompatibile con le logiche e le gerarchie di valori invalse nel mondo criminale.

14.– In conclusione, si deve dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, comma 1, lettera a), del d.l. n. 151 del 2008, come convertito, nel testo modificato dall’art. 2, comma 21, della legge n. 94 del 2009, limitatamente alle parole «parente o affine entro il quadro grado».

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, comma 1, lettera a), del decreto-legge 2 ottobre 2008, n. 151 (Misure urgenti in materia di prevenzione e accertamento di reati, di contrasto alla criminalità organizzata e all’immigrazione clandestina), inserito dalla legge di conversione 28 novembre 2008, n. 186, e successivamente modificato dall’art. 2, comma 21, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole «parente o affine entro il quarto grado».

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2024.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Giovanni PITRUZZELLA, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 4 luglio 2024