Sentenza n. 219 del 2023

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Augusto Antonio BARBERA

Giudici: Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dal Magistrato di sorveglianza di Cosenza, nel procedimento di sorveglianza ad istanza di D. C., con ordinanza del 12 dicembre 2022 iscritta al n. 1 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2023.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio dell’8 novembre 2023 il Giudice relatore Francesco Viganò;

deliberato nella camera di consiglio dell’8 novembre 2023.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 12 dicembre 2022, iscritta al n. 1 del r.o. 2023, il Magistrato di sorveglianza di Cosenza ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), in riferimento agli artt. 3 e 31, secondo comma, della Costituzione.

1.1.– Il rimettente è investito di una istanza di concessione, in via provvisoria, della misura alternativa della detenzione domiciliare speciale di cui all’art. 47-quinquies ordin. penit., presentata da un detenuto condannato alla pena di due anni e sette mesi di reclusione per i delitti di furto aggravato, furto in appartamento, furto con strappo e gestione di rifiuti non autorizzata.

Il giudice a quo osserva anzitutto che l’istanza del condannato, in ragione dell’entità della pena a lui inflitta, deve essere riqualificata come volta a ottenere la concessione della detenzione domiciliare cosiddetta “ordinaria” di cui all’art. 47-ter, comma 1, lettera b), ordin. penit.

Secondo quanto riferito dal giudice a quo, l’istante conviveva, prima della carcerazione, con la compagna e con la figlia di otto anni. La donna avrebbe, ora, ricevuto una proposta di lavoro da parte di un supermercato in orario pomeridiano. Secondo la prospettazione del detenuto istante, non vi sarebbero altri familiari conviventi in grado di prendersi cura della bimba nel pomeriggio, dopo la sua uscita dalla scuola.

Il rimettente espone, altresì, che dall’attività istruttoria svolta è risultato, in particolare, che nel medesimo stabile della madre abita il padre del detenuto, sessantaduenne; che in occasione di un ricovero in ospedale della madre e del nonno per intossicazione da funghi, la zia si era fatta carico della cura della minore; che il detenuto non è decaduto dalla responsabilità genitoriale; e che le informazioni ricevute dalle autorità di pubblica sicurezza sono «del tutto rassicuranti», essendosi esclusi collegamenti con la criminalità organizzata e il pericolo di fuga.

Il rimettente ritiene che, sulla base di questo quadro fattuale, non sia tuttavia possibile accogliere in via provvisoria l’istanza del condannato, dal momento che l’art. 47-ter, comma 1, lettera b), ordin. penit. consente di concedere la detenzione domiciliare al padre, esercente la responsabilità genitoriale, di prole di età inferiore a dieci anni con lui convivente che debba scontare una reclusione non superiore a quattro anni, ancorché costituente pena residua, a condizione però che «la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole». Nel caso in esame, la madre, vivente, della bambina non potrebbe ritenersi «assolutamente impossibilitata» a provvedere alla sua assistenza soltanto perché impegnata, nelle ore pomeridiane, in un’attività lavorativa.

1.2.– Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale della diversa disciplina dettata dal legislatore, rispettivamente alle lettere a) e b) del comma 1 dell’art. 47-ter ordin. penit., per la madre e per il padre di minori sino a dieci anni. La madre, infatti, può essere ammessa alla detenzione domiciliare alla sola condizione che il figlio sia con lei convivente e abbia meno di dieci anni, ove non sussistano ragioni ostative in considerazione della sua pericolosità sociale, mentre il padre deve altresì dimostrare che la madre sia deceduta o sia assolutamente impossibilitata a dargli assistenza.

La più severa disciplina prevista per il padre contrasterebbe anzitutto, secondo il giudice a quo, con l’interesse del minore, fondato sull’art. 31, secondo comma, Cost. e «di valenza tale da atteggiarsi alla stregua di valore/guida “preminente” anche in forza di fonti di rango sovranazionale», tra cui in particolare l’art. 9, paragrafo 3, della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176. Questa Corte avrebbe poi costantemente ribadito, in numerose pronunce, lo speciale rilievo dell’interesse del figlio minore a mantenere un rapporto continuativo con entrambi i genitori, fondato – oltre che sull’art. 31, secondo comma, Cost. – sulle norme della citata Convenzione dei diritti del fanciullo e sull’art. 34, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) (sono citate le sentenze n. 187 del 2019, n. 76 e n. 17 del 2017 e n. 239 del 2014).

Ciò posto, non vi sarebbe dubbio che tale interesse del minore debba essere «declinato in maniera uguale e paritaria avuto riguardo al rapporto del minore con entrambe le figure genitoriali e senza possibilità, pertanto, di diversificare la disciplina posta a tutela di siffatto “preminente” interesse in relazione ai diversi ruoli» spettanti paritariamente a ciascun genitore.

In capo ai minori dovrebbe anzi riconoscersi «un diritto inviolabile alla “bigenitorialità”», «da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi i genitori i quali sono tenuti a cooperare nell’assistenza, educazione ed istruzione dei figli minori di età» (sono citate Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanze 26 gennaio-24 marzo 2022, n. 9691; 26 gennaio-24 febbraio 2022, n. 4790; 26 gennaio-14 febbraio 2022, n. 4796; 22 gennaio-17 maggio 2021, n. 13217; 25 novembre-16 dicembre 2020, n. 28723; 29 gennaio-8 aprile 2019, n. 9764; sentenza 16 febbraio-8 aprile 2016, n. 6919; sezione sesta civile, sentenza 14 luglio-23 settembre 2015, n. 18817; sezione prima civile, sentenze 8 aprile-22 maggio 2014, n. 11412 e 1° febbraio-10 maggio 2011, n. 10265). Tale diritto sarebbe leso dalla disciplina censurata, che sarebbe orientata nel senso di assicurare in via primaria il rapporto del minore con la madre, come del resto riconosciuto anche da questa Corte (è citata la sentenza n. 17 del 2017).

La disciplina in parola contrasterebbe, inoltre, con il «canone di rango costituzionale della “ragionevolezza”», «sotto il profilo della intrinseca incoerenza, contraddittorietà ed illogicità rispetto al vigente ordinamento il quale riconosce un diritto inviolabile alla “bigenitorialità”», laddove, «in assenza di plausibili e giustificate ragioni, pone nel campo delle misure alternative alla detenzione intramuraria una disciplina normativa che privilegia, in via primaria, la conservazione del rapporto genitoriale materno anche a fronte di condotte illecite che abbiano giustificato la limitazione della libertà personale della madre di prole minore degli anni dieci», così come del resto accade – rileva ancora il giudice a quo – con riguardo alla detenzione domiciliare speciale di cui all’art. 47-quinquies, comma 7, ordin. penit.

Il carattere ingiustificato della preferenza del legislatore per la preservazione del rapporto tra madre e figlio rispetto a quello tra padre e figlio sarebbe vieppiù evidenziato dalla considerazione che la responsabilità genitoriale implica non solo diritti e poteri, ma anche doveri e responsabilità di cui entrambi i genitori sarebbero chiamati, paritariamente, a farsi carico.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dell’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e, comunque, manifestamente infondate.

2.1.– Le questioni sarebbero, anzitutto, inammissibili per difetto di rilevanza, dal momento che il rimettente non avrebbe compiutamente valutato se la madre della bambina fosse o meno assolutamente impossibilitata a darle assistenza. Ciò alla stregua del diritto vivente della Corte di cassazione, che avrebbe escluso ogni automatismo in tale valutazione richiamando il giudice a un accertamento «in relazione alle peculiari connotazioni delle singole situazioni» (è citata Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 28 ottobre-2 dicembre 2011, n. 44910) sì da evitare il «concreto rischio per il figlio di un grave deficit assistenziale e, con esso, di un’irreversibile compromissione del suo processo evolutivo-educativo» (è citata Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 10 dicembre 2020-8 febbraio 2021, n. 4796): diritto vivente che, ove opportunamente considerato, «avrebbe potuto fondare il riconoscimento del diritto del detenuto […] ad usufruire dell’istituto invocato».

2.2.– Le questioni sarebbero, inoltre, inammissibili perché «le situazioni che sono state messe a confronto non sono le stesse». Il giudice a quo sospetterebbe infatti della illegittimità costituzionale della disparità di trattamento tra donne e uomini detenuti, mentre nel caso di specie la sua valutazione avrebbe ad oggetto l’impossibilità o meno per una madre non detenuta di accudire la figlia: situazione, questa, che sarebbe del tutto diversa da quella considerata dalla disposizione censurata.

2.3.– Nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione sarebbe, infine, indicata come disposizione censurata la lettera a) del comma 1 dell’art. 47-ter ordin. penit., che invece costituirebbe mero tertium comparationis nel giudizio di ragionevolezza, mentre dalla lettura dell’intero provvedimento si evincerebbe come le questioni abbiano in realtà ad oggetto la sola lettera b) del comma in questione.

2.4.– Nel merito, la questione sarebbe comunque manifestamente infondata. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, il pur elevato rango dell’«interesse del minore a fruire in modo continuativo dell’affetto e delle cure genitoriali» non lo sottrarrebbe «in assoluto ad un possibile bilanciamento con interessi contrapposti, pure di rilievo costituzionale», riconducibili ad «esigenze di difesa sociale, connesse o alla prevenzione della commissione di gravi reati […] o […] alla necessaria esecuzione della pena inflitta al genitore in seguito alla commissione di un reato» (sono citate le sentenze n. 217 del 2017 e n. 239 del 2014).

La previsione di cui alla lettera a) del comma 1 dell’art. 47-ter ordin. penit., che consente alla sola madre di usufruire della detenzione domiciliare per il solo fatto che il figlio sia minore di dieci anni, troverebbe «la sua ratio nell’esigenza di garantire al minore sotto i dieci anni la soddisfazione dell’interesse non alla bigenitorialità – nel qual caso si potrebbe porre una questione di discriminazione – bensì alla coltivazione ed alla conservazione del rapporto con la figura materna, la quale (secondo le convenzioni, le tradizioni e le consuetudini del nostro sistema, che, a loro volta, si riflettono nell’equilibrio psicologico dei minori più piccoli) attualmente è ancora ritenuta insurrogabile dalla presenza del padre»; interesse, quest’ultimo, che sarebbe stato valorizzato anche dalla sentenza n. 239 del 2014 di questa Corte.

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza in epigrafe, il Magistrato di sorveglianza di Cosenza ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), ordin. penit., in riferimento agli artt. 3 e 31, secondo comma, Cost.

In sostanza, il giudice a quo si duole della differente disciplina relativa alla concessione della detenzione domiciliare ordinaria alle madri e ai padri di bambini sino a dieci anni, prevista rispettivamente dalle lettere a) e b) dell’art. 47-ter, comma 1, ordin. penit. Mentre le madri che convivono con il proprio figlio possono essere senz’altro ammesse alla misura alternativa in parola allorché debbano scontare una pena detentiva, anche residua, non superiore a quattro anni (lettera a), i padri possono accedere a tale misura soltanto ove esercitino la responsabilità genitoriale e risulti che la madre sia deceduta, ovvero «assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole» (lettera b).

Tale disciplina violerebbe l’interesse del minore a mantenere un rapporto continuativo con entrambi i genitori, fondato sull’art. 31, secondo comma, Cost., declinabile a parere del rimettente quale vero e proprio «diritto inviolabile alla “bigenitorialità”».

Inoltre, la disciplina censurata risulterebbe intrinsecamente incoerente, contraddittoria e illogica – e dunque irragionevole al metro dell’art. 3 Cost. –, privilegiando ingiustificatamente il rapporto tra madre e figlio rispetto a quello tra padre e figlio.

2.– Come correttamente rileva l’Avvocatura generale dello Stato, le questioni hanno ad oggetto in realtà la sola lettera b) dell’art. 47-ter, comma 1, ordin. penit., relativa alla situazione del padre detenuto.

La logica dell’ordinanza di rimessione è, infatti, tutta orientata a denunciare il carattere irragionevolmente pregiudizievole per gli interessi del minore – e per il suo «diritto inviolabile alla “bigenitorialità”» – di una disciplina legislativa il cui effetto è quello di spezzare il legame tra il padre detenuto e il figlio minore di dieci anni; e ciò a differenza di quanto è previsto dalla lettera a) in relazione al legame tra la madre e il figlio, ove l’ordinamento già prevede una possibilità assai più ampia di accesso alla detenzione domiciliare per la donna condannata.

Il rimettente aspira dunque a una pronuncia che incida sulla sola lettera b), rimuovendo la condizione di accesso alla misura alternativa rappresentata, per il solo padre, dalla dimostrazione del decesso della madre, o della sua assoluta impossibilità di dare assistenza alla prole.

3.– Così delimitate, le questioni sono ammissibili.

3.1.– Non è fondata, infatti, l’eccezione dell’Avvocatura generale dello Stato relativa all’asserito difetto di rilevanza delle questioni (recte: sull’insufficiente motivazione sulla rilevanza delle stesse).

È bensì vero che il diritto vivente richiede un accertamento caso per caso, senza alcun automatismo, del requisito della assoluta impossibilità di dare assistenza alla prole da parte della madre; e che nel caso di attività lavorativa della madre, in particolare, la giurisprudenza di legittimità richiede al giudice di sorveglianza un vaglio puntuale circa la presenza o assenza di altri familiari, conviventi o non conviventi, in grado di prendersi cura del bambino, o ancora di strutture di sostegno e assistenza sociale (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 15 marzo-12 settembre 2016, n. 37859; 19 dicembre 2014-10 settembre 2015, n. 36733; n. 44910 del 2011; 28 gennaio-25 marzo 2009, n. 13021; nello stesso senso, anche la sentenza n. 187 del 2019 di questa Corte, punto 4.4. del Considerato in diritto, in materia di detenzione domiciliare speciale ex art. 47-quinquies, comma 7, ordin. penit.).

Tuttavia, il rimettente – pur non dando analiticamente conto di questa giurisprudenza – evidenzia nella propria ordinanza che nello stesso stabile della bambina vive il nonno materno, di sessantadue anni; e che durante il temporaneo ricovero della madre e dello stesso nonno in ospedale a causa di un’intossicazione da funghi, della bambina si era presa cura la zia. Queste circostanze rendono non implausibile l’asserzione dello stesso rimettente secondo cui sarebbe «del tutto evidente», nel caso concreto, il difetto del requisito della assoluta impossibilità, per la madre, di prendersi cura della minore durante lo svolgimento della propria attività lavorativa nelle ore pomeridiane; ciò che impedirebbe al giudice di concedere all’istante la misura richiesta, in assenza dell’auspicata dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata (sulla sufficienza di una motivazione non implausibile sulla rilevanza della questione da parte del rimettente, ex multis, sentenze n. 192 del 2023, punto 5.4. del Considerato in diritto; n. 188 del 2023, punto 2 del Considerato in diritto; n. 164 del 2023, punto 4 del Considerato in diritto).

3.2.– Né è fondata l’ulteriore eccezione dell’Avvocatura generale dello Stato, secondo cui il rimettente avrebbe posto a confronto due situazioni eterogenee – quella della donna condannata a una pena detentiva, cui si riferisce la lettera a) dell’art. 47-ter, comma 1, ordin. penit., e quella di una donna non condannata a pena detentiva, come la madre della bambina nel caso in esame nel giudizio a quo –.

Il rimettente si duole infatti che – sulla base della lettera b) della disposizione censurata – alla figlia del detenuto istante non possa essere assicurata la presenza del padre, come accadrebbe laddove a essere stata condannata a pena detentiva fosse stata la madre, la quale avrebbe invece potuto beneficiare del diverso regime previsto dalla lettera a). Una tale prospettazione è logica e coerente, ed esige una risposta nel merito da parte di questa Corte.

4.– Le questioni non sono, peraltro, fondate.

4.1.– Occorre, anzitutto, premettere che le questioni sottoposte all’esame di questa Corte sono tutte costruite attorno alla prospettiva degli interessi, che fanno capo al minore, a una relazione continuativa con entrambe le figure genitoriali.

In tale prospettiva si inquadra anzitutto il richiamo da parte del giudice rimettente all’art. 31, secondo comma, Cost. e alle fonti sovranazionali evocate nella parte motiva dell’ordinanza (le quali ben possono essere utilizzate quali criteri interpretativi delle stesse garanzie costituzionali, anche laddove non assurgano ad autonomi parametri interposti ai sensi degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.: sentenze n. 33 del 2021, punto 4 del Considerato in diritto; n. 102 del 2020, punto 3.2. del Considerato in diritto).

Anche il riferimento al «canone di rango costituzionale della “ragionevolezza”» di cui all’art. 3 Cost. è effettuato dal rimettente in chiave critica rispetto a una disciplina che privilegia il rapporto tra madre e figlio rispetto a quello tra padre e figlio; disciplina che irragionevolmente comprimerebbe il diritto del minore ad una relazione con entrambe le figure genitoriali.

Il rimettente non censura, invece, la disciplina vigente in relazione alla diversa considerazione dei diritti-doveri che fanno capo al padre, rispetto a quelli che fanno capo alla madre; né solleva una questione di discriminazione in base al sesso tra le due figure genitoriali, rispetto all’accesso a misure alternative alla detenzione. Per affrontare questa tematica, peraltro, sarebbe stato necessario confrontarsi funditus, quanto meno, con il significato e la portata della protezione offerta alla «maternità» dall’art. 31, secondo comma, Cost., nonché con le fonti internazionali in materia – tra cui l’art. 4, paragrafo 2, della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979, ratificata e resa esecutiva con legge 14 marzo 1985, n. 132, a tenore del quale «[l]’adozione da parte degli Stati di misure speciali, comprese le misure previste dalla presente Convenzione, tendenti a proteggere la maternità, non è considerato un atto discriminatorio» –, oltre che con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di discriminazioni nel trattamento sanzionatorio e nel trattamento penitenziario di donne e uomini (grande camera, sentenza 24 gennaio 2017, Khamtokhu and Aksenchik contro Russia; sezione quarta, sentenza 3 ottobre 2017, Alexandru Enache contro Romania; sezione quinta, sentenza 10 gennaio 2019, Ēcis contro Lettonia).

I limiti del devolutum impongono, dunque, di esaminare le questioni esclusivamente dall’angolo visuale dell’interesse del minore a una relazione continuativa con entrambi i genitori.

4.2.– Questa Corte ha ripetutamente sottolineato che il «diritto del minore di mantenere un rapporto con entrambi i genitori […] – riconosciuto oggi, a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 315-bis, primo e secondo comma, cod. civ., ove si sancisce il diritto del minore a essere “educato, istruito e assistito moralmente” dai genitori, nonché dall’art. 337-ter, primo comma, cod. civ., ove si riconosce il suo diritto di “mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori” e “di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi” – è affermato altresì da una pluralità di strumenti internazionali e dell’Unione europea, al cui rispetto il nostro Paese si è vincolato» (sentenza n. 102 del 2020, punto 4.2. del Considerato in diritto; in senso analogo, sentenze n. 105 del 2023, punto 9 del Considerato in diritto, n. 187 del 2019, punto 4.1. del Considerato in diritto, n. 76 del 2017, punto 2.2. del Considerato in diritto, e ivi ulteriori riferimenti).

Come rammentato dalla menzionata sentenza n. 102 del 2020, fra tali strumenti si annoverano gli artt. 8 e 9 della Convenzione sui diritti del fanciullo, l’art. 24, comma 3, CDFUE e l’art. 8 CEDU sulla base della costante giurisprudenza della Corte di EDU, che afferma il diritto di ciascun genitore e del minore a godere di una mutua relazione (sezione prima, sentenza 20 gennaio 2022, D. M. e N. contro Italia, paragrafo 70; grande camera, sentenza 10 settembre 2019, Strand Lobben e altri contro Norvegia, paragrafo 202; sezione prima, sentenza 28 aprile 2016, Cincimino contro Italia, paragrafo 62).

Sul piano costituzionale, il diritto in questione costituisce una specifica declinazione del più generale principio dell’interesse “preminente” del minore (da ultimo, sentenze n. 183 del 2023, punto 13.3. del Considerato in diritto, e n. 105 del 2023, punto 9 del Considerato in diritto): espressione con cui la giurisprudenza di questa Corte è solita tradurre il «principio secondo cui in tutte le decisioni relative ai minori di competenza delle pubbliche autorità, compresi i tribunali, deve essere riconosciuto rilievo primario alla salvaguardia dei “migliori interessi” (best interests) o dell’“interesse superiore” (intérêt supérieur) del minore» (sentenza n. 102 del 2020, punto 4.1. del Considerato in diritto, con puntuali indicazioni sui plurimi fondamenti normativi del principio nell’ambito del diritto sovranazionale). Tale principio si considera radicato tanto nell’art. 30, quanto nell’art. 31 Cost., quest’ultimo puntualmente evocato dal rimettente (ancora, sentenza n. 102 del 2020, punto 4.1. del Considerato in diritto, e ivi ulteriori riferimenti).

4.3.– È però altrettanto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che il principio in parola impone sì una considerazione particolarmente attenta degli interessi del minore in ogni decisione – giudiziaria, amministrativa e legislativa – che lo riguarda, ma non ne assicura l’automatica prevalenza su ogni altro interesse, individuale o collettivo.

In particolare, a proposito della relazione tra genitori condannati a pena detentiva e figli minori si è costantemente ribadito che «l’interesse del minore “non forma oggetto di una protezione assoluta, insuscettibile di bilanciamento con contrapposte esigenze, pure di rilievo costituzionale, quali quelle di difesa sociale, sottese alla necessaria esecuzione della pena” (sentenza n. 174 del 2018; nello stesso senso, più di recente, sentenza n. 30 del 2022)» (sentenza 105 del 2023, punto 9 del Considerato in diritto; analogamente, sentenze n. 187 del 2019, punto 4.4. del Considerato in diritto, e n. 76 del 2017, punto 2.2. del Considerato in diritto).

In effetti, a meno di sostenere che l’esecuzione di una pena detentiva sia sempre costituzionalmente illegittima allorché la persona interessata abbia un figlio minorenne, è giocoforza ammettere che la compressione dell’interesse di quest’ultimo al rapporto con il genitore detenuto o internato costituisca, a certe condizioni, una conseguenza inevitabile, e costituzionalmente non censurabile, dell’esecuzione della pena. Quest’ultima è a sua volta giustificata dalla necessità, tra l’altro, di assicurare un percorso rieducativo al condannato (art. 27, terzo comma, Cost.), di contenere la sua pericolosità sociale, di riaffermare la vigenza della norma violata e la sua efficacia deterrente nei confronti dell’intera collettività; necessità, queste ultime, funzionali ad una effettiva tutela dei beni giuridici protetti dalla norma penale, spesso essi stessi di immediato rilievo costituzionale.

4.4.– Peraltro, la speciale importanza, dal punto di vista costituzionale, degli interessi del minore esige che i pur rilevanti interessi sottesi all’esecuzione della pena debbano, di regola, cedere di fronte all’esigenza di assicurare che i minori in tenera età possano godere di una relazione diretta almeno con uno dei due genitori.

Di questa esigenza si è fatta carico, in particolare, l’ormai risalente sentenza n. 215 del 1990, che aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 47-ter, comma 1, numero 1), ordin. penit., nella versione allora vigente, nella parte in cui non prevedeva che la detenzione domiciliare, alla quale era all’epoca ammessa la madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente, potesse essere concessa, nelle stesse condizioni, anche al padre detenuto, qualora la madre fosse deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole.

Questa stessa basilare esigenza è, attualmente, soddisfatta dalla disciplina della detenzione domiciliare ordinaria e speciale – quest’ultima prevista dall’art. 47-quinquies ordin. penit. –, che, in stretta aderenza al principio affermato dalla sentenza da ultimo menzionata, assicura al padre che sia stato condannato a pena detentiva ed eserciti la responsabilità genitoriale la medesima possibilità di accesso alla misura alternativa in parola attualmente riservata alla madre, quando quest’ultima sia deceduta o sia altrimenti impossibilitata a dare assistenza alla prole (art. 47-ter, comma 1, lettera b, e art. 47-quinquies, comma 7, ordin. penit.).

Il tutto alla condizione che il condannato o la condannata che si trovino nelle condizioni previste dalla legge per fruire della misura non presentino una spiccata pericolosità criminale, come si evince dall’art. 47-quinquies, comma 1, ordin. penit. per quanto concerne la detenzione domiciliare speciale, e come risulta dalla costante giurisprudenza di legittimità per quanto concerne quella ordinaria (si veda, da ultimo, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 8 settembre-27 dicembre 2022, n. 49276). Il che potrebbe anche comportare, come sottolineato nella sentenza n. 187 del 2019 (punto 4.4. del Considerato in diritto), la «necessità – in tale ipotesi – di salvaguardare gli interessi del bambino in maniera diversa dall’affidamento al genitore».

E ciò restando comunque ferma, in tutte le ipotesi in cui gli interessi all’esecuzione della pena detentiva nei confronti del padre o della madre condannata risultino prevalenti rispetto all’interesse del bambino, la necessità di assicurare altre modalità di relazione con quest’ultimo – come i colloqui, la corrispondenza telefonica, il diritto di visita di cui all’art. 21-ter, comma 1, ordin. penit., i permessi premio di cui all’art. 30-ter ordin. penit. –, sì da attenuare e ricondurre a proporzioni sostenibili la limitazione dell’interesse del minore a intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i suoi genitori (da ultimo, sul punto, sentenza n. 105 del 2023, punto 9 del Considerato in diritto).

4.5.– Ora, la scelta di fondo del legislatore che emerge dal quadro così tracciato – non solo nell’ordinamento penitenziario, ma anche nel codice di procedura penale (e in particolare dagli artt. 275 e 285-bis) – è stata quella «di assicurare in via primaria il rapporto del minore con la madre» (sentenza n. 17 del 2017, punto 5 del Considerato in diritto).

Una simile impostazione ha le proprie radici, verosimilmente, nella stessa genesi degli istituti in cui questa scelta di fondo si manifesta: inizialmente pensati per assicurare la specialissima relazione della madre con il figlio durante l’allattamento o comunque nei primissimi mesi di vita – relazione da epoca risalente considerata dal legislatore come particolarmente meritevole di tutela –, gli istituti in parola sono stati gradatamente estesi sino a che il bambino raggiungesse un’età via via più avanzata, sì da evitare che il rapporto tra la madre e il figlio si interrompesse bruscamente in una fase della vita in cui quest’ultimo non sia ancora in grado di comprendere ed elaborare le ragioni del distacco.

L’evoluzione normativa dell’istituto è stata ricostruita da questa Corte nella sentenza n. 239 del 2014. Le originarie disposizioni di cui agli artt. 146 e 147, numero 3), del codice penale disciplinavano, rispettivamente, il rinvio obbligatorio (per la donna incinta o con prole di età non superiore a sei mesi) e il rinvio facoltativo (per la madre di prole di età non superiore ad un anno) dell’esecuzione della pena. La legge 10 ottobre 1986, n. 663, recante «Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà» (la cosiddetta “legge Gozzini”), introdusse poi nel sistema penitenziario la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter, comma 1, numero 1, ordin. penit. in favore della condannata «incinta o che allatta la propria prole ovvero madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente». Le successive modifiche dello stesso art. 47-ter e della parallela previsione di cui all’art. 47-quinquies innalzarono gradatamente il limite di età del figlio dapprima a cinque anni ad opera dell’art. 3, comma 1, del decreto-legge 14 giugno 1993, n. 187 (Nuove misure in materia di trattamento penitenziario, nonché sull’espulsione dei cittadini stranieri) convertito, con modificazioni, nella legge 12 agosto 1993, n. 296; e infine agli attuali dieci anni, ad opera dell’art. 4, comma 1, della legge 27 maggio 1998, n. 165, recante «Modifiche all’articolo 656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni» (sull’analogo progressivo ampliamento del divieto di disporre la custodia cautelare in carcere, salva la sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, per la madre di bambini in tenera età, sentenza n. 17 del 2017, punto 3.1. del Considerato in diritto).

Nel prevedere, e gradatamente ampliare, la possibilità di accesso della madre di figli in tenera età a forme di esecuzione extramuraria, il legislatore si è mosso in consonanza con gli strumenti internazionali relativi al trattamento penitenziario delle condannate madri, e in particolare con le «United Nations Rules for the Treatment of Women Prisoners and Non-custodial Measures for Women Offenders» adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 21 dicembre 2010. In tale documento si segnalano, per il loro particolare rilievo in questo contesto, la rule 2 («[…] le donne che hanno la custodia dei figli devono essere autorizzate ad assumere decisioni nei loro riguardi, compresa la possibilità di ottenere una ragionevole sospensione della detenzione, tenendo conto dell’interesse superiore del bambino»), la rule 58 («[…] le donne autrici di reato non devono essere separate dalla famiglia né dalla loro comunità senza che la loro situazione e i loro legami familiari siano stati doverosamente presi in considerazione. Con riferimento alle donne autrici di reato deve farsi ricorso, ogni qualvolta sia appropriato e possibile, a una disciplina alternativa, attraverso definizioni alternative del procedimento o misure alternative alla custodia cautelare o alla pena. Se del caso, e ogni volta che sia possibile, alle donne autrici di reato devono essere applicate misure come definizioni alternative del procedimento, misure alternative alla custodia cautelare e pene alternative») e la rule 64 («Le pene non privative della libertà devono essere privilegiate, quando ciò sia possibile e indicato, per le donne incinte e per le donne con bambini […]»).

D’altra parte, nel decidere di introdurre forme di esecuzione extramuraria in favore delle donne madri di figli in tenera età che non presentino una spiccata pericolosità sociale, indipendentemente dalla prova dell’indisponibilità del padre a prendersi cura del bambino, è verosimile che il legislatore abbia altresì tenuto conto dell’impatto complessivamente contenuto di simili misure sui poc’anzi menzionati interessi sottesi all’esecuzione delle pene detentive, in ragione se non altro della ridotta proporzione di donne nell’ambito della complessiva popolazione carceraria femminile (pari, secondo le statistiche del Ministero della giustizia alla data del 30 novembre 2023, a 2.549 unità rispetto a un totale di 60.166 detenuti, e dunque a circa il 4 per cento della popolazione carceraria).

4.6.– L’estensione delle medesime regole vigenti oggi per le detenute madri anche ai detenuti padri potrebbe certamente essere valutata dal legislatore, nel quadro di un complessivo bilanciamento tra tutti gli interessi individuali e collettivi coinvolti; ma non può, a giudizio di questa Corte, essere allo stato ritenuta costituzionalmente necessaria dal punto di vista, che in questo giudizio unicamente rileva, della tutela degli interessi del bambino, la quale richiede soltanto che – di regola – sia assicurato al bambino stesso un rapporto continuativo con almeno uno dei due genitori. Ciò che la disciplina censurata indubitabilmente assicura.

Ne consegue la non fondatezza della censura formulata in riferimento all’art. 31 Cost., così come di quella – ancillare, nella logica del rimettente – spiegata in riferimento al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1, lettera b), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 31, secondo comma, della Costituzione, dal Magistrato di sorveglianza di Cosenza con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 novembre 2023.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria l’11 dicembre 2023