SENTENZA N. 176
ANNO 2022
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giuliano AMATO;
Giudici: Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 58, commi 5-bis, 5-ter e 5-quater, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 98, degli artt. 24 e 5, comma 3, della legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro) e dell’art. 18, primo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), promosso dal Tribunale ordinario di Lecce, in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento instaurato da V.S. E. contro Dussmann Service srl, con ordinanza del 16 febbraio 2021, iscritta al n. 53 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell’anno 2021.
Visti gli atti di costituzione di Dussmann Service srl e di V.S. E., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 24 maggio 2022 il Giudice relatore Silvana Sciarra;
uditi gli avvocati Elisabetta Lamarque e Fulvio Antonio Carmine Moizo per Dussmann Service srl, Cosimo Finiguerra e Salvatore P. Serafino per V.S. E. e l’avvocato dello Stato Federico Basilica per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 24 maggio 2022.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 16 febbraio 2021, iscritta al n. 53 del registro ordinanze 2021, il Tribunale ordinario di Lecce, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale del «combinato disposto» dell’art. 58, commi 5-bis, 5-ter e 5-quater, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 98, degli artt. 24 e 5, comma 3, della legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro) e dell’art. 18, primo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento).
Le disposizioni in esame sono censurate, anzitutto, nella parte in cui non prevedono che i «lavoratori assunti dal Ministero dell’istruzione», in seguito alla selezione di cui all’art. 58, comma 5-ter, del d.l. n. 69 del 2013, come convertito, siano «esclusi dall’applicazione della disciplina sui licenziamenti collettivi».
Le censure, in secondo luogo, si appuntano sulla mancata previsione della risoluzione di diritto del contratto di lavoro stipulato con la società che svolgeva i servizi di cui all’art. 58, comma 5-bis, del d.l. n. 69 del 2013, come convertito, al momento dell’assunzione del lavoratore da parte del Ministero dell’istruzione.
1.1.– In punto di rilevanza, il rimettente espone di dovere decidere sul ricorso proposto da un dipendente, assunto il 1° marzo 2015 dalla società resistente in qualità di addetto alle pulizie e poi assunto alle dipendenze del Ministero dell’istruzione in seguito alla selezione prevista dalla legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021).
Il rapporto di lavoro con l’imprenditore sarebbe cessato a far data dal 25 marzo 2020 in virtù di dimissioni volontarie, che il lavoratore nega invece di avere mai rassegnato. Secondo il ricorrente, l’estromissione dal posto di lavoro sarebbe qualificabile come licenziamento (individuale o, in alternativa, collettivo), impugnato in quanto illegittimo sotto molteplici profili.
Nel motivare sulla rilevanza delle questioni, il rimettente riconosce, in via preliminare, la propria competenza e osserva che non si configurerebbero dimissioni volontarie o una risoluzione consensuale o tacita del rapporto di lavoro o un licenziamento individuale, disciplinare o per giustificato motivo oggettivo.
Inoltre, il passaggio del lavoratore dalle dipendenze da un soggetto privato a un ente pubblico non sarebbe regolato né dall’art. 2112 del codice civile, fattispecie neppure dedotta dalle parti, né dall’art. 31 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche).
La vicenda controversa sarebbe riconducibile a un licenziamento collettivo. Il datore di lavoro – specifica il rimettente – avrebbe manifestato l’intenzione di licenziare più di cinque dipendenti in centoventi giorni in concomitanza con il «medesimo fatto storico» dell’internalizzazione del servizio di pulizia.
Né il passaggio del lavoratore alle dipendenze di un altro datore di lavoro si potrebbe interpretare come rinuncia a impugnare il recesso intimato dall’originario datore di lavoro.
Il rimettente afferma di dover dunque applicare la normativa «che sanziona il licenziamento collettivo non effettuato per iscritto», in mancanza di una previsione specifica che regoli le «sorti dei rapporti di lavoro con la società appaltante una volta verificatasi l’assunzione alle dipendenze del Ministero».
L’applicazione delle disposizioni censurate, che non si presterebbero a una interpretazione adeguatrice, condurrebbe all’accoglimento del ricorso.
1.2.– In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente reputa «irragionevole» e dunque lesiva dell’art. 3 Cost. l’applicazione della normativa sui licenziamenti collettivi, volta a «tutelare la partecipazione e l’informazione dei lavoratori», a beneficio dei dipendenti che hanno partecipato volontariamente a una selezione e sono stati quindi assunti alle dipendenze del Ministero dell’istruzione, con l’instaurazione di un rapporto di lavoro assistito da garanzie più incisive di stabilità.
Sarebbe violato anche l’art. 41 Cost., evocato in connessione con l’art. 3 Cost. La necessità di «attivare una procedura di licenziamento collettivo anche per coloro che sono stati internalizzati dall’Amministrazione» sarebbe frutto di «un non bilanciato sacrificio rispetto alla tutela dell’attività di impresa» e imporrebbe al datore di lavoro «oneri irragionevoli», pur in mancanza di un esubero effettivo.
Il rimettente ritiene che la tutela riconosciuta dal legislatore sia «irragionevolmente onerosa alla luce di un corretto bilanciamento tra il diritto effettivo al mantenimento del lavoro e la tutela dell’iniziativa di impresa economica». La Costituzione imporrebbe una «tutela effettiva del lavoratore» soltanto nella diversa ipotesi di un rapporto di lavoro «ingiustamente risolto» oppure «in pericolo». Sarebbe, per contro, «irragionevole e sproporzionato rispetto ai fini della normativa» un sistema che equipara a un licenziamento l’assunzione presso il Ministero dell’istruzione, in conseguenza dell’internalizzazione dei servizi.
Poste tali premesse, il giudice a quo ravvisa una «omissione normativa» e invoca «una pronuncia additiva» di questa Corte, che escluda l’applicazione della disciplina dei licenziamenti collettivi ai lavoratori transitati al Ministero dell’istruzione e preveda la risoluzione di diritto del contratto di lavoro alle dipendenze dell’impresa appaltatrice.
L’esclusione dell’operatività della disciplina sui licenziamenti collettivi sarebbe imposta dal principio di eguaglianza, che può anche condurre a «rimuovere l’ingiustificato privilegio di una disciplina più favorevole rispetto a quella indicata a comparazione».
Quanto all’introduzione di un’ipotesi di risoluzione di diritto, essa rappresenterebbe «una soluzione a rime obbligate».
Solo la soluzione indicata consentirebbe di bilanciare «il diritto di iniziativa economica datoriale» con il diritto al lavoro, che reclama peculiare tutela soprattutto per «coloro che effettivamente corrono un rischio di perdita del posto di lavoro».
2.– Si è costituita in giudizio Dussmann Service srl, che ha chiesto di accogliere le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Lecce e di dichiarare, in via consequenziale, l’illegittimità costituzionale dell’art. 58, comma 5-sexies, del d.l. n. 69 del 2013, come convertito, introdotto dal decreto-legge 29 ottobre 2019, n. 126 (Misure di straordinaria necessità ed urgenza in materia di reclutamento del personale scolastico e degli enti di ricerca e di abilitazione dei docenti), convertito, con modificazioni, nella legge 20 dicembre 2019, n. 159.
2.1.– In punto di fatto, la società ha argomentato che il rapporto di lavoro del ricorrente nel giudizio principale è cessato «per dimissioni per comportamento concludente».
2.2.– La società censura il «vuoto normativo» in ordine alla «sorte dei contratti di lavoro di coloro che volontariamente hanno deciso di partecipare alla selezione pubblica».
La mancata previsione della risoluzione automatica del rapporto di lavoro di coloro che siano passati alle dipendenze dello Stato determinerebbe un ingiustificato sacrificio della libertà di iniziativa economica di un’impresa che già sarebbe stata privata di «appalti importanti». L’applicazione della normativa sui licenziamenti sarebbe «palesemente incongrua» e non risponderebbe «ad alcuna ragione di utilità sociale».
2.3.– Ad avviso della parte, ricorrerebbero i presupposti per dichiarare l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 58, comma 5-sexies, del d.l. n. 69 del 2013, come convertito, che consente nuove assunzioni, a decorrere dal 1° marzo 2021, a favore di lavoratori con una minore anzianità di servizio (almeno quinquennale).
3.– Si è costituito in giudizio anche V.S. E., ricorrente nel giudizio principale, e ha chiesto di dichiarare inammissibili o comunque non fondate le questioni sollevate dal Tribunale di Lecce.
3.1.– La parte espone di avere sottoscritto con l’amministrazione pubblica, dopo il licenziamento intimato verbalmente dall’impresa, un contratto di lavoro a tempo determinato in regime di part time al 50 per cento, con la facoltà di svolgere altre prestazioni lavorative compatibili con le attività dell’istituto.
3.2.– La parte ha eccepito, in linea preliminare, l’inammissibilità delle questioni.
3.2.1.– In primo luogo, sarebbe precluso un intervento additivo di questa Corte che implichi l’adozione di scelte discrezionali, riservate al legislatore.
3.2.2.– Le questioni sarebbero inammissibili, inoltre, per difetto di rilevanza. Difatti, sull’impugnativa del licenziamento, in quanto intimato in forma soltanto verbale, non avrebbe alcuna incidenza la disciplina censurata.
3.3.– Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Lecce non sarebbero comunque fondate.
Sarebbe irrazionale la previsione indiscriminata di una risoluzione di diritto di tutti i rapporti di lavoro, anche nei casi in cui il Ministero dell’istruzione abbia concluso con gli addetti al servizio delle pulizie un contratto di lavoro a condizioni deteriori.
4.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto di dichiarare non fondate le questioni sollevate dal Tribunale di Lecce.
Il rimettente prenderebbe le mosse dall’erroneo presupposto interpretativo che permanga il rapporto di lavoro con l’originario datore, anche dopo l’assunzione alle dipendenze dell’amministrazione pubblica.
La scelta del lavoratore di accettare un incarico alle dipendenze del Ministero dell’istruzione denoterebbe l’univoca intenzione «di risolvere il precedente rapporto». Con la stipulazione del nuovo contratto con l’amministrazione dello Stato, verrebbe meno «il precedente rapporto», in quanto incompatibile con il nuovo lavoro, caratterizzato da «un vincolo di esclusività» derogabile solo entro limiti circoscritti. Non sarebbe pertanto necessario avviare alcuna procedura di licenziamento.
5.– In vista dell’udienza, hanno depositato memorie illustrative Dussmann Service srl e V.S. E., per ribadire le conclusioni già rassegnate.
5.1.– Dussmann Service srl osserva che sarebbe preferibile una «sentenza di accoglimento manipolativo», in quanto dotata di effetti erga omnes. L’interpretazione dell’Avvocatura generale dello Stato, che configura una cessazione automatica del precedente rapporto di lavoro, potrebbe non essere condivisa dai giudici chiamati a occuparsi di un contenzioso oramai cospicuo.
La parte replica che il lavoratore ha già ricevuto sufficiente tutela, a seguito dell’instaurazione di un rapporto di lavoro con il Ministero.
5.2.– V.S. E. ha eccepito anche il difetto di incidentalità della questione. Il petitum del giudizio principale sarebbe integralmente sovrapponibile all’oggetto della questione di legittimità costituzionale.
Le ipotesi di esclusione dalla procedura sui licenziamenti collettivi dovrebbero essere determinate dal legislatore, in considerazione della peculiarità delle diverse situazioni. Proprio nella procedura di licenziamento collettivo, peraltro avviata dall’imprenditore, avrebbe dovuto essere regolata la sorte dei rapporti di lavoro.
6.– All’udienza le parti hanno ribadito le conclusioni rassegnate negli scritti difensivi.
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza di cui al reg. ord. n. 53 del 2021, il Tribunale ordinario di Lecce, in funzione di giudice del lavoro, dubita, in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione, della legittimità costituzionale del «combinato disposto» dell’art. 58, commi 5-bis, 5-ter e 5-quater, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 98, degli artt. 24 e 5, comma 3, della legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro) e dell’art. 18, primo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento).
Le disposizioni in esame sono censurate, anzitutto, nella parte in cui non escludono «dall’applicazione della disciplina sui licenziamenti collettivi» i «lavoratori assunti dal Ministero dell’istruzione», in seguito alla selezione di cui all’art. 58, comma 5-ter, del d.l. n. 69 del 2013, come convertito.
È poi censurata la mancata previsione della risoluzione di diritto del contratto di lavoro stipulato con la società che svolgeva i servizi di cui all’art. 58, comma 5-bis, del d.l. n. 69 del 2013, come convertito, risoluzione che si dovrebbe produrre al momento dell’assunzione del lavoratore da parte del predetto Ministero.
La disciplina censurata sarebbe lesiva, in primo luogo, dell’art. 3 Cost. Il rimettente reputa irragionevole e sproporzionata, oltre che foriera di un «ingiustificato privilegio», la scelta di applicare la disciplina dei licenziamenti collettivi. Di tale normativa, volta a «tutelare la partecipazione e l’informazione dei lavoratori», si troverebbero a beneficiare lavoratori già dipendenti di imprese private che «hanno partecipato volontariamente alla selezione» e sono stati assunti da un datore di lavoro pubblico, con la garanzia di una «stabilità maggiore» del rapporto di lavoro.
Il giudice a quo denuncia, inoltre, la lesione dell’art. 41 Cost., in connessione con l’art. 3 Cost. L’applicazione della disciplina dei licenziamenti collettivi sarebbe «irragionevolmente onerosa» per il datore di lavoro, gravato da «un onere gestionale eccessivo rispetto ad esuberi fittizi», e non rappresenterebbe «un corretto bilanciamento tra il diritto effettivo al mantenimento del lavoro» di chi corra il concreto rischio di perderlo e «il diritto di iniziativa economica datoriale».
2.– Le questioni sottoposte al vaglio di questa Corte si inquadrano nel travagliato processo che ha condotto l’amministrazione pubblica a riappropriarsi della gestione dei servizi di pulizia e dei servizi ausiliari nelle scuole, per porre rimedio alle numerose criticità emerse nel periodo di apertura al mercato.
Allo scopo di assicurare in tempi celeri l’efficiente svolgimento del servizio e di salvaguardare i lavoratori dipendenti dalle imprese che si sono aggiudicate gli appalti, il legislatore ne ha previsto l’assunzione mediante una procedura selettiva, aperta a chi possiede determinati requisiti culturali e vanta un’esperienza professionale specifica.
3.– Le questioni, nei termini in cui sono state proposte, sono inammissibili.
4.– La parte ricorrente nel giudizio principale ha eccepito, in linea preliminare, l’inammissibilità delle questioni in considerazione dell’elevato coefficiente manipolativo dell’addizione richiesta, che sconfinerebbe nell’ambito delle scelte riservate alla discrezionalità del legislatore.
L’eccezione, ribadita anche nella memoria illustrativa, è fondata.
5.– L’ordinanza di rimessione censura il «vuoto normativo», che imporrebbe di applicare la normativa in tema di licenziamenti collettivi.
Il dubbio di legittimità costituzionale trarrebbe origine da un’omissione del legislatore che, nel promuovere il passaggio dei lavoratori delle imprese appaltatrici nei ruoli dell’amministrazione pubblica, ha trascurato di disciplinare la sorte dei contratti di lavoro già stipulati.
Il giudice a quo reputa necessaria «una pronuncia additiva» di questa Corte, che dichiari costituzionalmente illegittimo «il combinato disposto delle norme indicate in dispositivo nella parte in cui non prevede che – per coloro che abbiano partecipato alla selezione indetta ex l. 145/18, art. 1 c. 760 e siano stati assunti dal Ministero dell’Istruzione (già MIUR) – resta esclusa l’applicabilità della disciplina sui licenziamenti collettivi e, parimenti, si realizza la risoluzione di diritto del contratto di lavoro alle dipendenze dell’impresa appaltatrice già datrice di lavoro al momento della stipula del contratto con il Ministero stesso».
Nella prospettiva del rimettente, i due profili sono inscindibilmente connessi.
Quanto alla risoluzione di diritto dell’originario contratto di lavoro, essa si configurerebbe come «una soluzione a rime obbligate, non essendo possibile dare alcuna lettura costituzionalmente orientata e ragionevole del sistema».
Al novero delle soluzioni costituzionalmente obbligate sarebbe riconducibile anche la deroga alla normativa in tema di licenziamenti collettivi. L’applicazione di tale disciplina a una fattispecie che è solo «la logica conseguenza della procedura di internalizzazione» sarebbe incongrua e rappresenterebbe «una ridondanza normativa». Ad avviso del rimettente, questa Corte, investita delle censure di violazione dell’art. 3 Cost., ben potrebbe rimuovere l’ingiustificato privilegio di una disciplina più favorevole. Nessun ostacolo preliminare si frapporrebbe, pertanto, all’accoglimento delle questioni sollevate.
6.– I rilievi svolti dal rimettente a sostegno dell’ammissibilità delle questioni non possono essere condivisi. Né questa Corte intende verificare la correttezza del presupposto interpretativo che il rimettente adotta, nel ritenere ineludibile l’applicazione della disciplina dei licenziamenti collettivi, profilo che attiene al merito.
Il carattere spiccatamente manipolativo dell’addizione richiesta traspare dalle stesse considerazioni del giudice a quo, che lamenta il «vuoto normativo» e auspica che questa Corte colmi tale lacuna e così supplisca all’omissione del legislatore.
L’intervento additivo, nella sua latitudine, si ripercuoterebbe su aspetti qualificanti della disciplina e si risolverebbe in un’innovazione di considerevole portata sistematica, come conferma la pluralità delle previsioni sottoposte allo scrutinio di questa Corte, relative alla disciplina speciale del d.l. n. 69 del 2013, come convertito, e, in pari tempo, a quella generale dettata dalla legge n. 223 del 1991 e dallo statuto dei lavoratori, in ordine ai rimedi applicabili.
L’intervento in esame si esplicherebbe dunque in una duplice direzione, che attiene, per un verso, alla deroga alla normativa in tema di licenziamenti collettivi e, per altro verso, alla risoluzione ipso iure dell’originario contratto di lavoro.
7.– A diverse conclusioni non può condurre la lettura riduttiva propugnata dalla difesa della società Dussmann Service srl, che reputa sufficiente l’introduzione di una fattispecie di risoluzione di diritto del contratto.
Il petitum, neppure così circoscritto, è immune dai profili problematici segnalati a sostegno dell’eccezione di inammissibilità.
La risoluzione di diritto dell’originario contratto di lavoro, in primo luogo, non è coerente né con la risoluzione consensuale o tacita che la società stessa ipotizza, sul presupposto di una volontà negoziale concludente, né con l’estromissione unilaterale allegata dal lavoratore.
L’indicata risoluzione di diritto, quindi, non appare una soluzione vincolata, nei termini adombrati dal rimettente senza il supporto di argomentazioni puntuali, e neanche una soluzione costituzionalmente adeguata, incardinata su un punto di riferimento plausibile, già presente nel sistema.
Questa Corte dovrebbe delineare – in maniera meno approssimativa di quanto faccia il rimettente – i presupposti della risoluzione di diritto, alla luce dell’ampia gamma di variabili che si possono profilare nella realtà e che non sempre contemplano una radicale incompatibilità tra il nuovo lavoro alle dipendenze dell’amministrazione pubblica, eventualmente prestato a condizioni più sfavorevoli, e la prosecuzione dell’attività presso l’originaria impresa appaltatrice.
8.– L’addizione che il rimettente sollecita, anche se delimitata entro confini rigorosi, comunque si ripercuoterebbe sull’ambito applicativo della disciplina dei licenziamenti collettivi e concorrerebbe a limitarne la portata tendenzialmente generale, mediante una deroga calibrata sulle – peraltro peculiari – specificità del caso concreto.
Questa Corte ha già evidenziato che, in tale materia, solo parzialmente armonizzata, è ampio l’apprezzamento discrezionale del legislatore (sentenza n. 254 del 2020), chiamato a conformarsi alle prescrizioni del diritto dell’Unione europea (direttiva 98/59 CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi).
9.– La deroga auspicata dal rimettente incide su una sfera riservata alla discrezionalità legislativa e contraddistinta dall’assenza nell’ordinamento di soluzioni univoche, atte a orientare l’intervento correttivo di questa Corte. Essa, infatti, neppure collima con altre soluzioni che il legislatore ha individuato, allo scopo di escludere l’applicazione della disciplina dei licenziamenti collettivi in ipotesi tassative e secondo un prudente contemperamento tra i contrapposti interessi.
Nel contesto delle imprese che svolgono attività di servizi in appalto, la procedura dei licenziamenti collettivi, di cui all’art. 24 della legge n. 223 del 1991, non si applica –fino alla completa attuazione della normativa di tutela – soltanto quando al lavoratore, assunto dal nuovo appaltatore che subentra, sia garantita parità di condizioni economiche e normative (art. 7, comma 4-bis, del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, recante «Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria», convertito, con modificazioni, nella legge 28 febbraio 2008, n. 31).
Nelle questioni devolute all’esame di questa Corte, invece, il rimettente prefigura una deroga indiscriminata alla normativa sui licenziamenti collettivi, senza alcun carattere di provvisorietà e senza alcun riferimento a quella parità delle condizioni applicate dal nuovo datore di lavoro che la disciplina del d.l. n. 248 del 2007, come convertito, menzionata dallo stesso rimettente, considera imprescindibile.
10.– Il descritto profilo di inammissibilità è dirimente e dispensa questa Corte dalla disamina delle ulteriori eccezioni preliminari formulate dalla parte o rilevabili d’ufficio.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 58, commi 5-bis, 5-ter e 5-quater, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 98, degli artt. 24 e 5, comma 3, della legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro) e dell’art. 18, primo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Lecce, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 maggio 2022.
F.to:
Giuliano AMATO, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 14 luglio 2022.