ORDINANZA N. 170
ANNO 2022
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giuliano AMATO;
Giudici : Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 2-sexies, primo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), come introdotto dall’art. 9, comma 1, lettera f), numero 2), del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 156, recante «Misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario, in attuazione degli articoli 6, comma 6, e 10, comma 1, lettere a) e b), della legge 11 marzo 2014, n. 23», promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Taranto nel procedimento vertente tra Antonia Alessandra Alfonso e il Comune di San Giorgio Jonico, con ordinanza del 9 settembre 2021, iscritta al n. 186 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2021.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’8 giugno 2022 il Giudice relatore Luca Antonini;
deliberato nella camera di consiglio del 9 giugno 2022.
Ritenuto che, con ordinanza del 9 settembre 2021 (reg. ord. n. 186 del 2021), la Commissione tributaria provinciale di Taranto ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 24 e 33, quinto comma, della Costituzione – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 2-sexies, primo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), come introdotto dall’art. 9, comma 1, lettera f), numero 2), del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 156, recante «Misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario, in attuazione degli articoli 6, comma 6, e 10, comma 1, lettere a) e b), della legge 11 marzo 2014, n. 23»;
che la norma censurata dispone, in ordine alle spese del processo tributario, che: «[n]ella liquidazione delle spese a favore dell’ente impositore, dell’agente della riscossione e dei soggetti iscritti nell’albo di cui all’articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, se assistiti da propri funzionari, si applicano le disposizioni per la liquidazione del compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del venti per cento dell’importo complessivo ivi previsto»;
che il rimettente premette di essere chiamato a decidere sul ricorso proposto da una contribuente, che riveste la qualità di avvocato e che si è difesa in proprio, avverso un avviso di accertamento nei confronti di un Comune che si è costituito difendendosi tramite un «funzionario interno»;
che, a suo dire, le questioni sollevate «appa[iono] rilevant[i]», ai fini della decisione, «nell’ipotesi alternativa in cui soccombente sia la ricorrente»;
che il giudice a quo ritiene che la norma denunciata violi, in primo luogo, l’art. 3 Cost., sotto tre profili: a) in quanto determinerebbe un irragionevole arricchimento degli «enti di appartenenza» dei funzionari che hanno svolto l’attività difensiva, consentendo loro di percepire «compensi […] senza reale aggravio di spesa», poiché detta attività rientrerebbe «nell’adempimento dei […] doveri d’ufficio o contrattuali» dei funzionari stessi; b) perché riserverebbe al processo tributario un trattamento ingiustificatamente diverso da quello stabilito dall’art. 23, quarto comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), per il giudizio di opposizione a ordinanza-ingiunzione: tale norma, infatti, prevedrebbe che l’autorità che ha emesso l’ordinanza possa stare in giudizio personalmente, ma non anche la liquidazione in suo favore delle spese di lite (eccetto la rifusione delle «spese vive»); c) infine, perché, nell’ambito dello stesso giudizio tributario, disciplinerebbe la liquidazione delle spese della parte resistente vittoriosa che sia stata assistita dai propri funzionari in maniera irragionevolmente differente dall’ipotesi del ricorrente vittorioso che, nei casi in cui gli sia consentito, sia stato in giudizio senza assistenza tecnica e al quale non spetterebbe il compenso professionale;
che, in secondo luogo, la medesima norma violerebbe l’art. 24 Cost., poiché la liquidazione dei compensi invece prevista a favore dell’ente impositore comporterebbe che le parti, «quando si difendono da sé, […] non contendono ad armi pari», ciò che si tradurrebbe in un «deterrente idoneo a condizionare il libero e pieno esercizio» del diritto di difesa della parte ricorrente;
che, infine, la norma censurata lederebbe l’art. 33, quinto comma, Cost., perché equiparerebbe l’attività difensiva svolta dai funzionari a quella degli avvocati, senza però che i primi abbiano sostenuto l’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio professionale;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, in subordine, non fondate;
che l’eccepita inammissibilità è basata: a) sulla natura meramente ipotetica della rilevanza, avendone lo stesso rimettente affermato la sussistenza «nell’ipotesi alternativa in cui soccombente sia la ricorrente» nel giudizio a quo; b) sulla considerazione che, anche in caso di soccombenza di quest’ultima, la CTP potrebbe pur sempre compensare le spese di lite, sicché la norma denunciata non troverebbe comunque applicazione; c) sul rilievo che, poiché la parte ricorrente nel processo principale riveste la qualità di avvocato, in caso di vittoria della lite il compenso le spetterebbe – diversamente da quanto sostenuto dal rimettente, a conforto, tra l’altro, della censura di violazione dell’art. 24 Cost. – ancorché si sia avvalsa della facoltà della difesa personale (è citata Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 18 febbraio 2019, n. 4698), con la conseguenza che «[a]nche sotto [tale] profilo […] non vi [sarebbe] spazio per applicare al caso in esame la disposizione censurata»; d) sul difetto di motivazione in merito alla non manifesta infondatezza della questione sollevata in riferimento all’art. 33, quinto comma, Cost., avendo il giudice a quo affermato l’equiparazione tra l’attività difensiva svolta dai funzionari e quella svolta dagli avvocati con una «mera petizione di principio»;
che, nel merito, le censure afferenti alla violazione dell’art. 3 Cost. sarebbero destituite di fondamento, in considerazione: a) della sostanziale identità delle attività difensive apprestate dai funzionari e dagli avvocati; b) della riduzione, stabilita dalla norma sospettata in misura pari al venti per cento, del compenso che spetterebbe a un avvocato, riduzione che sarebbe «ragionevolmente idonea a compensare la non necessarietà della qualifica di avvocato» in capo ai funzionari; c) della circostanza che la scelta normativa oggetto dell’odierno incidente terrebbe conto della specificità del processo tributario;
che anche la censura di violazione dell’art. 24 Cost. sarebbe priva di pregio, alla luce del principio, enunciato da questa Corte nell’ordinanza n. 117 del 1999, secondo cui «il regolamento delle spese processuali comunque non incide sulla tutela giurisdizionale del diritto di chi agisce o si difende in giudizio, non potendosi affatto sostenere che la possibilità di conseguire la ripetizione delle spese processuali […] consenta alla parte di meglio difendere la sua posizione e di apprestare meglio le sue difese»;
che nemmeno sarebbe sussistente l’asserita violazione dell’art. 33, quinto comma, Cost., poiché i funzionari sarebbero «semplicemente autorizzati dalla legge a rappresentare e difendere l’ufficio cui appartengono» ma non acquisirebbero, per ciò solo, «il titolo di avvocato, né alcun altro titolo abilitativo».
Considerato che, con ordinanza del 9 settembre 2021 (reg. ord. n. 186 del 2021), la Commissione tributaria provinciale di Taranto dubita della legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 2-sexies, primo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) – come introdotto dall’art. 9, comma 1, lettera f), numero 2), del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 156, recante «Misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario, in attuazione degli articoli 6, comma 6, e 10, comma 1, lettere a) e b), della legge 11 marzo 2014, n. 23» – il quale stabilisce, a proposito delle spese del processo tributario, che: «[n]ella liquidazione delle spese a favore dell’ente impositore, dell’agente della riscossione e dei soggetti iscritti nell’albo di cui all’articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, se assistiti da propri funzionari, si applicano le disposizioni per la liquidazione del compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del venti per cento dell’importo complessivo ivi previsto»;
che, ad avviso del giudice a quo, tale disposizione violerebbe, anzitutto, l’art. 3 della Costituzione, per un triplice ordine di motivi: sotto un primo profilo, perché la liquidazione del compenso da essa prevista non sarebbe volta a ristorare un «reale aggravio di spesa» e si risolverebbe quindi in un irragionevole arricchimento, dal momento che l’attività difensiva svolta dai funzionari degli «enti di appartenenza» rientrerebbe «nell’adempimento dei propri doveri d’ufficio o contrattuali»; sotto un secondo profilo, perché riserverebbe al processo tributario un trattamento ingiustificatamente diverso da quello stabilito, per il giudizio di opposizione a ordinanza-ingiunzione, dall’art. 23, quarto comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), il quale prevedrebbe che l’autorità che ha emesso l’ordinanza possa stare in giudizio personalmente, ma non anche la liquidazione in suo favore delle spese di lite (eccetto la rifusione delle «spese vive»); sotto un terzo profilo, perché, nell’ambito dello stesso giudizio tributario, disciplinerebbe la liquidazione delle spese della parte resistente vittoriosa che sia stata assistita dai propri funzionari in maniera irragionevolmente differente dall’ipotesi del ricorrente vittorioso che sia stato in giudizio senza assistenza tecnica e al quale non spetterebbe il compenso professionale;
che risulterebbe, altresì, violato l’art. 24 Cost., poiché, riconoscendo invece quel compenso al resistente vittorioso che sia stato assistito dai propri funzionari, comporterebbe che le parti non contenderebbero ad armi pari, ciò che si tradurrebbe in un «deterrente idoneo a condizionare il libero e pieno esercizio» del diritto di difesa della parte ricorrente stessa;
che il rimettente denuncia, infine, la violazione dell’art. 33, quinto comma, Cost., giacché la norma sospettata equiparerebbe l’attività difensiva dei funzionari e degli avvocati, benché i primi non abbiano conseguito l’abilitazione all’esercizio professionale;
che il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, tra l’altro, per l’ipoteticità della rilevanza;
che l’eccezione è fondata;
che il rimettente riferisce di essere investito del ricorso avverso un avviso di accertamento proposto da una contribuente che riveste la qualità di avvocato e che si è difesa in proprio nei confronti di un Comune che si è costituito difendendosi tramite un «funzionario interno»;
che il giudice a quo, posta tale premessa, afferma che, ai fini della decisione, «nell’ipotesi alternativa in cui soccombente sia la ricorrente», le questioni sollevate «appa[iono] rilevant[i]»;
che, dunque, la CTP rimettente non solo afferma la sussistenza della rilevanza in via meramente eventuale, ma soprattutto, in maniera singolare, prospetta la soccombenza della parte ricorrente nel processo principale – che rappresenta il presupposto per la sua condanna al pagamento delle spese del giudizio in favore dell’ente impositore e, quindi, perché possa trovare applicazione la norma sospettata – come un’ipotesi «alternativa», evidentemente alla vittoria della lite;
che, quindi, sotto tale ultimo aspetto, a rigore, il tenore testuale dell’ordinanza di rimessione lascia presumere che la parte ricorrente sia destinata a risultare vittoriosa nel processo a quo, con la conseguente inapplicabilità della norma censurata;
che, pertanto, la rilevanza delle questioni in esame risulta solo ipotetica e virtuale, ciò che ne determina la manifesta inammissibilità (ex plurimis, ordinanze n. 46 e n. 34 del 2016);
che le considerazioni appena svolte sono assorbenti rispetto alle ulteriori eccezioni preliminari sollevate dall’Avvocatura generale e, in particolare, al rilievo per cui la CTP rimettente riferisce, da un lato, che la contribuente nel processo principale riveste la qualità di avvocato e deduce poi, dall’altro, che la parte ricorrente che sia stata in giudizio senza l’assistenza tecnica non percepirebbe alcun compenso in caso di vittoria della lite, omettendo, però, di confrontarsi con il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui la circostanza che, come nella specie, l’avvocato si sia avvalso della facoltà della difesa personale «non esclude che il giudice debba liquidare in suo favore» il compenso per la prestazione svolta (Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanze 14 ottobre 2021, n. 28113, e 18 febbraio 2019, n. 4698; sezione seconda civile, sentenza 9 gennaio 2017, n. 189; nello stesso senso, sezione terza civile, sentenza 18 settembre 2008, n. 23847);
che nel caso di specie non viene, quindi, in considerazione la diversa ipotesi in cui il contribuente, che sia stato in giudizio senza l’assistenza tecnica e senza rivestire la qualità di avvocato, non percepisce alcun compenso in caso di vittoria della lite.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, vigente ratione temporis.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 2-sexies, primo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), come introdotto dall’art. 9, comma 1, lettera f), numero 2), del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 156, recante «Misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario, in attuazione degli articoli 6, comma 6, e 10, comma 1, lettere a) e b), della legge 11 marzo 2014, n. 23», sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 33, quinto comma, della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Taranto con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2022.
F.to:
Giuliano AMATO, Presidente
Luca ANTONINI, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 5 luglio 2022.