ORDINANZA N. 76
ANNO 2022
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giuliano AMATO
Giudici: Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’intero testo e dell’art. 103 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, (Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 17 luglio 2020, n. 77, promossi dal Giudice di pace di Taranto con ordinanze del 24 e del 12 agosto 2020, iscritte, rispettivamente, ai numeri 3 e 4 del registro ordinanze 2021 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2021.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’8 marzo 2022 il Giudice relatore Franco Modugno;
deliberato nella camera di consiglio dell’8 marzo 2022.
Ritenuto che con due ordinanze di rimessione, di analogo tenore, del 12 agosto 2020 (r. o. n. 4 del 2021) e del 24 agosto 2020 (r. o. n. 3 del 2021), il Giudice di pace di Taranto ha sollevato questioni di legittimità costituzionale:
- a) del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 17 luglio 2020, n. 77, «in relazione all’art. 103 di detto decreto-legge», per violazione degli 70, 72, 73, 77 e 97 della Costituzione, nonché dell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007;
- b) del medesimo d.l. n. 34 del 2020 e della relativa legge di conversione n. 77 del 2020, per violazione degli 60, 65, 66, 67 e 136 Cost., nonché dell’art. 3 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 e dell’art. 41 CDFUE;
che il giudice a quo premette di essere investito dei ricorsi proposti da due cittadine straniere avverso i decreti di espulsione emessi nei loro confronti dal Prefetto di Taranto l’8 maggio 2020 ai sensi dell’art. 13, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), per essersi trattenute nel territorio dello Stato senza essere munite di permesso di soggiorno, in violazione dell’art. 1, comma 3, della legge 28 maggio 2007, n. 68 (Disciplina dei soggiorni di breve durata degli stranieri per visite, affari, turismo e studio);
che nei ricorsi – secondo quanto riferisce il rimettente – le ricorrenti sostengono «sostanzialmente» che, pur svolgendo l’attività di «badanti», esse non potrebbero beneficiare, proprio perché colpite dai decreti di espulsione impugnati, della procedura di regolarizzazione dei rapporti di lavoro prevista, in particolari settori (tra cui quello dell’assistenza alla persona) e anche con riguardo ai cittadini stranieri, dall’art. 103 del d.l. n. 34 del 2020, come convertito (cosiddetto “decreto rilancio”);
che, ciò premesso, il rimettente dubita della legittimità costituzionale del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, «in quanto afferente a situazioni differibili e differite nel tempo», e dunque adottato in difetto dei presupposti della straordinaria necessità e urgenza: vizio non sanato – secondo la costante giurisprudenza di questa Corte – dalla legge di conversione;
che risulterebbe, altresì, palese – ad avviso del giudice a quo – la violazione dell’art. 72, quarto comma, Cost. e degli artt. 35 e 78 del regolamento del Senato della Repubblica 10 febbraio 1971 e s.m.i., «laddove una diversa interpretazione legittimerebbe la sovrapposizione di ruoli tra delegante e delegato»;
che il provvedimento d’urgenza sarebbe, altresì, irrispettoso dell’art. 15 della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri), il quale stabilisce che i decreti-legge debbono contenere norme di immediata applicazione e che il loro contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo;
che il rimettente denuncia, sotto diverso profilo, che il d.l. n. 34 del 2020 e la relativa legge di conversione n. 77 del 2020 siano stati, rispettivamente, emanato e promulgata dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la cui elezione, avvenuta nel gennaio 2015, sarebbe illegittima, in quanto operata da deputati e senatori della XVII legislatura eletti nel 2013 sulla base della normativa introdotta dalla legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica), dichiarata costituzionalmente illegittima da questa Corte con la sentenza n. 1 del 2014;
che dal combinato disposto dell’art. 136 Cost. e dell’art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) si desume, infatti, che la dichiarazione di illegittimità costituzionale ha effetti retroattivi, con il limite dei rapporti esauriti: rapporti la cui individuazione – alla luce delle indicazioni della giurisprudenza di questa Corte – rientra nei compiti del giudice comune;
che – sempre a parere del giudice a quo – al momento della pubblicazione della citata sentenza n. 1 del 2014, avvenuta il 15 gennaio 2014, i rapporti riguardanti l’attività dei parlamentari eletti in base alla normativa dichiarata costituzionalmente illegittima – compresi quelli insediatisi grazie al previsto premio di maggioranza – non potevano considerarsi esauriti, dato che la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica non avevano ancora proceduto, ai sensi dell’art. 66 Cost., al definitivo accertamento dei titoli dei loro membri: accertamento che, per quanto riguarda la verifica dei poteri in ordine al calcolo e all’assegnazione dei seggi alla Camera dei deputati su base nazionale, si era avuto solo il 25 giugno (recte: 1° luglio) 2015, dunque addirittura dopo l’elezione del Capo dello Stato;
che la sentenza n. 1 del 2014, avendo effetti ex tunc, avrebbe reso, dunque, non convalidabile l’elezione per nessuno dei membri del Parlamento della XVII legislatura, senza che possa utilmente invocarsi, in senso contrario, il principio di continuità dello Stato;
che i profili di illegittimità costituzionale rilevati dalla citata sentenza, inerenti al premio di maggioranza, al voto di preferenza e alle liste bloccate, avrebbero fatto sì che per le elezioni politiche del 2013 si sia determinata una grave alterazione della rappresentanza democratica, con una evidente divaricazione tra la composizione dell’organo parlamentare e la volontà dei cittadini espressa con il voto;
che i parlamentari eletti in base alla normativa dichiarata costituzionalmente illegittima non potevano, pertanto, ritenersi rappresentativi della Nazione, come richiesto dall’art. 67 Cost.; né, d’altro canto, avrebbe potuto trovare applicazione l’istituto della prorogatio, previsto dall’art. 61 Cost., il quale presupporrebbe l’esistenza di una valida legge elettorale: donde la violazione anche dell’art. 3 Prot. addiz. CEDU, che impegna le Parti contraenti ad organizzare libere elezioni a intervalli regolari, in condizioni tali da assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo;
che, in conclusione, quindi, tutti i deputati e i senatori eletti nel 2013 dovrebbero considerarsi «esautorati» e privati della «capacità giuridica» relativa alla carica in virtù dell’efficacia retroattiva della dichiarazione di incostituzionalità: con la conseguenza che essi avrebbero eletto illegittimamente, nella XVII legislatura, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il quale non avrebbe potuto, di riflesso, emanare il d.l. n. 34 del 2020, né promulgare la relativa legge di conversione;
che è intervenuto, in entrambi i giudizi, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o non fondate;
che ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, le questioni sarebbero inammissibili per totale difetto di motivazione sulla rilevanza;
che il rimettente non avrebbe spiegato, infatti, in qual modo il dettato dell’art. 103 del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, e tanto più le restanti disposizioni del decreto-legge, sospettato nella sua interezza di illegittimità costituzionale, possano influire sulla decisione dei giudizi a quibus;
che, in base alla scarna descrizione della vicenda concreta contenuta nelle ordinanze di rimessione, risultano essere stati, infatti, impugnati i soli decreti di espulsione delle ricorrenti, senza che constino le ragioni per le quali il citato art. 103 inciderebbe sulla legittimità di tali provvedimenti;
che il giudice a quo non ha riferito, inoltre, se le ricorrenti abbiano presentato domanda di emersione dei loro rapporti di lavoro e, in caso affermativo, quale ne sia stato l’esito, e neppure ha chiarito perché la misura dell’emersione non possa essere applicata nei casi in esame, posto che essa risulta applicabile anche agli stranieri destinatari di un provvedimento di espulsione emesso ai sensi dell’art. 13, comma 2, lettera b), del d.lgs. n. 286 del 1998, come nella specie;
che un’ulteriore ragione di inammissibilità delle questioni sarebbe costituita – secondo l’interveniente – dalla mancata o inadeguata motivazione sulla non manifesta infondatezza, essendosi il rimettente limitato a evocare in modo confuso e generico plurimi parametri costituzionali, senza addurre argomenti utili a far comprendere, almeno per la maggior parte di essi, le specifiche ragioni per le quali le disposizioni legislative censurate si porrebbero in contrasto con i parametri stessi;
che, nel merito, le questioni risulterebbero, comunque sia, non fondate;
che priva di ogni pregio apparirebbe, anzitutto, la censura mossa al d.l. n. 34 del 2020 «in quanto afferente a situazioni differibili o differite nel tempo», con conseguente assenza dei requisiti della straordinaria necessità e urgenza;
che, di là dall’assoluta genericità della doglianza, la giurisprudenza di questa Corte ha, comunque sia, chiarito che il sindacato sulla legittimità dell’adozione, da parte del Governo, di un decreto-legge deve ritenersi limitato ai casi di evidente mancanza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza richiesti dall’art. 77, secondo comma, Cost., o di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della relativa valutazione;
che la giurisprudenza costituzionale ha, altresì, precisato che la straordinaria necessità e urgenza non postula inderogabilmente un’immediata applicazione delle disposizioni introdotte mediante decreto-legge, ma può bene fondarsi sulla necessità di provvedere con urgenza, anche laddove il risultato sia per qualche aspetto necessariamente differito;
che, per quanto attiene specificamente alla misura dell’emersione dei rapporti di lavoro, regolata dall’art. 103 del d.l. n. 34 del 2020, la stessa è dichiaratamente finalizzata a «garantire livelli adeguati di tutela della salute individuale e collettiva in conseguenza della contingente ed eccezionale emergenza sanitaria connessa alla calamità derivante dalla diffusione del contagio da COVID-19 e [a] favorire l’emersione di rapporti di lavoro irregolari»: indicazione dalla quale emergerebbe in modo evidente la sussistenza dei requisiti costituzionali per l’emanazione del decreto-legge;
che altrettanto palese apparirebbe l’infondatezza del convincimento espresso dal rimettente, secondo il quale il d.l. n. 34 del 2020 e la legge n. 77 del 2020 sarebbero costituzionalmente illegittimi in virtù della sentenza di questa Corte n. 1 del 2014, la quale, avendo dichiarato l'illegittimità costituzionale di alcune norme del d.P.R. 30 marzo 1957 n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati) e del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica), avrebbe determinato l’illegittimità dell’elezione e della proclamazione dei parlamentari della XVII legislatura, la quale si sarebbe a sua volta riverberata nell’ipotizzata illegittimità dell’elezione del Presidente della Repubblica;
che il giudice a quo non avrebbe tenuto conto del fatto che la citata sentenza n. 1 del 2014 ha precisato in modo chiarissimo che la decisione di annullamento delle norme censurate era destinata a produrre i suoi effetti solo in occasione di una nuova consultazione elettorale, senza toccare, in alcun modo, né gli esiti delle elezioni svoltesi in applicazione delle norme dichiarate costituzionalmente illegittime (le quali dovevano considerarsi un fatto concluso, posto che il processo di composizione delle Camere si compie con la proclamazione degli eletti); né gli atti adottati dalle Camere prima della nuova consultazione elettorale, essendo ciò imposto dal principio di continuità dello Stato, al lume del quale le Camere, in quanto organi costituzionalmente indefettibili, non possono mai cessare di esistere o perdere la capacità di deliberare.
Considerato che, con due ordinanze di rimessione di analogo tenore, il Giudice di pace di Taranto solleva due distinti gruppi di questioni di legittimità costituzionale;
che alla luce del dispositivo delle ordinanze, il primo gruppo di questioni ha ad oggetto il solo art. 103 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 17 luglio 2020, n. 77 (ciò, sebbene nella motivazione le censure risultino riferite indistintamente al decreto-legge nel suo complesso): disposizione, quella censurata, la quale prevede un articolato procedimento per l’emersione dei rapporti di lavoro irregolari, anche con cittadini stranieri, nei settori dell’agricoltura, allevamento e zootecnia, pesca e acquacoltura e attività connesse, dell’assistenza alla persona e del lavoro domestico;
che, denunciando la violazione di un’ampia platea di parametri costituzionali e sovranazionali – gli artt. 70, 72, 73, 77 e 97 della Costituzione, nonché l’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 –, il rimettente assume che il d.l. n. 34 del 2020 sarebbe stato adottato in difetto dei presupposti della straordinaria necessità e urgenza, «in quanto afferente a situazioni differibili e differite nel tempo», e che risulterebbe altresì irrispettoso dell’art. 15 della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri), il quale stabilisce che i decreti-legge debbono contenere norme di immediata applicazione e che il loro contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo;
che il secondo gruppo di questioni – che chiama in campo una ulteriore nutrita lista di parametri (gli artt. 60, 65, 66, 67 e 136 Cost., nonché l’art. 3 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, e l’art. 41 CDFUE) – ha invece ad oggetto l’intero d.l. n. 34 del 2020 e l’intera legge di conversione n. 77 del 2020;
che il rimettente denuncia che il decreto-legge e la legge da ultimo citati siano stati, rispettivamente, emanato e promulgata dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la cui elezione, avvenuta nel gennaio 2015, sarebbe illegittima, in quanto operata da deputati e senatori della XVII legislatura eletti nel 2013 sulla base della normativa dichiarata costituzionalmente illegittima da questa Corte con la sentenza n. 1 del 2014;
che secondo il giudice a quo, i parlamentari che hanno eletto il Capo dello Stato dovevano ritenersi «esautorati» dalle loro funzioni in forza del principio di retroattività degli effetti delle pronunce di incostituzionalità (artt. 136 Cost. e 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale»), giacché, alla data di pubblicazione della citata sentenza, i rapporti relativi all’attività dei parlamentari in questione non potevano considerarsi esauriti, non avendo le Camere ancora proceduto, in modo completo, alla verifica dei poteri dei loro membri ai sensi dell’art. 66 Cost.;
che i profili di illegittimità costituzionale rilevati dalla pronuncia di questa Corte, inerenti al premio di maggioranza, al voto di preferenza e alle liste bloccate, avrebbero fatto inoltre sì che i parlamentari eletti in base alla normativa costituzionalmente illegittima non potessero ritenersi rappresentativi della Nazione (art. 67 Cost.); né, d’altra parte, avrebbe potuto applicarsi l’istituto della prorogatio (art. 61 Cost.), il quale presupporrebbe l’esistenza di una valida legge elettorale: donde la violazione anche dell’art. 3 Prot. addiz. CEDU, che impegna le Parti contraenti ad organizzare libere elezioni a intervalli regolari, in condizioni tali da assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo;
che le ordinanze di rimessione sollevano identiche questioni, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione;
che il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in entrambi i giudizi, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per difetto di motivazione sulla rilevanza;
che l’eccezione è palesemente fondata;
che, secondo quanto riferito nelle ordinanze di rimessione, il giudice a quo è infatti investito dei giudizi di impugnazione avverso i decreti di espulsione emessi ai sensi dell’art. 13, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) nei confronti di due cittadine straniere, trattenutesi in Italia oltre il periodo consentito con riguardo agli ingressi per visite, affari, turismo e studio senza essere munite di permesso di soggiorno (art. 1, comma 3, della legge 28 maggio 2007, n. 68, recante «Disciplina dei soggiorni di breve durata degli stranieri per visite, affari, turismo e studio»);
che il rimettente non spiega, peraltro, in qual modo interferiscano con la decisione dei giudizi a quibus né l’art. 103 del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, né meno ancora, le numerosissime altre disposizioni di tale decreto-legge – pure censurato nella sua interezza con il secondo gruppo di questioni – le quali concernono materie di per sé estranee ai temi dell’immigrazione;
che è ben vero che il citato art. 103 prevede che, nelle more della definizione dei procedimenti per la regolarizzazione dei rapporti di lavoro, lo straniero non possa essere espulso (comma 11) e che, in caso di esito positivo delle procedure stesse, i procedimenti penali e amministrativi relativi all’ingresso e al soggiorno illegale nel territorio nazionale sono estinti (comma 17);
che il giudice a quo non precisa, tuttavia, se la procedura per l’emersione dei rapporti di lavoro sia stata effettivamente promossa dalle (o a favore delle) ricorrenti in una delle due forme previste dalla norma censurata: ossia tramite domanda del loro datore di lavoro (comma 1) o mediante richiesta di un permesso di soggiorno temporaneo da parte delle ricorrenti stesse (comma 2);
che il rimettente riporta, al contrario, la tesi del difensore delle ricorrenti, secondo cui queste ultime, pur svolgendo attività lavorativa in uno dei settori coinvolti nella regolarizzazione, non potrebbero beneficiare di essa in quanto raggiunte dai decreti di espulsione impugnati: il che fa supporre che la relativa procedura non sia stata attivata;
che la tesi della difesa appare, peraltro, palesemente errata, in quanto l’art. 103, comma 10, lettera a), del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, esclude dalle procedure di regolarizzazione solo gli stranieri colpiti da provvedimenti di espulsione emessi per ragioni di ordine pubblico e sicurezza o di pericolosità sociale (art. 13, commi 1 e 2, lettera c, del d.lgs. n. 286 del 1998), ovvero per finalità di prevenzione del terrorismo (art. 3 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144, recante «Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale», convertito, con modificazioni, nella legge 31 luglio 2005, n. 155): non, invece, gli stranieri nei cui confronti siano stati emessi provvedimenti espulsivi per essersi trattenuti nel territorio dello Stato senza permesso di soggiorno, come nei casi di specie;
che le carenze delle ordinanze di rimessione, in punto di motivazione sulla rilevanza, determinano, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la manifesta inammissibilità delle questioni (ex plurimis, ordinanze n. 280, n. 210 e n. 92 del 2020), rimanendo assorbita l’ulteriore eccezione proposta dal Presidente del Consiglio dei ministri, di inammissibilità per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, vigente ratione temporis.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 103 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 17 luglio 2020, n. 77, sollevate, in riferimento agli artt. 70, 72, 73, 77 e 97 della Costituzione e all’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, dal Giudice di pace di Taranto con le ordinanze indicate in epigrafe;
2) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale del d.l. n. 34 del 2020 e della legge n. 77 del 2020, sollevate, in riferimento agli artt. 60, 65, 66, 67 e 136 Cost., all’art. 3 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, e all’art. 41 CDFUE, dal Giudice di pace di Taranto con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 marzo 2022.
F.to:
Giuliano AMATO, Presidente
Franco MODUGNO, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 24 marzo 2022.
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