SENTENZA N. 131
ANNO 2020
Commenti alla decisione di
1. Emanuele Rossi, Il fondamento del Terzo settore è nella Costituzione.Prime osservazioni sulla sentenza n. 131 del 2020 della Corte costituzionale, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
2. Federica Ciarlariello, Un conflitto di competenza sul terreno della sussidiarietà: quale rapporto tra pubblica amministrazione ed enti del terzo settore? per g.c. di Diritti Regionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Marta CARTABIA;
Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, lettera b), della legge della Regione Umbria 11 aprile 2019, n. 2 (Disciplina delle cooperative di comunità), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 17-20 giugno 2019, depositato in cancelleria il 19 giugno 2019, iscritto al numero 70 del registro ricorsi 2019 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numero 32, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visto l’atto di costituzione della Regione Umbria;
udito il Giudice relatore Luca Antonini ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettere a) e c), in collegamento da remoto, senza discussione orale, in data 20 maggio 2020;
deliberato nella camera di consiglio del 20 maggio 2020.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso notificato il 17-20 giugno 2019 e depositato il 19 giugno 2019 (reg. ric. n. 70 del 2019), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso – in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, lettera b), della legge della Regione Umbria 11 aprile 2019, n. 2 (Disciplina delle cooperative di comunità).
Ai fini di tale legge regionale, e «in assenza di norme nazionali che le riconoscano, sono considerate “cooperative di comunità” le società cooperative, costituite ai sensi degli articoli 2511 e seguenti del codice civile ed iscritte all’Albo delle cooperative di cui all’articolo 2512 del codice civile e all’articolo 223-sexiesdecies delle disposizioni per l’attuazione del codice civile, le quali, anche al fine di contrastare fenomeni di spopolamento, declino economico, degrado sociale urbanistico, perseguono l’interesse generale della comunità in cui operano, promuovendo la partecipazione dei cittadini alla gestione di beni o servizi collettivi, nonché alla valorizzazione, gestione o all’acquisto collettivo di beni o servizi di interesse generale» (art. 2); tali cooperative, oltre a rispettare quanto previsto dalle norme del codice civile in materia di società cooperative, stabiliscono la propria sede e operano in uno o più Comuni della Regione, nonché prevedono nello statuto o nel regolamento forme di coinvolgimento dei soggetti appartenenti alla comunità di riferimento, modalità di partecipazione degli stessi all’assemblea dei soci e la possibilità di nominarli nel consiglio di amministrazione.
Tali cooperative hanno «come obiettivo la produzione di vantaggi a favore di una comunità territoriale definita alla quale i soci promotori appartengono o eleggono come propria nell’ambito di iniziative a sostegno dello sviluppo economico, della coesione e della solidarietà sociale volte a rafforzare il sistema produttivo integrato e a valorizzare le risorse e le vocazioni territoriali e delle comunità locali nonché a favorire la creazione di offerte di lavoro» (art. 1).
Sono previsti sia la istituzione, presso la Giunta regionale, di un albo regionale delle cooperative di comunità (art. 3), sia interventi finalizzati a sostenere il processo di sviluppo di tali cooperative, consistenti in finanziamenti agevolati, contributi in conto capitale e incentivi per la creazione di nuova occupazione (art. 4).
L’art. 5, rubricato «Strumenti e modalità di raccordo», al comma 1 prevede tra l’altro che la Regione «riconoscendo il rilevante valore sociale e la finalità pubblica della cooperazione in generale e delle cooperative di comunità in particolare […] b) disciplina le modalità di attuazione della co-programmazione, della co-progettazione e dell’accreditamento previste dall’articolo 55 del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117 (Codice del Terzo settore, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 6 giugno 2016, n. 106) e le forme di coinvolgimento delle cooperative di comunità e adotta appositi schemi di convenzione-tipo che disciplinano i rapporti tra le cooperative di comunità e le stesse amministrazioni pubbliche operanti nell’ambito regionale».
La disposizione statale richiamata stabilisce al comma 1 che le amministrazioni pubbliche, nell’esercizio delle proprie funzioni di programmazione e organizzazione a livello territoriale degli interventi e dei servizi nei settori di attività degli enti del Terzo settore (ETS), assicurano il coinvolgimento attivo di questi ultimi «attraverso forme di co-programmazione e co-progettazione e accreditamento, poste in essere nel rispetto dei principi della legge 7 agosto 1990, n. 241, nonché delle norme che disciplinano specifici procedimenti ed in particolare di quelle relative alla programmazione sociale di zona», definendo nei commi successivi i caratteri essenziali delle tre suddette forme.
1.1.– Secondo il ricorrente, la disposizione recata dall’impugnato art. 5, comma 1, lettera b), si porrebbe in contrasto con quella statale da essa richiamata perché prevederebbe il coinvolgimento anche delle cooperative di comunità nelle attività di programmazione, progettazione e accreditamento: infatti, l’art. 55 del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, recante «Codice del Terzo settore, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 6 giugno 2016, n. 106», limiterebbe detto coinvolgimento ai soli ETS, elencati dall’art. 4 dello stesso decreto, tra i quali non sarebbero ricomprese le cooperative di comunità.
In aggiunta, si sottolinea che il coinvolgimento delle cooperative di comunità previsto dalla norma regionale comporterebbe «nella sostanza, l’omologazione di quelle agli enti del Terzo settore i quali, invece, così come tassativamente elencati, sono gli unici soggetti legittimati, secondo la normativa statale di riferimento, a partecipare attivamente alla programmazione statale degli interventi di utilità sociale».
In tal modo, la norma regionale avrebbe ampliato il novero dei soggetti del Terzo settore, individuati e disciplinati dalla legge statale e dal diritto privato, così invadendo la materia dell’ordinamento civile, riservata alla competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. (è richiamata la sentenza n. 185 del 2018).
2.– Con atto depositato il 26 luglio 2019 si è costituita la Regione Umbria, in persona del Presidente pro tempore, chiedendo che il ricorso sia dichiarato infondato.
La resistente evidenzia anzitutto che le cooperative di comunità, pur essendo ormai molto diffuse sul territorio, non sono normativamente disciplinate a livello nazionale.
Ricorda poi i contenuti di una proposta di legge di iniziativa parlamentare presentata alla Camera dei deputati nella XVII legislatura, avente a oggetto proprio la disciplina di tali cooperative, mai divenuta legge.
Segnala anche che diverse Regioni hanno approvato norme sulle cooperative di comunità con specifiche leggi (Abruzzo, Liguria, Puglia, Sardegna e Sicilia) oppure inserendo articoli a queste dedicati nelle leggi regionali sulla cooperazione (Basilicata, Emilia-Romagna, Lombardia e Toscana).
2.1.– Con riferimento al motivo di ricorso, la Regione Umbria osserva che dalla definizione di cooperativa di comunità fornita dall’art. 2 della legge regionale impugnata risulterebbero «evidenti […] le finalità di carattere sociale perseguite da tale tipo di società», e ciò farebbe ritenere le cooperative di comunità sempre ricomprese nell’ambito degli ETS tra i quali l’art. 4 del d.lgs. n. 117 del 2017 menziona «le imprese sociali, incluse le cooperative sociali».
In particolare, la definizione di impresa sociale è fornita dall’art. 1, comma 1, del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 112, recante «Revisione della disciplina in materia di impresa sociale, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera c) della legge 6 giugno 2016, n. 106» e le cooperative di comunità ben vi rientrerebbero poiché tale norma statale consente di acquisire la qualifica di impresa sociale a tutti gli enti privati, inclusi quelli costituiti in forma di società, che, in conformità alle disposizioni del citato decreto, «esercitano in via stabile e principale un’attività d’impresa di interesse generale, senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, adottando modalità di gestione responsabili e trasparenti e favorendo il più ampio coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e di altri soggetti interessati alle loro attività».
A sostegno della qualificazione delle cooperative di comunità come specifica forma di impresa sociale la resistente riporta anche alcuni passaggi dello «Studio di fattibilità per lo sviluppo delle cooperative di comunità», tratto dal sito del Ministero dello sviluppo economico.
In conclusione, le cooperative di comunità, in quanto riconducibili al modello della impresa sociale, rientrerebbero nell’ambito degli ETS e, pertanto, la norma regionale impugnata non violerebbe in alcun modo la competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia dell’ordinamento civile.
3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria con la quale replica agli argomenti esposti dalla Regione Umbria nell’atto di costituzione nonché, in prossimità dell’udienza, delle brevi note ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettera c).
In particolare, la memoria sottolinea che il d.lgs. n. 112 del 2017, innovando rispetto alla previgente disciplina della impresa sociale (contenuta nel decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 155 recante «Disciplina dell’impresa sociale, a norma della legge 13 giugno 2005, n. 118», oggi abrogato), non farebbe più riferimento «al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale» (art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 155 del 2006), ma all’esercizio, in via stabile e principale, di «un’attività di impresa di interesse generale» (art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 112 del 2017). Inoltre, l’elenco delle attività considerate di interesse generale, contenuto nell’art. 2, ricalcherebbe solo in parte quello dell’abrogato art. 2 del d.lgs. n. 155 del 2006, avendo aggiunto molti altri settori in cui l’impresa sociale può esercitare l’attività.
Ricorda poi che il citato d.lgs. n. 112 del 2017 equipara ex lege alle imprese sociali le cooperative sociali costituite ai sensi della legge 8 novembre 1991, n. 381 (Disciplina delle cooperative sociali), a prescindere dal possesso, da parte delle seconde, di tutti i requisiti che, per lo stesso decreto delegato, un’impresa deve necessariamente possedere per poter essere qualificata come impresa sociale.
La memoria afferma quindi che le cooperative di comunità, come individuate dal legislatore umbro, non presenterebbero le caratteristiche né delle imprese sociali, né delle cooperative sociali, essendo prive dei connotati tipici e propri di tali tipologie di imprese. Ciò in quanto la forma societaria normata dall’art. 2 della legge regionale impugnata si caratterizzerebbe soltanto per il semplice e generico scopo mutualistico proprio di tutte le società cooperative, ai sensi dell’art. 2511 del codice civile, e non integrerebbe, soprattutto sul piano oggettivo, «le tipologie, d’impresa e societarie, puntualmente definite e disciplinate, rispettivamente, dal d.lgs. n. 112/2017 e dalla l. n. 381/1991», in ragione delle specifiche e tassative attività esercitate.
Quanto ai contenuti dello studio di fattibilità richiamato dalla difesa della Regione, la memoria non li ritiene rilevanti: per un verso, il documento risale al 2016, ed è quindi anteriore sia alla revisione della disciplina in materia di impresa sociale, sia alla riforma degli ETS; per altro verso, il fatto che lo stesso analizza le cooperative di comunità essenzialmente dal punto di vista sociale ed economico confermerebbe che si sarebbe in presenza di un fenomeno non giuridico.
Nelle brevi note, il ricorrente ribadisce che il coinvolgimento nelle attività di cui all’art. 55 del d.lgs. n. 117 del 2017 sarebbe riservato ai soli ETS; pertanto, non ne avrebbero titolo i «soggetti che, pur presentando tratti per certi versi assimilabili a quelli degli enti tipizzati» – ma tali non sarebbero le cooperative di comunità –, non possiedono la qualifica di ETS. Le eventuali eccezioni a tale regola sarebbero puntualmente previste e disciplinate dal d.lgs. n. 117 del 2017 che, infatti, ha espressamente individuato ipotesi di enti del Terzo settore ex lege, quali le cooperative sociali costituite ai sensi della legge n. 381 del 1991 e l’Associazione della Croce Rossa italiana.
Considerato in diritto
1.– Con il ricorso in epigrafe, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso – in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, lettera b), della legge della Regione Umbria 11 aprile 2019, n. 2 (Disciplina delle cooperative di comunità).
La legge regionale in esame considera cooperative di comunità le società cooperative che «anche al fine di contrastare fenomeni di spopolamento, declino economico, degrado sociale urbanistico, perseguono l’interesse generale della comunità in cui operano, promuovendo la partecipazione dei cittadini alla gestione di beni o servizi collettivi, nonché alla valorizzazione, gestione o all’acquisto collettivo di beni o servizi di interesse generale» (art. 2).
Secondo la suddetta legge regionale, le società cooperative, per ottenere il riconoscimento di cooperativa di comunità, stabiliscono la propria sede e operano in uno o più Comuni della Regione, nonché prevedono nello statuto o nel regolamento forme di coinvolgimento dei soggetti appartenenti alla comunità di riferimento, modalità di partecipazione degli stessi all’assemblea dei soci e la possibilità di nominarli nel consiglio di amministrazione. Tali cooperative, infatti, hanno «come obiettivo la produzione di vantaggi a favore di una comunità territoriale definita alla quale i soci promotori appartengono o eleggono come propria nell’ambito di iniziative a sostegno dello sviluppo economico, della coesione e della solidarietà sociale volte a rafforzare il sistema produttivo integrato e a valorizzare le risorse e le vocazioni territoriali e delle comunità locali nonché a favorire la creazione di offerte di lavoro» (art. 1).
Sono previsti sia la istituzione, presso la Giunta regionale, di un albo regionale delle cooperative di comunità (art. 3), sia interventi finalizzati a sostenere il processo di sviluppo di tali cooperative, consistenti in finanziamenti agevolati, contributi in conto capitale e incentivi per la creazione di nuova occupazione (art. 4).
L’art. 5, rubricato «Strumenti e modalità di raccordo», al comma 1 prevede, tra l’altro, che la Regione «riconoscendo il rilevante valore sociale e la finalità pubblica della cooperazione in generale e delle cooperative di comunità in particolare […] b) disciplina le modalità di attuazione della co-programmazione, della co-progettazione e dell’accreditamento previste dall’articolo 55 del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117 (Codice del Terzo settore, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 6 giugno 2016, n. 106) e le forme di coinvolgimento delle cooperative di comunità e adotta appositi schemi di convenzione-tipo che disciplinano i rapporti tra le cooperative di comunità e le stesse amministrazioni pubbliche operanti nell’ambito regionale».
1.1.– Secondo il ricorrente, la disposizione recata dall’impugnato art. 5, comma 1, lettera b), si porrebbe in contrasto con quella statale da essa richiamata perché prevederebbe il coinvolgimento anche delle cooperative di comunità nell’attività di programmazione, progettazione e accreditamento: infatti, l’art. 55 del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, recante «Codice del Terzo settore, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 6 giugno 2016, n. 106» (d’ora in avanti CTS) limiterebbe detto coinvolgimento ai soli enti del Terzo settore (ETS), individuati dall’art. 4 del decreto stesso, tra i quali non sarebbero ricomprese le cooperative di comunità. La previsione del coinvolgimento delle cooperative di comunità comporterebbe, «nella sostanza, l’omologazione di quelle agli enti del Terzo settore i quali, invece, così come tassativamente elencati, sono gli unici soggetti legittimati, secondo la normativa statale di riferimento, a partecipare attivamente alla programmazione statale degli interventi di utilità sociale».
In tal modo, la norma regionale amplierebbe il novero dei soggetti del Terzo settore, individuati e disciplinati dalla legge statale e dal diritto privato, così invadendo la materia dell’ordinamento civile, riservata alla competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.
1.2.– A confutazione della censura, la resistente argomenta che la definizione di cooperativa di comunità fornita dal legislatore regionale renderebbe evidenti le finalità di carattere sociale perseguite da tale tipo di società, oggetto di disciplina da parte di numerose Regioni, ma non da parte dello Stato.
Nel senso della infondatezza del ricorso, essa richiama l’elencazione degli ETS contenuta nell’art. 4 CTS e, in particolare, «le imprese sociali, incluse le cooperative sociali». Le cooperative di comunità rientrerebbero, infatti, in ogni caso nella definizione di impresa sociale posta dall’art. 1 del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 112, recante «Revisione della disciplina in materia di impresa sociale, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera c) della legge 6 giugno 2016, n. 106», poiché tale qualifica spetterebbe a tutti gli enti privati, inclusi quelli costituiti in forma di società, che, in conformità alle disposizioni del citato decreto, «esercitano in via stabile e principale un’attività d’impresa di interesse generale, senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, adottando modalità di gestione responsabili e trasparenti e favorendo il più ampio coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e di altri soggetti interessati alle loro attività».
2.– La questione non è fondata, nei sensi di seguito precisati.
2.1.– Nel ricorso statale assume un ruolo centrale il contenuto dell’art. 55 CTS, che la norma regionale impugnata renderebbe riferibile a un soggetto, la cooperativa di comunità, privo della qualifica di ETS.
Su tale norma statale è quindi opportuno soffermarsi.
Questa, al comma 1, stabilisce che le amministrazioni pubbliche, nell’esercizio delle proprie funzioni di programmazione e organizzazione a livello territoriale degli interventi e dei servizi nei settori di attività degli ETS, ne assicurano il coinvolgimento attivo «attraverso forme di co-programmazione e co-progettazione e accreditamento, poste in essere nel rispetto dei principi della legge 7 agosto 1990, n. 241, nonché delle norme che disciplinano specifici procedimenti ed in particolare di quelle relative alla programmazione sociale di zona».
Nei commi successivi la suddetta disposizione specifica che:
«2. La co-programmazione è finalizzata all’individuazione, da parte della pubblica amministrazione procedente, dei bisogni da soddisfare, degli interventi a tal fine necessari, delle modalità di realizzazione degli stessi e delle risorse disponibili.
3. La co-progettazione è finalizzata alla definizione ed eventualmente alla realizzazione di specifici progetti di servizio o di intervento finalizzati a soddisfare bisogni definiti, alla luce degli strumenti di programmazione di cui comma 2.
4. Ai fini di cui al comma 3, l’individuazione degli enti del Terzo settore con cui attivare il partenariato avviene anche mediante forme di accreditamento nel rispetto dei principi di trasparenza, imparzialità, partecipazione e parità di trattamento, previa definizione, da parte della pubblica amministrazione procedente, degli obiettivi generali e specifici dell’intervento, della durata e delle caratteristiche essenziali dello stesso nonché dei criteri e delle modalità per l’individuazione degli enti partner».
Il citato art. 55, che apre il Titolo VII del CTS, disciplinando i rapporti tra ETS e pubbliche amministrazioni, rappresenta dunque una delle più significative attuazioni del principio di sussidiarietà orizzontale valorizzato dall’art. 118, quarto comma, Cost.
Quest’ultima previsione, infatti, ha esplicitato nel testo costituzionale le implicazioni di sistema derivanti dal riconoscimento della «profonda socialità» che connota la persona umana (sentenza n. 228 del 2004) e della sua possibilità di realizzare una «azione positiva e responsabile» (sentenza n. 75 del 1992): fin da tempi molto risalenti, del resto, le relazioni di solidarietà sono state all’origine di una fitta rete di libera e autonoma mutualità che, ricollegandosi a diverse anime culturali della nostra tradizione, ha inciso profondamente sullo sviluppo sociale, culturale ed economico del nostro Paese. Prima ancora che venissero alla luce i sistemi pubblici di welfare, la creatività dei singoli si è espressa in una molteplicità di forme associative (società di mutuo soccorso, opere caritatevoli, monti di pietà, ecc.) che hanno quindi saputo garantire assistenza, solidarietà e istruzione a chi, nei momenti più difficili della nostra storia, rimaneva escluso.
Nella suddetta disposizione costituzionale, valorizzando l’originaria socialità dell’uomo (sentenza n. 75 del 1992), si è quindi voluto superare l’idea per cui solo l’azione del sistema pubblico è intrinsecamente idonea allo svolgimento di attività di interesse generale e si è riconosciuto che tali attività ben possono, invece, essere perseguite anche da una «autonoma iniziativa dei cittadini» che, in linea di continuità con quelle espressioni della società solidale, risulta ancora oggi fortemente radicata nel tessuto comunitario del nostro Paese.
Si è identificato così un ambito di organizzazione delle «libertà sociali» (sentenze n. 185 del 2018 e n. 300 del 2003) non riconducibile né allo Stato, né al mercato, ma a quelle «forme di solidarietà» che, in quanto espressive di una relazione di reciprocità, devono essere ricomprese «tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, riconosciuti, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente» (sentenza n. 309 del 2013).
È in espressa attuazione, in particolare, del principio di cui all’ultimo comma dell’art. 118 Cost., che l’art. 55 CTS realizza per la prima volta in termini generali una vera e propria procedimentalizzazione dell’azione sussidiaria – strutturando e ampliando una prospettiva che era già stata prefigurata, ma limitatamente a interventi innovativi e sperimentali in ambito sociale, nell’art. 1, comma 4, della legge 8 novembre 2000, n. 328 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali) e quindi dall’art. 7 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 30 marzo 2001 (Atto di indirizzo e coordinamento sui sistemi di affidamento dei servizi alla persona ai sensi dell’art. 5 della legge 8 novembre 2000, n. 328) –.
L’art. 55 CTS, infatti, pone in capo ai soggetti pubblici il compito di assicurare, «nel rispetto dei principi della legge 7 agosto 1990, n. 241, nonché delle norme che disciplinano specifici procedimenti ed in particolare di quelle relative alla programmazione sociale di zona», il coinvolgimento attivo degli ETS nella programmazione, nella progettazione e nell’organizzazione degli interventi e dei servizi, nei settori di attività di interesse generale definiti dall’art. 5 del medesimo CTS.
Ciò in quanto gli ETS sono identificati dal CTS come un insieme limitato di soggetti giuridici dotati di caratteri specifici (art. 4), rivolti a «perseguire il bene comune» (art. 1), a svolgere «attività di interesse generale» (art. 5), senza perseguire finalità lucrative soggettive (art. 8), sottoposti a un sistema pubblicistico di registrazione (art. 11) e a rigorosi controlli (articoli da 90 a 97).
Tali elementi sono quindi valorizzati come la chiave di volta di un nuovo rapporto collaborativo con i soggetti pubblici: secondo le disposizioni specifiche delle leggi di settore e in coerenza con quanto disposto dal codice medesimo, agli ETS, al fine di rendere più efficace l’azione amministrativa nei settori di attività di interesse generale definiti dal CTS, è riconosciuta una specifica attitudine a partecipare insieme ai soggetti pubblici alla realizzazione dell’interesse generale.
Gli ETS, in quanto rappresentativi della “società solidale”, del resto, spesso costituiscono sul territorio una rete capillare di vicinanza e solidarietà, sensibile in tempo reale alle esigenze che provengono dal tessuto sociale, e sono quindi in grado di mettere a disposizione dell’ente pubblico sia preziosi dati informativi (altrimenti conseguibili in tempi più lunghi e con costi organizzativi a proprio carico), sia un’importante capacità organizzativa e di intervento: ciò che produce spesso effetti positivi, sia in termini di risparmio di risorse che di aumento della qualità dei servizi e delle prestazioni erogate a favore della “società del bisogno”.
Si instaura, in questi termini, tra i soggetti pubblici e gli ETS, in forza dell’art. 55, un canale di amministrazione condivisa, alternativo a quello del profitto e del mercato: la «co-programmazione», la «co-progettazione» e il «partenariato» (che può condurre anche a forme di «accreditamento») si configurano come fasi di un procedimento complesso espressione di un diverso rapporto tra il pubblico ed il privato sociale, non fondato semplicemente su un rapporto sinallagmatico.
Il modello configurato dall’art. 55 CTS, infatti, non si basa sulla corresponsione di prezzi e corrispettivi dalla parte pubblica a quella privata, ma sulla convergenza di obiettivi e sull’aggregazione di risorse pubbliche e private per la programmazione e la progettazione, in comune, di servizi e interventi diretti a elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, secondo una sfera relazionale che si colloca al di là del mero scambio utilitaristico.
Del resto, lo stesso diritto dell’Unione – anche secondo le recenti direttive 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, nonché in base alla relativa giurisprudenza della Corte di giustizia (in particolare Corte di giustizia dell’Unione europea, quinta sezione, sentenza 28 gennaio 2016, in causa C-50/14, CASTA e a. e Corte di giustizia dell’Unione europea, quinta sezione, sentenza 11 dicembre 2014, in causa C-113/13, Azienda sanitaria locale n. 5 «Spezzino» e a., che tendono a smorzare la dicotomia conflittuale fra i valori della concorrenza e quelli della solidarietà) – mantiene, a ben vedere, in capo agli Stati membri la possibilità di apprestare, in relazione ad attività a spiccata valenza sociale, un modello organizzativo ispirato non al principio di concorrenza ma a quello di solidarietà (sempre che le organizzazioni non lucrative contribuiscano, in condizioni di pari trattamento, in modo effettivo e trasparente al perseguimento delle finalità sociali).
2.2.– Lo specifico modello di condivisione della funzione pubblica prefigurato dal richiamato art. 55 è però riservato in via esclusiva agli enti che rientrano nel perimetro definito dall’art. 4 CTS, in forza del quale costituiscono il Terzo settore gli enti che rientrano in specifiche forme organizzative tipizzate (le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le società di mutuo soccorso, le reti associative, le imprese sociali e le cooperative sociali) e gli altri enti “atipici” (le associazioni riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di diritto privato diversi dalle società) che perseguono, «senza scopo di lucro, […] finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi», e che risultano «iscritti nel registro unico nazionale del Terzo settore».
Agli enti che fuoriescono da tale perimetro legale non possono essere riferibili le medesime forme di coinvolgimento previste dall’art. 55 CTS: esiste una stretta connessione tra i requisiti di qualificazione degli ETS e i contenuti della disciplina del loro coinvolgimento nella funzione pubblica.
Infatti, la originale e innovativa (nella sua attuale ampiezza) forma di collaborazione che si instaura mediante gli strumenti delineati dall’art. 55 CTS richiede, negli enti privati che possono prendervi parte, la rigorosa garanzia della comunanza di interessi da perseguire e quindi la effettiva “terzietà” (verificata e assicurata attraverso specifici requisiti giuridici e relativi sistemi di controllo) rispetto al mercato e alle finalità di profitto che lo caratterizzano.
2.3.– Risulta quindi pertinente, salvo quanto si chiarirà di seguito, la censura del ricorrente che prefigura una violazione della competenza statale in materia di ordinamento civile: in effetti, qualora la norma impugnata mirasse al coinvolgimento anche di ogni forma di cooperativa di comunità nelle attività previste dall’art. 55 CTS si verificherebbe, come appunto rileva il ricorso statale, un’indebita omologazione di tali cooperative agli ETS, «i quali, invece, così come tassativamente elencati, sono gli unici soggetti legittimati, secondo la normativa statale di riferimento, a partecipare attivamente alla programmazione statale degli interventi di utilità sociale».
Questa Corte nella sentenza n. 185 del 2018 ha, infatti, precisato che ricade tipicamente nella competenza statale nella materia «ordinamento civile» non solo la conformazione specifica e l’organizzazione degli ETS, ma anche la definizione delle «regole essenziali di correlazione con le autorità pubbliche».
Il legislatore regionale, quindi, se da un lato è abilitato, nell’ambito delle attività che ricadono nelle materie di propria competenza, a declinare più puntualmente, in relazione alle specificità territoriali, l’attuazione di quanto previsto dall’art. 55 CTS, non può, dall’altro, alterare le regole essenziali delle forme di coinvolgimento attivo nei rapporti tra gli ETS e i soggetti pubblici.
2.3.1.– Tuttavia, va rilevato che la legge reg. Umbria n. 2 del 2019 non contiene, in nessuna sua disposizione, un’espressa qualificazione delle cooperative di comunità come ETS.
Ai sensi dell’art. 1 della legge regionale impugnata, il riconoscimento e la promozione da parte della Regione del ruolo e della funzione delle cooperative di comunità si realizzano, infatti, «nel rispetto degli articoli 45, 117 e 118, quarto comma della Costituzione e della normativa nazionale», della quale vengono necessariamente qui in rilievo il CTS e il d.lgs. n. 112 del 2017 sull’impresa sociale.
Piuttosto, l’art. 2 della legge regionale, nel riferirsi in termini generali alle società cooperative, lascia ai soggetti che le costituiscono la libertà di scegliere quale sottotipo adottare all’interno della comune forma societaria cooperativa: in sostanza, se costituire una cooperativa sociale ai sensi della legge 8 novembre 1991, n. 381 (Disciplina delle cooperative sociali), una cooperativa a mutualità prevalente, ai sensi degli articoli da 2512 a 2514 del codice civile, ovvero una cooperativa il cui statuto non contempli le clausole di non lucratività di cui all’art. 2514 cod. civ.
Ne deriva che le cooperative di comunità, proprio in forza della normativa statale, possono: a) essere costituite come cooperative sociali e, ai sensi dell’art. 1, comma 4, del d.lgs. n. 112 del 2017, «acquisiscono di diritto la qualifica di imprese sociali»; oppure b) essere qualificate come imprese sociali, in quanto però rispettino i requisiti costitutivi previsti dal d.lgs. n. 112 del 2017 – tra i quali in primo luogo l’assenza di scopo di lucro – e si iscrivano nell’apposita sezione del registro delle imprese, manifestando così l’adesione al complessivo regime della impresa sociale, atteso che, per tale tipologia di ETS, il predetto adempimento «soddisfa il requisito dell’iscrizione nel registro unico nazionale del Terzo settore» (art. 11, comma 3, CTS).
In entrambe queste ipotesi non è imputabile, a carico dell’impugnato art. 5, comma 1, lettera b), della legge reg. Umbria n. 2 del 2019, alcuna alterazione dell’impianto dell’art. 55 CTS: le cooperative di comunità saranno infatti qualificate come imprese sociali e quindi come ETS.
Nell’ipotesi, invece, che le cooperative di comunità siano differentemente costituite (perché gli statuti non contemplano la clausola di non lucratività di cui all’art. 2514 cod. civ.) o qualificate (perché le cooperative non ritengano di acquisire la qualifica di impresa sociale), rimane fermo – contrariamente all’assunto della difesa regionale secondo cui le evidenti finalità di carattere sociale perseguite dalle cooperative di comunità farebbero sempre ricomprendere quest’ultime nell’ambito delle imprese sociali – che alle stesse non sono riferibili le forme di coinvolgimento attivo disciplinate dall’art. 55 CTS.
La norma impugnata ben può però essere interpretata nel senso di non contraddire questa conclusione, in quanto – oltre a prevedere l’adozione di «appositi schemi di convenzione-tipo che disciplinano i rapporti tra le cooperative di comunità e le stesse amministrazioni pubbliche operanti nell’ambito regionale» – demanda alla Regione un duplice compito: quello di disciplinare «le modalità di attuazione della co-programmazione, della co-progettazione e dell’accreditamento previste dall’articolo 55 del [CTS] e le forme di coinvolgimento delle cooperative di comunità».
L’uso della congiunzione «e» nell’ultima parte del richiamato periodo conferma un’interpretazione per cui la disciplina delle modalità di attuazione degli istituti previsti dall’art. 55 CTS è tenuta distinta da quella delle forme di coinvolgimento che le cooperative di comunità, in quanto tali (quando cioè non qualificabili come ETS), possono avere con i soggetti pubblici: essendo gli ambiti concettuali dei due sistemi riconducibili a fonti diverse, questi non sono assimilati quanto a regime.
Tale interpretazione consente, in definitiva, di escludere il vulnus prospettato dal ricorrente, perché la norma censurata non comporta alcuna omologazione tra un soggetto estraneo al Terzo settore e quelli che vi rientrano. Essa, infatti, consente di disciplinare: a) le modalità attuative dell’art. 55 CTS, avendo a riguardo gli ETS, come qualificati dalla normativa statale (e, quindi, anche le cooperative di comunità che in base alla suddetta normativa siano tali); b) le forme di coinvolgimento delle cooperative di comunità, che siano “soltanto” così qualificabili (e non anche come ETS) e che non potranno essere coinvolte con gli stessi strumenti e modalità riservati dal legislatore statale agli ETS ai sensi del citato art. 55 CTS.
lla stregua delle considerazioni fin qui svolte, va da sé che gli schemi di convenzione-tipo, richiamati dalla disposizione impugnata e da adottare da parte della Regione, sono necessariamente diversi, quanto a presupposti e contenuti, dalle forme di coinvolgimento tipicamente disciplinate per gli ETS, perché, qualora attengano a cooperative di comunità non qualificabili all’interno di tale perimetro, la relazione convenzionale con l’ente pubblico si pone su basi diverse da quella accordata ai primi.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, lettera b), della legge della Regione Umbria 11 aprile 2019, n. 2 (Disciplina delle cooperative di comunità), promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 maggio 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
ANTONINI, Redattore
Filomena PERRONE, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 26 giugno 2020.