ORDINANZA N. 114
ANNO 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Marta CARTABIA;
Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario di Rovigo nel procedimento penale a carico di F. P., con ordinanza del 14 febbraio 2019, iscritta al n. 133 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito il Giudice relatore Francesco Viganò nella camera di consiglio del 20 maggio 2020, svolta ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettera a);
deliberato nella camera di consiglio del 20 maggio 2020.
Rilevato che con ordinanza del 14 febbraio 2019 il Tribunale ordinario di Rovigo, su sollecitazione dell’imputato F. P., ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti dell’imputato al quale con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dei relativi Protocolli»;
che il rimettente giudica della responsabilità di F. P., imputato del reato previsto dall’art. 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), per avere omesso, in qualità di titolare dell’omonima impresa individuale, il versamento nei termini di legge dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) dovuta per il periodo d’imposta 2013, per l’ammontare di 374.136 euro;
che l’imputato è stato sottoposto anche a un procedimento amministrativo, in cui la predetta omissione gli è stata contestata assieme ad altre irregolarità tributarie, e al cui esito gli è stato ingiunto il pagamento – dilazionato in venti rate, in corso di versamento – della somma complessiva di 496.066,51 euro, comprensiva di sanzioni per 43.480,01 euro e di interessi per 23.575,50 euro;
che il giudice a quo – premesso che l’art. 649 cod. proc. pen. è già stato oggetto di un’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale da parte del Tribunale ordinario di Bergamo – ripercorre la giurisprudenza europea sviluppatasi sul principio del ne bis in idem, rispettivamente sancito dall’art. 4 Prot. n. 7 CEDU e dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), soffermandosi in particolare sulla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri contro Italia, e sulle sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, 26 febbraio 2013, in causa C-617/10, Åklagaren contro Hans Åkerberg Fransson e 20 marzo 2018, in causa C-524/15, Menci;
che – osserva il rimettente – nella sentenza Menci, la Corte di giustizia ha escluso la contrarietà all’art. 50 CDFUE della normativa italiana, che consente di avviare un procedimento penale per omesso versamento dell’IVA a carico di colui che abbia già subito, per i medesimi fatti, una sanzione amministrativa definitiva di natura punitiva, a condizione che le due sanzioni perseguano scopi differenti e complementari e il sistema normativo garantisca una coordinazione tra i due procedimenti sì da evitare eccessivi oneri per l’interessato, assicurando comunque che il complessivo risultato sanzionatorio non risulti sproporzionato rispetto alla gravità della violazione (circostanze che spetta al giudice nazionale di verificare);
che, alla luce della citata giurisprudenza, il rimettente sospetta il contrasto dell’art. 649 cod. proc. pen. con l’art. 117, primo comma, Cost., «nella misura in cui eleva a norma di rango costituzionale la norma interposta discendente dall’interpretazione della disposizione dell’art. 50 CDFUE fornita dalla Corte di Giustizia»;
che, secondo il giudice a quo, l’identità «naturalistica, giuridica e di politica criminale» tra il delitto di omesso versamento dell’IVA e il correlativo illecito amministrativo impedirebbe di ritenere integrati i requisiti cui la Corte di giustizia, nella sentenza Menci, ha condizionato la valutazione di conformità all’art. 50 CDFUE del doppio binario sanzionatorio previsto in materia tributaria nell’ordinamento italiano;
che invero, secondo il rimettente, in relazione all’omissione del versamento dell’IVA, i procedimenti e le sanzioni rispettivamente penali e amministrativi perseguirebbero il medesimo scopo; la condotta punita sarebbe identica; non sarebbero previste una normativa di coordinamento atta a limitare l’onere supplementare derivante dal cumulo di procedimenti, né norme idonee a garantire la proporzionalità della complessiva risposta sanzionatoria rispetto alla gravità del reato;
che il rimettente dubita altresì della conformità dell’art. 649 cod. proc. pen. all’art. 3 Cost., «declinato come principio di ragionevolezza intrinseca dell’ordinamento»;
che il cumulo di procedimenti – amministrativo e penale – e relative sanzioni in ragione della medesima condotta di omesso versamento dell’IVA sarebbe eccessivamente oneroso e foriero di «un’ingiustificata disparità di trattamento», nonché di un «problema di ragionevolezza intrinseca dell’ordinamento»;
che le questioni sollevate sarebbero rilevanti, in quanto il censurato art. 649 cod. proc. pen., che vieta di sottoporre chi sia stato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili a nuovo procedimento penale per il medesimo fatto, non potrebbe essere applicato, stante il suo tenore letterale, a materia diversa da quella penale in senso stretto, sicché il procedimento penale dovrebbe essere celebrato nonostante la definitività della sanzione amministrativa inflitta a F. P.;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, instando per la declaratoria di inammissibilità o infondatezza delle questioni;
che queste ultime sarebbero anzitutto inammissibili in quanto tendenti a sollecitare una pronuncia manipolativa di questa Corte, in assenza di «una sola soluzione normativa costituzionalmente compatibile rispetto a quella costituzionalmente illegittima»;
che la Corte di giustizia, nella sentenza Menci, avrebbe ritenuto compatibile con il diritto dell’Unione europea la normativa italiana che prevede una duplicità di procedimenti e l’irrogazione di sanzioni penali e amministrative per l’omesso versamento dell’IVA, essendo possibile al giudice di verificare, nel secondo giudizio, la proporzionalità della complessiva risposta sanzionatoria apprestata dall’ordinamento a fronte dell’illecito;
che dunque il ne bis in idem europeo avrebbe «perso la sua connotazione esclusivamente processuale per diventare un principio “relativo all’entità della sanzione complessivamente irrogata”»;
che il rimettente avrebbe dovuto spiegare perché, nel caso in esame, «l’inflizione all’interessato di una precedente sanzione amministrativa abbia costituito un’afflizione di gravità tale da ostare al concorso con essa di una sanzione penale i cui confini edittali sono la reclusione da sei mesi a due anni»;
che sarebbe erronea la valutazione del giudice a quo circa la non complementarietà degli scopi perseguiti dalle sanzioni amministrativa e penale, alla luce della giurisprudenza di legittimità, secondo cui il delitto di cui all’art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000 si pone in rapporto non di specialità ma di «progressione illecita» con la fattispecie di cui all’art. 13, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, recante «Riforma delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi, a norma dell’articolo 3, comma 133, lettera q), della legge 23 dicembre 1996, n. 662» (è citata Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 marzo-12 settembre 2013, n. 37424);
che sarebbe meramente assertiva l’affermazione del rimettente circa l’eccessiva onerosità del doppio binario, in presenza di istituti di collegamento tra il procedimento amministrativo e quello penale;
che lacunosa e apodittica sarebbe la doglianza relativa alla contrarietà della disposizione censurata all’art. 3 Cost.;
che tali carenze argomentative determinerebbero l’inammissibilità delle questioni sollevate, non avendo il rimettente assolto al proprio compito di effettuare il doveroso giudizio di proporzionalità della complessiva risposta punitiva dell’ordinamento all’illecito, alla luce della sanzione amministrativa già inflitta, in conformità del resto a quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità (sono citate le sentenze della Corte di cassazione, sezione quinta penale, 16 luglio-10 ottobre 2018, n. 45829 e 21 settembre-31 ottobre 2018, n. 49869);
che, peraltro, l’ordinamento già prevedrebbe meccanismi di raccordo tra il procedimento amministrativo e il procedimento penale in materia tributaria, delineati dagli artt. 19, 20 e 21 del d.lgs. n. 74 del 2000 e ritenuti dalla Corte di giustizia idonei ad assicurare al giudice di merito il potere di valutare la proporzionalità della complessiva risposta sanzionatoria alla fattispecie concreta;
che l’intervento sull’art. 649 cod. proc. pen. sollecitato dal rimettente minerebbe la certezza della risposta sanzionatoria a fronte di condotte di evasione dell’IVA, così ponendosi in contrasto con gli artt. 11 e 117 Cost., in relazione al canone di effettività delle sanzioni in materia di IVA, imposto dal diritto dell’Unione europea; determinerebbe poi una situazione di «incertezza e […] casualità delle sanzioni applicabili», in violazione degli artt. 25 e 3 Cost; sarebbe infine contrario al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, di cui all’art. 112 Cost., la mera definitività di una sanzione amministrativa, venendo a paralizzare la prosecuzione dell’azione da parte del pubblico ministero.
Considerato che, con ordinanza del 14 febbraio 2019, il Tribunale ordinario di Rovigo ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), nonché – come risulta dal tenore della motivazione – all’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti dell’imputato al quale con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dei relativi Protocolli»;
che le questioni sollevate ricalcano nella sostanza, quanto alla norma censurata, ai parametri evocati, al petitum e all’iter argomentativo, quelle sollevate dal Tribunale ordinario di Bergamo con l’ordinanza iscritta al n. 169 del r.o. 2018 e dichiarate inammissibili con la sentenza n. 222 del 2019;
che in detta pronuncia questa Corte ha ritenuto inammissibile la censura di contrasto dell’art. 649 cod. proc. pen. con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 Prot. n. 7 CEDU (e implicitamente all’art. 50 CDFUE), sul rilievo che l’ordinanza di rimessione non aveva chiarito adeguatamente le ragioni per cui non sarebbero state soddisfatte le condizioni di ammissibilità di un “doppio binario” procedimentale e sanzionatorio per l’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto (IVA), enunciate dalla recente giurisprudenza europea;
che, inoltre, nella medesima sentenza n. 222 del 2019 questa Corte ha osservato che tanto la Corte europea dei diritti dell’uomo (grande camera, sentenza 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia), quanto la Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza 20 marzo 2018, in causa C-524/15, Menci) non ritengono ex se contraria al divieto di bis in idem la sottoposizione di un imputato a processo penale per il medesimo fatto per il quale egli sia già stato definitivamente sanzionato in via amministrativa, esigendo unicamente la sussistenza di un legame materiale e temporale sufficientemente stretto tra i due procedimenti, da ravvisarsi in presenza di sanzioni che perseguano scopi complementari, della prevedibilità del “doppio binario” sanzionatorio, di forme di coordinamento tra i procedimenti e della proporzionalità del complessivo risultato sanzionatorio;
che, in base a detti criteri, nella sentenza Menci la Corte di giustizia ha ritenuto compatibile con il divieto di bis in idem di cui all’art. 50 CDFUE il complessivo regime sanzionatorio e procedimentale previsto dal legislatore italiano in materia di omesso versamento dell’IVA, salva la verifica, da parte del giudice di merito, della non eccessiva onerosità, nel caso concreto, dell’applicazione del “doppio binario” sanzionatorio;
che, infine, la sentenza n. 222 del 2019 aveva evidenziato che l’allora giudice rimettente non aveva dimostrato la non conformità della disciplina censurata a tutti i criteri enunciati dalla giurisprudenza europea, così incorrendo in lacune argomentative tali da determinare un’insufficiente motivazione tanto della non manifesta infondatezza della questione prospettata, quanto della sua rilevanza, con conseguente inammissibilità della censura principale di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 Prot. n. 7 CEDU (e implicitamente all’art. 50 CDFUE);
che, nel presente giudizio, il Tribunale ordinario di Rovigo è incorso nelle medesime carenze argomentative;
che tali lacune, identiche a quelle che hanno condotto questa Corte a dichiarare inammissibili le questioni esaminate nella sentenza n. 222 del 2019, non possono che condurre alla declaratoria di manifesta inammissibilità della censura principale oggi sollevata dal Tribunale di Rovigo, di contrarietà dell’art. 649 cod. proc. pen. all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 Prot. n. 7 CEDU e all’art. 50 CDFUE;
che le censure relative alla lesione dell’art. 3 Cost. risultano – analogamente a quelle esaminate nella sentenza n. 222 del 2019 – meramente ancillari rispetto a quelle prospettate in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 Prot. n. 7 CEDU e all’art. 50 CDFUE, sicché la declaratoria di manifesta inammissibilità di queste ultime non può che riverberarsi sulle prime.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e all’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), dal Tribunale ordinario di Rovigo, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 maggio 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Francesco VIGANÒ, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 12 giugno 2020.