SENTENZA N. 245
ANNO 2019
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio
LATTANZI;
Giudici: Aldo CAROSI, Marta
CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana
SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio
BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di
legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge
27 gennaio 2012, n. 3 (Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché
di composizione delle crisi da sovraindebitamento), promosso dal Tribunale
ordinario di Udine, in composizione monocratica, nel procedimento a carico di
D. K., con ordinanza
del 14 maggio 2018, iscritta al n. 171 del registro ordinanze 2018 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale,
dell’anno 2018.
Visto l’atto di
costituzione di D. K.;
udito nell’udienza
pubblica del 22 ottobre 2019 il Giudice relatore Augusto Antonio Barbera;
udito l’avvocato
Pierpaolo Curri per D. K.
Ritenuto
in fatto
1.– Con ordinanza
depositata il 14 maggio 2018 (reg. ord. n. 171 del
2018), il Tribunale ordinario di Udine, in composizione monocratica, ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione,
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, terzo periodo,
della legge 27 gennaio 2012, n. 3 (Disposizioni in materia di usura e di
estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento),
limitatamente alle parole «all’imposta sul valore aggiunto».
2.– Il rimettente
premette che il giudizio principale ha ad oggetto un ricorso volto ad ottenere
l’ammissione e la successiva omologazione di un accordo di composizione della
crisi da sovraindebitamento, proposto ai sensi dell’art. 6, comma 1, primo
periodo, della legge n. 3 del 2012. L’incidente di legittimità costituzionale,
in particolare, interviene nella fase di valutazione dell’ammissibilità del
ricorso, prevista dall’art. 10 della legge n. 3 del 2012, nel corso della quale
occorre verificare la presenza dei requisiti pregiudiziali previsti dagli artt.
7, 8 e 9 della stessa legge.
3.– Con riguardo ai
presupposti soggettivi del relativo ricorso, il rimettente chiarisce che il
ricorrente non è assoggettabile a procedure concorsuali diverse da quelle
regolate dalla legge n. 3 del 2012. In particolare, si sottolinea
nell’ordinanza che il ricorrente non esercita attività d’impresa commerciale e
che il relativo sovraindebitamento deriva principalmente dalla condizione di
responsabile solidale (art. 38 del codice civile) per le obbligazioni contratte
da una associazione sportiva (nel cui nome ha agito in passato e di cui è stato
legale rappresentante), a sua volta non soggetta a procedure concorsuali
diverse da quelle disciplinate dalla legge n. 3 del 2012, perché comunque
estranea ai requisiti di cui all’art. 1, comma secondo, del regio decreto
16 maggio 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo,
dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa; da
ora in avanti: legge fallimentare).
4.– In ordine agli
ulteriori presupposti legittimanti il ricorso oggetto del giudizio principale,
il giudice a quo evidenzia che : a) il ricorrente è soggetto sovraindebitato, non avendo la possibilità di adempiere
regolarmente le proprie obbligazioni alla luce della complessiva situazione che
lo riguarda, considerati i debiti scaduti, i beni patrimoniali suscettibili di
liquidazione e i flussi finanziari positivi prospettabili, con cadenza annua,
nel quinquennio a venire, coincidente con il periodo di tempo compreso nel
piano proposto ai creditori; b) che il piano prevede il pagamento integrale dei
creditori prededucibili e in quota parte dei crediti concorsuali, tutti
collocati al chirografo, compresi i privilegiati, attesa l’incapienza totale
dei beni gravati; c) che al ricorso sono allegati tutti i documenti prescritti
dall’art. 9, comma 2, della legge n. 3 del 2012 e che il ricorrente non ha mai
fatto ricorso in precedenza alle procedure previste da detta legge, né risulta
aver compiuto atti in frode ai creditori nel quinquennio pregresso; d) che il
professionista designato per svolgere le funzioni di organismo di composizione
della crisi, ai sensi dell’art. 15, comma 9, della legge n. 3 del 2012, ha
attestato la fattibilità del piano elaborato nonché la veridicità dei dati
contenuti nel ricorso e nei documenti allegati, avuto riguardo, in particolare,
al profilo della incapienza dei beni sui quali i creditori privilegiati
potrebbero far valere la loro collocazione preferenziale in caso di
liquidazione forzata, beni caratterizzati da un valore di molto inferiore alla
misura della soddisfazione che potrebbe risultare garantita dalla relativa
liquidazione.
5.– Ciò precisato, il
rimettente rimarca che tra le poste di credito privilegiate, oggetto della
falcidia proposta dal debitore, figura anche l’obbligo di pagare all’erario
somme a titolo di imposta sul valore aggiunto (d’ora in poi: IVA), garantite
dal privilegio generale mobiliare di cui all’art. 2752, terzo comma, cod.
civ. Previsione del piano, questa, che, tuttavia, sarebbe in immediato
conflitto con quanto imposto dalla norma censurata, secondo la quale, avuto
riguardo a siffatta pretesa tributaria, il piano «può prevedere esclusivamente
la dilazione del pagamento».
6.– Il giudice a quo
evidenzia che nel ricorso si sollecita, in prima battuta, la non applicazione
della disposizione censurata perché assertivamente non conforme con quanto
prevede, in materia di IVA, l’ordinamento dell’Unione europea; in subordine,
sempre nel ricorso, se ne rimarca l’illegittimità costituzionale, per la
ritenuta violazione dell’art. 3 Cost.
7.– Quanto al primo
profilo, il rimettente non trascura di valutare criticamente alcune pronunce,
rese da altri giudici di merito, attraverso le quali si è ritenuto di poter
accedere alla soluzione della non applicazione o comunque di dover procedere ad
un’interpretazione conforme della norma censurata alla luce dei principi
dettati, nella materia in oggetto, dalla normativa dell’Unione europea, come
interpretata dalla Corte
di giustizia dell’Unione europea, sentenza 7 aprile 2016, in causa causa C-546/14, Degano Trasporti sas; decisione,
questa, assunta in esito al rinvio pregiudiziale disposto dallo stesso
Tribunale rimettente con riguardo all’analoga tematica della falcidiabilità dell’IVA nell’affine procedura di concordato
preventivo.
7.1.– Segnala il
giudice a quo che dette pronunce muovono dalla condivisa riconducibilità della
disciplina dell’IVA all’interno della sfera di competenza dell’Unione. Ruotano,
in particolare, intorno al ruolo da ascrivere all’art. 273 della Direttiva
2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune
d’imposta sul valore aggiunto (da ora in avanti: direttiva IVA); disposizione,
questa, in forza del quale, secondo la costante interpretazione che di tale
norma ha offerto la CGUE, ogni Stato membro è obbligato ad assicurare l’esatta
riscossione dell’IVA e ad evitarne le evasioni, nel rispetto della parità di
trattamento, beneficiando tuttavia di una certa libertà circa l’individuazione
dei mezzi a sua disposizione, ma sempre senza mettere in discussione l’obbligo
di garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione
europea.
In questa cornice,
sottolinea il rimettente, nella giurisprudenza della CGUE, normative interne
che portavano ad una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione
dell’IVA sono state ritenute contrarie all’obbligo degli Stati membri di
garantire il prelievo integrale dell’imposta in esame nel proprio territorio,
nonché la riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione europea; per
altro verso, senza smentire il precedente assunto, proprio con la citata sentenza
Degano Trasporti sas, è stato ritenuto che non dà luogo ad una rinuncia
generale e indiscriminata alla riscossione dell’IVA, la possibilità, garantita
da una norma interna agli imprenditori commerciali in stato di insolvenza, di
pagare solo parzialmente il debito IVA, qualora ciò avvenga nel quadro di una
procedura seria, rigorosa e garantita, quale quella del concordato preventivo
di cui agli artt. 160 e seguenti della legge fallimentare, che consenta di
riscontrare il maggior vantaggio della relativa proposta rispetto alla
alternativa liquidatoria del patrimonio posto a garanzia delle obbligazioni da
soddisfare.
7.2.– Pur muovendo da
tali argomentazioni, ritiene il rimettente che l’ostacolo offerto dal tenore
letterale dell’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge n. 3 del 2012 non
possa essere superato attraverso la non applicazione della norma interna,
perché ritenuto conflitto con la disciplina comunitaria o, in alternativa, per
il tramite della interpretazione della stessa conforme alle indicazioni di
principio provenienti dagli orientamenti dettati, nella materia in oggetto,
dalla CGUE.
7.2.1.– Sotto il primo
versante, ad avviso del rimettente, per procedersi alla non applicazione di una
norma interna in forza di una norma contenuta in una direttiva, occorre che
questa sia caratterizzata da un contenuto precettivo chiaro, preciso e
incondizionato. Tanto sarebbe da escludere con riguardo all’art. 273 della
direttiva IVA, così come interpretato dalla sentenza
Degano Trasporti sas: ad avviso del rimettente, infatti, il portato di tale
statuizione, se legittima pagamenti parziali dell’IVA all’interno di determinati
meccanismi procedurali, non esprime, al contempo, un precetto chiaro, preciso
ed incondizionato che imponga agli Stati membri di consentire, a parità di
condizioni, la falcidia dell’IVA ad un debitore insolvente. Ciò in quanto
rimane, in via di principio, libera l’individuazione dei modi attraverso i
quali perseguire l’obiettivo della effettiva riscossione del dovuto per tale
risorsa.
7.2.2.– Per altro
verso, ad avviso del rimettente, l’interpretazione conforme al diritto
dell’Unione sarebbe impedita dal tenore letterale della disposizione censurata,
la quale, escludendo «[i]n ogni caso» la falcidia dell’IVA, rende ardua la
possibilità di accedere a siffatta soluzione interpretativa.
7.3.– Il rimettente
perviene a valutazioni di segno positivo quanto al denunziato contrasto tra la
norma censurata e l’art. 3 Cost.
7.3.1.– Quanto alla
rilevanza della questione, il giudice a quo rimarca che la prevista falcidiabilità dell’IVA costituisce l’unico profilo
ostativo alla ammissibilità della proposta.
7.3.2.– In punto di non
manifesta infondatezza, il rimettente evidenzia che la previsione portata allo
scrutinio di questa Corte riproduce un principio identico a quello vigente,
all’epoca della introduzione della norma censurata, nell’affine procedura del
concordato preventivo (art. 182-ter, comma primo, periodo primo, ultima parte,
della legge fallimentare).
In sostanza, all’epoca
della introduzione della norma censurata, i soggetti legittimati ad avvalersi
delle procedure previste dalla legge n. 3 del 2012, alla stessa stregua delle
imprese fallibili, potevano proporre, ai creditori, in alternativa alla
liquidazione complessiva del relativo patrimonio, un pagamento parziale dei
crediti privilegiati, purché nei limiti della capienza dei beni gravati. Il
credito privilegiato per IVA (assieme ad altre specifiche poste di credito di
matrice tributaria, estranee al perimetro delimitato dall’oggetto del giudizio
principale) faceva tuttavia eccezione a tale regola generale: andava infatti
soddisfatto sempre per intero, essendo al più consentita una dilazione dei
relativi tempi di adempimento. Il tutto secondo un assetto complessivo che
questa stessa Corte (è citata la sentenza n. 225 del
2014) aveva ritenuto conforme a Costituzione (anche se esclusivamente in
relazione al versante della disciplina dettata per il concordato preventivo
dalla legge fallimentare).
7.3.3.– Il quadro
interpretativo e normativo di riferimento, si sottolinea nell’ordinanza di
rimessione, è mutato all’indomani della più volte citata sentenza
della CGUE, all’esito della questione pregiudiziale sollevata dallo stesso
tribunale di Udine.
In forza dell’interpretazione
del diritto unionale offerta da tale sentenza, le
sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 27 dicembre 2016, n. 26988, e
sentenza 13 gennaio 2017, n. 760) hanno mutato il precedente orientamento
interpretativo proprio della giurisprudenza di legittimità, ritenendo possibile
la falcidia dell’IVA, anche se limitatamente ai soli concordati preventivi
proposti senza avvalersi della disciplina dettata dall’art. 182-ter della legge
fallimentare per la "transazione fiscale”.
Successivamente, sempre
sulla scia tracciata dal quadro interpretativo emerso dalla citata sentenza
Degano Trasporti sas, è intervenuto il legislatore nazionale, procedendo ad
una riscrittura dell’art. 182-ter della legge fallimentare tramite
l’art. 1, comma 81, della legge 11 dicembre 2016, n. 232 (Bilancio di
previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilancio pluriennale per
il triennio 2017-2019).
In virtù di siffatta
novella la disciplina di riferimento, attualmente dettata dalla legge
fallimentare, impone al debitore, che intenda proporre un concordato preventivo
(o che miri alla stipula di un accordo di ristrutturazione) e che debba
soddisfare anche obbligazioni tributarie, di avvalersi dello strumento della
transazione fiscale disciplinata dal citato art 182-ter della legge
fallimentare. Disposizione quest’ultima che, per quanto rimarcato dal giudice a
quo, consente ora il pagamento parziale dei tributi, dei contributi
previdenziali e dei relativi accessori, senza distinzioni di sorta; e ciò
sempre che la soddisfazione offerta a tali crediti privilegiati non sia
inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale
sul ricavato in caso di liquidazione e purché vengano rispettate le altre
prescrizioni procedimentali previste dal detto art. 182-ter della legge
fallimentare.
7.4.– Il tribunale
rimettente osserva che una evoluzione simile non si è invece manifestata nel
settore delle procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento,
giacché la disposizione dell’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge n. 3
del 2012, a suo tempo quasi identica sul piano letterale rispetto a quella
dell’art. 182-ter, comma primo, ultima parte, della legge fallimentare (vigente
all’epoca dell’introduzione della disciplina sul sovraindebitamento), è rimasta
immutata malgrado il diverso tenore assunto dalla norma che ebbe ad ispirarne
il contenuto.
8.– Tale assetto
normativo, ad avviso del giudice a quo pone in dubbio la tenuta costituzionale
della disposizione censurata
8.1.– In primo luogo,
perché in asserito contrasto con l’art. 3 Cost.
Il rimettente
sottolinea che la regola della falcidiabilità dei
crediti privilegiati, purché pagati in misura corrispondente al valore
ricavabile in via di esecuzione forzata dai beni destinati per legge alla loro
soddisfazione, è ormai comune in tutte le procedure concorsuali che consentano
una soluzione negoziata di un’insolvenza qualsiasi, prescindendo dai profili di
soggettivo accesso all’uno o all’altra procedura: coloro che hanno a
disposizione solo le procedure concorsuali negoziate previste dalla legge n. 3
del 2012, tuttavia, sono tenuti a pagare sempre e per intero quella particolare
categoria di crediti privilegiati rappresentata dal credito IVA; per contro,
gli imprenditori soggetti a fallimento possono invece gestire il medesimo
credito con falcidia (nei limiti indicati), al pari di tutti gli altri crediti
muniti di causa di prelazione.
8.1.1.– Una tale
soluzione non sarebbe compatibile con l’art. 3 Cost., che esige dalla legge
uguaglianza di trattamento nei confronti di tutti i soggetti (persone fisiche,
giuridiche, enti collettivi in generale) che si trovino nelle medesime
condizioni. Condizioni che nella fattispecie consistono in uno stato di crisi
economica, comune a tutti i debitori posti in rassegna, coinvolgente anche un
debito per IVA.
Né rileva al fine il
fatto che i soggetti che possono accedere solo a quanto stabilito
dalla legge n. 3 del 2012 hanno in genere dimensioni economiche meno
rilevanti (e dunque un impatto della loro insolvenza sull’economia generale
inferiore, compresa la probabilità di sussistenza di crediti IVA) rispetto a
coloro cui è applicabile la legge fallimentare: in tal caso, infatti, sarebbe
più razionale un trattamento di maggior favore per i debitori «non commerciali
e piccoli», e non invece deteriore come nei fatti accade.
8.1.2.– La disciplina
contestata, inoltre, conclama, secondo il rimettente, una discriminazione su
base censitaria fra gli stessi imprenditori commerciali, favorendo quelli
assoggettabili al fallimento, i quali possono prospettare ai creditori il
pagamento parziale di ogni pretesa garantita da prelazione, compresa quella
legata all’IVA. Ad avviso del tribunale di Udine, tuttavia, la dimensione
dell’impresa commerciale in tal caso non pare essere criterio discretivo
sufficiente, anche perché essa è mutevole nel tempo sì che un soggetto, nel
corso della sua attività economica, potrebbe o meno essere soggetto alle disposizioni
della legge fallimentare a seconda di mere contingenze.
Parimenti sarebbe a
dirsi per gli imprenditori agricoli, che possono trattare con l’erario per
farsi approvare una falcidia del credito IVA nell’ambito di un accordo di
ristrutturazione ex artt. 182-bis e 182-ter della legge fallimentare, ma non
possono ottenere lo stesso risultato laddove intendano accedere all’accordo di
ristrutturazione dei debiti previsto dalla legge n. 3 del 2012. E ciò a
prescindere dalle dimensioni della relativa attività di impresa, sicché lo
stesso soggetto paradossalmente può godere o no dei vantaggi correlati alla falcidiabilità dell’IVA a seconda dello strumento (pur
omologo) che egli stesso scelga di impiegare.
8.1.3.– Del resto,
sottolinea il rimettente, alla stessa stregua del concordato preventivo,
l’accordo disciplinato dalla legge n. 3 del 2012, è una procedura concorsuale
avente un base negoziale: non diversamente dalla affine procedura prevista
dalla legge fallimentare, anche quella oggetto del giudizio principale è
sottoposta al controllo giurisdizionale e risulta filtrata da valutazioni
espresse da esperti indipendenti, ritualmente contestabili dagli interessati.
Nelle procedure
negoziate per la gestione del sovraindebitamento, dunque, sono rinvenibili le
medesime connotazioni procedurali che hanno indotto la CGUE, nella sentenza
Degano Trasporti sas, a ritenere che il pagamento parziale di un credito
IVA in tal caso non contrasta con l’ordinamento dell’Unione europea; il che
vale a rendere ancora più evidente la diseguaglianza prospettata a sostegno
della addotta violazione dell’art. 3 Cost.
8.2.– Sotto altro
profilo, la norma in esame sarebbe in contrasto anche con l’art. 97 Cost.,
secondo il quale la legge deve organizzare i pubblici uffici in modo da
assicurarne il buon andamento.
È ben vero che questa
Corte, con la sentenza
n. 225 del 2014, ha già dichiarato insussistente il contrasto fra la regola
dell’infalcidiabilità dell’IVA (all’epoca in vigore
per tutte le procedure concorsuali negoziate) e tale parametro costituzionale.
Ad avviso del tribunale rimettente, tuttavia, in quell’occasione il presupposto
fondante del giudizio speso dalla Corte era offerto dall’idea in forza della
quale l’obbligo di pagamento integrale dell’IVA, inteso in maniera assoluta e
inderogabile, fosse conseguenza della ritenuta indisponibilità del tributo in
quanto risorsa propria dell’Unione europea.
8.2.1.– Tale
considerazione non sarebbe più attuale ora che la CGUE ha meglio definito
l’ambito degli obblighi imposti, nella materia de qua, agli Stati membri,
ritenendo compatibile con la disciplina dell’Unione la legge fallimentare
italiana anche quando prevede un pagamento parziale dell’IVA, se inserita nel
quadro di un piano controllato e controllabile che dimostri come tale soluzione
porti un beneficio non inferiore a quello che si otterrebbe all’esito di una
liquidazione forzata dei beni del debitore.
8.2.2.– Ciò, ad avviso
del rimettente, dovrebbe portare ad una rivalutazione delle considerazioni
esposte a sostegno della suddetta sentenza della Corte
costituzionale, n. 225 del 2014.
La disposizione oggetto
di censura, quando rende necessariamente inammissibile la proposta di accordo
che non preveda il pagamento integrale dell’IVA, priva la pubblica
amministrazione del potere di valutare autonomamente ed in concreto se la
proposta (al di là delle attestazioni di corredo e del primo vaglio giudiziale)
è davvero in grado di soddisfare tale credito erariale in misura pari o
addirittura superiore al ricavato ottenibile nell’alternativa liquidatoria. Non
le consente, dunque, di determinarsi nel caso concreto al voto favorevole o
contrario (con facoltà di successiva opposizione e reclamo) a seconda delle
prospettive di effettivo recupero del dovuto, mettendo in crisi il principio
costituzionale del buon andamento, perché preclude in radice criteri di
economicità e di massimizzazione delle risorse nel caso concreto.
8.3.– Considerazioni,
queste, che ad avviso del giudice a quo portano nuovamente al centro del
discorso la prospettata violazione dell’art. 3 Cost.
Il rimettente dubita
anche della razionalità del diverso trattamento cui la norma censurata
sottopone, da un lato, la pubblica amministrazione che gestisce il credito IVA
e, dall’altro, gli ulteriori creditori privilegiati. Questi ultimi, infatti,
mantengono la piena possibilità di valutare liberamente se prestare assenso ad
un piano che, pur tramite la falcidia del relativo diritto, in ipotesi ne
consenta una realizzazione effettiva e non inferiore rispetto all’alternativa
liquidatoria; per altro verso, l’amministrazione finanziaria, invece, è
espropriata di tale potere, anche in caso di manifesta convenienza.
9.– Né, ad avviso del
rimettente, sono infine possibili interpretazioni della norma che possano
ovviare ai vizi denunziati, considerati il tenore letterale della stessa e la
sua ratio.
Preclusa, dunque, anche
la via dell’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata,
se ne imporrebbe in coerenza la declaratoria di illegittimità costituzionale,
con conseguente ablazione del riferimento all’IVA tra le poste di credito non
suscettibili di falcidia.
10.– Nel giudizio è
intervenuta la parte privata K. D., ribadendo la fondatezza delle
argomentazioni spese dal rimettente nel ritenere rilevante e non manifestamente
infondata la questione di illegittimità costituzionale dell’art 7, comma 1,
terzo periodo, della legge n. 3 del 2012, laddove esclude la falcidiabilità dell’IVA in caso di accordo proposto ai
sensi del medesimo art. 7, comma 1.
In data 9 ottobre 2019
la parte privata ha quindi depositato una memoria integrativa.
Considerato
in diritto
1.– Con ordinanza
depositata il 14 maggio 2018 (reg. ord. n. 171 del
2018), il Tribunale ordinario di Udine, in composizione monocratica, ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, terzo periodo, della
legge 27 gennaio 2012, n. 3 (Disposizioni in materia di usura e di estorsione,
nonché di composizione delle crisi da sovra-indebitamento), limitatamente alle
parole «all’imposta sul valore aggiunto».
2.– Giova premettere
che il giudizio principale ha ad oggetto un ricorso volto ad ottenere
l’ammissione e la successiva omologazione di un accordo di composizione della
crisi da sovraindebitamento, proposto ai sensi dell’art. 6, comma 1, primo
periodo, della legge n. 3 del 2012. L’incidente di legittimità costituzionale,
in particolare, interviene nella fase di valutazione dell’ammissibilità del
ricorso, prevista dall’art. 10 della legge n. 3 del 2012, nel corso della quale
occorre verificare la presenza dei requisiti previsti dagli artt. 7, 8 e 9
della stessa legge, ostativi della successiva fase di omologazione della
proposta.
2.1.– Così come
evidenziato dal tribunale rimettente, il piano proposto ai creditori prevede la
soddisfazione solo parziale dei crediti concorsuali, tutti indistintamente
collocati al chirografo, compresi quelli privilegiati, attesa l’incapienza dei
beni sui quali dovrebbe gravare la relativa prelazione, tale da non consentire
prospettive liquidatorie di maggior favore.
Tra le poste di credito
privilegiate – che il piano propone di soddisfare solo parzialmente – figura
anche l’obbligo di pagare all’erario somme a titolo di imposta sul valore
aggiunto (da ora in poi: IVA), garantite dal privilegio generale mobiliare di
cui all’art. 2752, terzo comma, del codice civile. Ed è siffatta previsione del
piano che provoca il dubbio di legittimità costituzionale sollevato dal
Tribunale di Udine: essa si pone, infatti, in immediato contrasto con la regola
dettata dall’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge n. 3 del 2012,
pregiudicando l’ammissibilità del ricorso.
2.2.– In forza del
citato articolo 7, comma 1, infatti, il piano nel quale si sostanzia l’accordo
di ristrutturazione dei debiti proposto ai creditori può prevedere una
soddisfazione non integrale dei crediti muniti di privilegio, pegno o ipoteca
«allorché ne sia assicurato il pagamento in misura non inferiore a quella
realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale sul ricavato in caso di
liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai
diritti sui quali insiste la causa di prelazione, come attestato dagli
organismi di composizione della crisi». Il medesimo comma 1 del citato articolo
7, al terzo periodo, precisa tuttavia che «[i]n ogni caso, con riguardo ai
tributi costituenti risorse proprie dell’unione europea, all’imposta sul valore
aggiunto ed alle ritenute operate e non versate, il piano può prevedere
esclusivamente la dilazione del pagamento».
A differenza delle
altre ragioni di credito tributarie, in genere soggette a possibile falcidia
alla stessa stregua delle altre poste di credito privilegiate, l’adempimento
legato all’IVA (oltre che dei tributi che costituiscono risorse proprie
dell’Unione e delle ritenute non versate dal sostituto d’imposta), può dunque
essere oggetto solo di dilazione, mai di parziale decurtazione.
3.– Di qui la ritenuta
non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 7, comma 1, primo periodo, della legge n. 3 del 2012.
3.1.– Ad avviso del
rimettente, la disposizione censurata, nella parte in cui nega al debitore sovraindebitato la possibilità di prospettare il pagamento
parziale dell’IVA, a pena di inammissibilità del relativo ricorso, viola l’art.
3 Cost., sotto diversi profili.
Per un verso, perché a
fronte di situazioni omogenee tra loro, discrimina i debitori soggetti alla
procedura prevista dal citato art. 7, comma 1, della legge n. 3 del 2012,
trattati diversamente da quelli legittimati a proporre il concordato
preventivo, rispetto ai quali la falcidia del credito IVA è consentita dal
combinato disposto di cui agli artt. 160 e 182-ter del regio decreto 16 marzo
1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo,
dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa; da
ora in avanti: legge fallimentare).
Per altro verso, la
norma censurata discrimina la pubblica amministrazione (da ora in poi: PA)
chiamata all’esazione del relativo tributo, rispetto agli altri creditori
muniti di prelazione, giacché, a differenza di questi ultimi, non consente alla
stessa, a monte, la possibilità di aderire alla proposta del debitore,
ottimizzando le prospettive di soddisfazione del relativo credito a fronte di
un patrimonio di riferimento che, in caso di liquidazione, non garantisce un
grado di adempimento maggiore rispetto a quello proposto dal relativo piano.
3.2.– La disposizione
censurata sarebbe inoltre in contrasto con l’art. 97 Cost., perché
l’inammissibilità del ricorso che non preveda il pagamento integrale dell’IVA
priva l’amministrazione finanziaria del potere di valutare, in concreto, la
proposta quanto al grado di soddisfazione del credito IVA che la stessa
garantisce in alternativa alla prospettiva liquidatoria, precludendole di
informare la relativa azione a criteri di economicità e massimizzazione delle
risorse, in contrasto con il principio del buon andamento sancito dal parametro
evocato.
4.– Lo scrutinio delle
questioni prospettate dal rimettente rende imprescindibile una preliminare
descrizione del quadro normativo all’interno del quale si colloca la norma
sottoposta all’esame di questa Corte. Ciò avuto riguardo non solo all’insieme
di disposizioni contenute nella legge n. 3 del 2012, ma anche in riferimento
alla disciplina del concordato preventivo prevista dalla legge fallimentare.
Sotto quest’ultimo
versante, in particolare, assumono un rilievo fondamentale le vicende
giuridiche che hanno interessato nel tempo l’istituto della "transazione
fiscale” previsto dall’art. 182-ter della legge fallimentare. Disposizione,
quest’ultima, che nella specie, per un verso funge, in relazione al tema della
falcidia dell’IVA, quale tertium comparationis
della disparità di trattamento denunziata ai sensi dell’art. 3 Cost.; e che,
per altro verso, ha ispirato il contenuto della norma indubbiata, che ne
replicava sostanzialmente i contenuti vigenti all’epoca di introduzione della
stessa.
5.– La legge n. 3 del
2012, radicalmente innovata già nel corso dello stesso anno di introduzione
dall’art. 18 del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure
urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge
17 dicembre 2012, n. 221, ha messo a disposizione dei soggetti non fallibili,
in crisi perché gravemente indebitati o già insolventi, strumenti che
consentano in via preventiva una composizione della crisi da indebitamento o,
in alternativa, una liquidazione, organizzata e complessiva, del relativo
patrimonio. Il tutto in termini di evidente alternatività rispetto alla
disciplina comune del codice civile ed alle regole dell’esecuzione individuale
dettate dal codice di procedura civile, attraverso le quali, in precedenza,
venivano esclusivamente regolati i profili di responsabilità patrimoniale del debitore
non fallibile, titolare o no di attività di impresa.
5.1.– Si tratta,
all’evidenza, di strumenti di chiara matrice concorsuale, strutturati, in esito
alle modifiche apportate dal citato d.l. n. 179 del
2012, in chiave concordataria o meramente liquidatoria ed in termini
sostanzialmente analoghi agli affini istituti contenuti nella legge
fallimentare. Disciplina, quest’ultima, rispetto alla quale la normativa sul
sovraindebitamento, nel suo attuale tenore normativo, mantiene autonomia
sistematica, pur replicandone la filosofia di fondo, individuata nella esigenza
di garantire anche ai soggetti non fallibili, connotati da gravi situazioni
debitorie, l’accesso a misure di carattere esdebitatorio,
alternative alla liquidazione o conseguenziali alla stessa, tali da consentire
loro di potersi ricollocare utilmente all’interno del sistema economico e
sociale, senza il peso delle pregresse esposizioni, pur a fronte di un
adempimento solo parziale rispetto al passivo maturato; e ciò alla stessa
stregua di quanto riconosciuto dall’ordinamento agli imprenditori
assoggettabili a fallimento.
5.2.– La disciplina del
sovraindebitamento appare chiaramente dominata dalla posizione di favore
riconosciuta al debitore, che resta l’unico legittimato ad attivare le procedure
in questione, fatta salva l’ipotesi della conversione di una delle procedure di
composizione preventiva in liquidazione, giusta l’art. 14-quater, comma 1,
della legge in esame. Impostazione, questa, del resto coerente con l’obiettivo
di compensare le distonie di sistema venutesi a creare, nel raffronto
comparativo con i debitori legittimati ad accedere alle procedure concorsuali
disciplinate dalla legge fallimentare, all’indomani della riforma di tale
ultima disciplina, avviata dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5
(Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma
dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80).
Per quel che qui
immediatamente interessa, tra le novità all’epoca apportate all’impianto
originario della legge fallimentare, assumono un rilievo decisivo
l’implementazione dei rimedi preventivi di carattere prevalentemente non
liquidatorio e natura non necessariamente concorsuale; ancora, l’avvenuta
introduzione, in luogo della riabilitazione, del procedimento di esdebitazione
(art. 142 e seguenti della legge fallimentare), tale da consentire al fallito
di ottenere la liberazione dai debiti residui all’esito della relativa
procedura. Elementi di novità, questi, che se, da un lato, hanno permesso di riconsiderare
la fallibilità in termini di vera e propria opportunità, dall’altro hanno
marcato la differenza con il debitore non assoggettabile a fallimento,
all’epoca privo della possibilità di godere di uno strumento di esdebitazione
similare a quello ora previsto dalla legge fallimentare, oltre che di avvalersi
di strumenti concordati di definizione anticipata della crisi da indebitamento.
Di qui l’esigenza di
introdurre nel sistema procedure che, alla stessa stregua di analoghe
esperienze sovranazionali, in alternativa alla esecuzione individuale ed in
deroga al principio secondo il quale delle obbligazioni si risponde con i
propri beni attuali e futuri, attraverso forme concorsuali di soddisfacimento
dei creditori destinate a garantire la par condicio (art. 2741 cod. civ.),
fossero in grado di permettere al debitore civile di conseguire il beneficio
dell’esdebitazione.
6.– La legge n. 3 del
2012, nel suo attuale assetto, prevede due procedure alternative alla
liquidazione complessiva del patrimonio del debitore (art. 14-ter e seguenti),
segnatamente identificate nell’accordo di composizione dei debiti con i
creditori e nel piano del consumatore, entrambe previste dall’art. 6, comma 1.
6.1.– Sotto il versante
dei requisiti soggettivi di legittimazione, la relativa disciplina risulta
destinata ad una ampia e variegata categoria di soggetti interessati, tutti
legati da un comune denominatore, vale a dire la non assoggettabilità al
fallimento o ad altra procedura concorsuale prevista dalla legge fallimentare.
Gli strumenti previsti
dalla legge in oggetto sono, dunque, destinati ad operare sia in favore
dell’impresa commerciale la cui attività si attesta sotto le soglie di
fallibilità; sia dell’imprenditore agricolo, cui si riferisce espressamente
l’art. 7, comma 2-bis, della stessa legge; sia dei titolari di attività
professionale; nonché, in termini generali e di chiusura, dei debitori che
contraggono obbligazioni prescindendo da una attività di impresa o
professionale (definiti "consumatori”, nel delimitato perimetro di riferibilità
della relativa disciplina, ai sensi dell’art. 6, comma 2, lettera b).
6.2.– Dal punto di
vista oggettivo, i rimedi previsti dalla legge n. 3 del 2012, quale che sia la
connotazione tipologica del debitore che intende avvalersene, presuppongono la
medesima situazione di sovraindebitamento, descritta dall’art. 6, comma 2,
della medesima legge n. 3 del 2012 in termini di «perdurante squilibrio tra le
obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte,
che determina la rilevante difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni,
ovvero la definitiva incapacità di adempierle regolarmente». Definizione,
questa, che con gli aggiustamenti del caso (determinati dalla presenza, tra i
debitori coinvolti, anche di soggetti estranei ad attività di impresa) non si
distanzia da quelle (di crisi e insolvenza) che legittimano, per gli
imprenditori commerciali, l’accesso alle procedure concorsuali previste dalla
legge fallimentare.
6.3.– Le
caratteristiche soggettive del debitore recuperano un rilievo dirimente con
riguardo ai profili di accesso alle diverse procedure previste dalla legge n. 3
del 2012.
Mentre il debitore
imprenditore (anche agricolo) e il professionista possono attivare
esclusivamente l’accordo di ristrutturazione e la liquidazione totale dei beni,
il consumatore è legittimato ad attivare anche un piano avente il contenuto
previsto dall’art. 8 della citata legge n. 3 del 2012, che prescinde dalla
deliberazione favorevole dei creditori.
7.– Il rimettente
giudica dell’ammissibilità di un ricorso volto alla omologazione di un accordo
di composizione della crisi. L’oggetto del giudizio principale delimita,
dunque, lo scrutinio della disciplina di riferimento alle connotazioni proprie
di siffatta procedura.
7.1.– L’accordo con i
creditori è strutturato ribadendo, nei suoi tratti essenziali, la struttura del
concordato preventivo previsto dalla legge fallimentare.
L’iniziativa sottesa al
piano, alla stessa stregua di quanto è previsto per la domanda di concordato
preventivo, non ha contenuti necessariamente predeterminati dal legislatore
(art. 8) ed è compatibile con la divisione dei creditori in più classi, cui
accordare trattamenti differenziati (art. 7, comma 1).
Sempre in ragione di un
evidente parallelismo con la disciplina del concordato preventivo dettata nella
legge fallimentare, l’intervento giurisdizionale si scompone in una preventiva
fase di ammissibilità della proposta, cui segue quella di omologazione, sempre
che il piano proposto dal debitore sia stato approvato dalla maggioranza
qualificata dei creditori, pari al 60 per cento dei crediti ammessi al voto.
Approvata dalla maggioranza dei creditori e omologata dal giudice, anche la
proposta resa dal debitore non fallibile vincola tutti i creditori, compresi quelli
dissenzienti e preclude la possibilità di aggredire i beni del debitore ai
creditori titolari di crediti posteriori alla data in cui è stata effettuata la
pubblicità del decreto di ammissione (art. 12, comma 3).
7.2.– Da quanto sopra
evidenziato, emerge con chiarezza come entrambe le procedure abbiano una base
negoziale (giacché passano imprescindibilmente da una deliberazione di assenso,
anche tacito, dei creditori) che non le pone, tuttavia, al di fuori dell’area
delle procedure concorsuali: risultano, infatti, pervase dal principio della
parità di trattamento dei creditori concorsuali; prevedono il blocco delle
iniziative esecutive individuali in danno del patrimonio del proponente (ex
art. 168, comma 1, della legge fallimentare e art. 10, comma 2, lettera c,
della legge n. 3 del 2012); impongono, sin dall’ammissione e sino
all’omologazione, un parziale spossessamento della capacità di disporre dei
beni (art. 167 della legge fallimentare e art. 10, comma 3-bis, della legge n.
3 del 2012), nonché la cristallizzazione degli accessori (ex artt. 55, cosi
come richiamato dall’art. 169, comma 1, della legge fallimentare e 9, comma
3-quater, della legge n. 3 del 2012); infine le procedure suddette risultano
sottoposte alla verifica giurisdizionale, in sede di ammissione e di successiva
omologa, dalla quale ultima promana la vincolatività della decisione per tutti
creditori, anche quelli contrari alla approvazione.
Sia l’accordo proposto
dal debitore non fallibile sia la proposta di concordato, inoltre, si muovono
lungo le direttrici comuni ad entrambi della fattibilità (intesa come effettiva
possibilità di realizzare il programma predisposto dal debitore per giungere
all’adempimento prospettato) e della convenienza della proposta rispetto alla
possibile alternativa liquidatoria; convenienza che diviene regola di giudizio
imprescindibile e non solo momento di valutazione rimesso alla scelta ponderata
della maggioranza dei creditori, allorquando vi sia una contestazione specifica
da parte di un creditore dissenziente in sede di omologa o laddove sia previsto
il pagamento in percentuale di crediti muniti di prelazione.
Soprattutto, pur nella
loro autonomia di sistema, le due procedure in questione sono caratterizzate da
una identica ratio finalistica: limitare il ricorso a procedure esclusivamente
demolitorie, garantendo, in via anticipata, ai creditori una soddisfazione
anche solo parziale governata dalla par condicio nonché, al contempo, al
debitore di godere della esdebitazione senza attendere il corso della liquidazione.
8.– In questa
complessiva cornice di riferimento assume un rilievo essenziale, nell’ottica
che immediatamente interessa lo scrutinio di legittimità sollecitato dal
rimettente, il tema della falcidia dei crediti privilegiati.
8.1.– In entrambe le procedure
viene lasciata al proponente la più ampia libertà nel predisporre il contenuto
della proposta, compresa la parziale soddisfazione dei crediti favoriti da
prelazione e, tra questi, anche di quelli tributari.
L’accordo di
composizione, al pari del concordato preventivo, prevede infatti la possibile falcidiabilità dei crediti privilegiati in deroga al
principio dettato dall’art. 2741 cod. civ., giacché l’art. 7, comma 1, della
legge n. 3 del 2012 riproduce, in parte qua, il contenuto dell’art. 160, comma
2, della legge fallimentare.
In particolare, il
pagamento parziale dei crediti risulta condizionato al positivo riscontro del
favor che la proposta del debitore deve accordare alla soluzione di definizione
preventiva della crisi rispetto alla alternativa liquidatoria, secondo
indicazioni valutative che il legislatore rimette all’attestazione resa da un
terzo, il quale, al di là del profilo relativo alla relativa nomina, deve
comunque svolgere la propria attività in modo indipendente. Mentre nel concordato
preventivo (art. 160, comma 2, della legge fallimentare) siffatta attività
viene demandata ad un professionista terzo che rivesta i requisiti di cui
all’art. 67, comma 3, lettera d), della stessa legge, nella procedura di
accordo, qui considerata, il medesimo ruolo, ai sensi del secondo periodo
dell’art. 7, comma 1, della legge n. 3 del 2012, viene svolto dagli organismi
di composizione della crisi di cui al successivo art. 15.
8.2.– Le due procedure
si disallineano, invece, in relazione al trattamento dei debiti tributari, pur
se entrambe, in linea di principio, consentono la falcidia anche di queste
poste di credito.
8.2.1.– Nel concordato
preventivo, la disciplina di riferimento è attualmente dettata, in forza delle
modifiche apportate dall’art. 1, comma 81, legge 11 dicembre 2016, n. 232
(Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilancio
pluriennale per il triennio 2017-2019), dall’art. 182-ter della legge
fallimentare (la cui rubrica è oggi denominata «Trattamento dei crediti tributari
e contributivi» e non più «Transazione fiscale»).
Prendendo le distanze
dal precedente assetto normativo, così come interpretato dalla giurisprudenza
di legittimità (sul punto, Corte di cassazione, sezioni unite, 27 dicembre
2016, n. 26988 e 13 gennaio 2017, n. 760, che hanno mutato l’orientamento
espresso dalla Corte di cassazione, sezione prima, 4 novembre 2011, n. 22931 e
n. 22932), la legge fallimentare nel suo vigente tenore legittima domande di
concordato preventivo che prevedano la falcidia dei crediti tributari
esclusivamente se proposte attraverso il meccanismo procedurale definito dal
citato art. 182-ter della legge fallimentare. In questa cornice, le proposte di
concordato possono prevedere «il pagamento, parziale o anche dilazionato, dei tributi
e dei relativi accessori amministrati dalle agenzie fiscali, nonché dei
contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza e assistenza
obbligatorie e dei relativi accessori», senza imporre deroghe di sorta quanto
alle tipologie delle poste di credito falcidiabili. Infine, come nel passato,
l’ammissibilità di tali proposte risulta condizionata alla previsione di un
grado di soddisfazione del credito falcidiato «in misura non inferiore a quella
realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso
di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai
diritti sui quali sussiste la causa di prelazione», nonché al rispetto del
rango di riferimento, laddove il relativo credito sia assistito da privilegio.
8.2.2.– Anche la
normativa dettata per l’accordo di composizione della crisi del debitore non
fallibile prevede la generale falcidiabilità dei
crediti tributari, privilegiati e chirografari, ma, a differenza della legge
fallimentare, la esclude in riferimento al regime dell’IVA (oltre che per gli
altri crediti descritti dalla disposizione censurata).
8.3.– Ferma dunque la
regola comune della generale falcidiabilità delle
pretese tributarie, anche se privilegiate, le due discipline trovano un tratto
di differenziazione, per quel che immediatamente interessa, proprio nel regime
previsto per l’IVA.
8.4.– Per meglio
comprendere il tenore di tale differenziazione, tuttavia, occorre soffermarsi
sull’evoluzione che nel tempo ha assunto l’art. 182-ter della legge
fallimentare, alla luce della stratificazione normativa che ne ha riguardato il
disposto, nonché delle letture interpretative che di tale previsione normativa
sono state offerte nel tempo dalla giurisprudenza, anche di questa Corte,
proprio con riferimento al tema della deroga al principio della generale falcidiabilità delle pretese tributarie all’interno della
procedura di concordato preventivo.
8.4.1.– La disposizione
di cui all’art. 182-ter della legge fallimentare è stata inserita all’interno
della legge fallimentare in forza di quanto previsto dall’art. 146, comma 1,
del d.lgs. n. 5 del 2006. È stata poi novellata più volte: in primo luogo
dall’art. 32, comma 5, lettera a), del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185
(Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per
ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale), convertito
con modificazioni nella legge 28 gennaio 2009, n. 2; successivamente dall’art.
29, comma 2, lettera a), del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure
urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività
economica), convertito con modifiche nella legge 30 luglio 2010 n. 122; da
ultimo, per quanto già evidenziato, dall’art. 1, comma 81, della legge n. 232 del
2016, tramite il quale si è pervenuti all’attuale versione, evocata dal
rimettente quale tertium comparationis
della denunziata violazione dell’art. 3 Cost.
8.4.2.– Nella sua
originaria versione, la falcidia dei debiti tributari prevista dalla transazione
fiscale vedeva un limite espresso nelle sole risorse proprie dell’Unione
europea, senza alcun specifico riferimento all’IVA. Ciò malgrado, secondo la
giurisprudenza di legittimità, qualunque concordato preventivo, anche quello
modulato avvalendosi della transazione fiscale, non poteva comunque prevedere
la falcidia dell’IVA; ciò sull’assunto che si trattasse di un tributo
costituente risorsa propria dell’Unione europea (sul punto, le già citate
sentenze della Corte di cassazione, sezione prima, n. 22931 e n. 22932 del
2011).
La novella apportata
dal d.l. n. 185 del 2008 risolse ogni dubbio sotto
questo versante, introducendo espressamente il divieto di falcidia dell’IVA.
Come chiarito dai relativi
lavori preparatori, tale previsione venne giustificata della necessità di non
contravvenire alla normativa comunitaria che vieta «allo Stato membro di
disporre una rinuncia generale, indiscriminata e preventiva al diritto di
procedere ad accertamento e verifica» (Camera dei Deputati, XVI Legislatura,
Relazione illustrativa al disegno di legge n. 1972), secondo i principi
contenuti nella direttiva 2006/112/CE del Consiglio 28 novembre 2006, relativa
al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (da ora in avanti: direttiva
IVA).
Con la novella del
2010, inoltre, il divieto della falcidia previsto per l’IVA e per i tributi
costituenti risorse dell’Unione europea è stato esteso alle ritenute fiscali.
8.4.3.– Da tale
excursus normativo emerge, dunque, che la disciplina prevista per il concordato
preventivo, quanto alle deroghe inerenti al principio generale della falcidiabilità dei crediti di matrice tributaria, recava,
alla data di introduzione della norma censurata, intervenuta con il d.l. n. 179 del 2012, contenuti sostanzialmente identici a
quelli che ancora oggi connotano il portato dell’art. 7, comma 1 della legge n.
3 del 2012. Sia per il concordato preventivo, sia per l’accordo proposto ai
creditori in forza della legge n. 3 del 2012, la falcidia dei crediti tributari
era dunque consentita con l’esclusione di quanto dovuto per IVA, per altri
tributi costituenti risorse dell’Unione europea, per il versamento delle
ritenute fiscali.
Una tale coincidenza di
contenuti trovava ragion d’essere nella chiave tipicamente concordataria
assunta dai rimedi preventivi offerti dalla disciplina dettata dalla legge n. 3
del 2012 in esito alla riforma apportata dal citato d.l.
n. 179 del 2012 (Senato della Repubblica, XVI Legislatura, Relazione
illustrativa al disegno di legge n. 3533); muoveva a conferma, inoltre, della
comune ratio che fondava le due discipline in parte qua, legata alla natura
dell’IVA quale risorsa dell’Unione europea, in quanto tale intangibile in
ordine alla sua integrale riscossione da parte di ciascun Stato membro.
8.5.– Siffatto assetto
normativo è stato ritenuto conforme alla Costituzione da questa Corte (sentenza n. 225 del
2014 e ordinanza
n. 232 del 2015).
Sollecitata al
sindacato di legittimità costituzionale degli artt. 160 e 182-ter della legge
fallimentare, nel contenuto vigente all’epoca, in riferimento all’asserita
violazione dei medesimi parametri evocati dall’ordinanza in esame, in ragione
del divieto di falcidia dell’IVA che tali disposizioni comportavano, questa
Corte ha ritenuto non fondate le relative questioni muovendo, per l’appunto,
dalla «natura dell’IVA come imposta la cui disciplina è fortemente armonizzata
a livello comunitario in quanto "risorsa propria” dell’Unione europea», tale da
giustificare «i vincoli derivanti per gli Stati membri nell’accertamento e
nella riscossione dell’imposta in esame» (sentenza n 225 del
2014).
Nelle citate decisioni
di questa Corte è stato dato fondamentale rilievo alla giurisprudenza della
Corte di giustizia dell’Unione europea in relazione ai limiti imposti al
legislatore nazionale dalla normativa unionale di
riferimento e, in particolare, alla direttiva IVA. Si è così rimarcata l’indisponibilita della relativa disciplina da parte degli
stati membri e dunque «l’incompatibilità con la disciplina comunitaria
dell’IVA» di normative interne dirette a prevedere la «rinuncia generale e
indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili effettuate nel
corso di una serie di periodi imposta» (citata sentenza n. 225 del
2014).
Di qui la scelta di
negare la fondatezza sia all’addotta violazione dell’art. 97 Cost., perché «la
previsione legislativa della sola modalità dilatoria in riferimento alla
transazione fiscale avente ad oggetto il credito IVA deve essere intesa come il
limite massimo di espansione della procedura transattiva compatibile con il
principio di indisponibilità del tributo»; sia alle denunziate discriminazioni
di trattamento tra le categorie di creditori ammessi a partecipare al
concordato preventivo, in presenza di una «disciplina eccezionale attributiva
di un "trattamento peculiare e inderogabile”» quale quella prevista per l’IVA,
tale da deprivare di rilievo anche la questione prospettata in riferimento
all’art. 3 Cost. (così, la medesima sentenza n. 225 del
2014).
8.6.– Rispetto a
siffatto consolidato quadro interpretativo, ha assunto una valenza decisiva la
decisione della CGUE,
sentenza 7 aprile 2016, in causa C–546/14, Degano Trasporti sas, resa
peraltro in esito ad un rinvio pregiudiziale sollevato dallo stesso odierno
tribunale rimettente.
Nell’occasione, il
Tribunale ordinario di Udine si trovava a delibare sull’ammissibilità della
proposta di un concordato preventivo che, per quanto proposto senza transazione
fiscale, prevedeva comunque la falcidia dei crediti tributari e tra questi
dell’IVA, sul presupposto della convenienza della proposta rispetto alla
alternativa liquidatoria. Ritenendo coerente una lettura del dato normativo
interno con i termini di tale proposta, il tribunale interrogò la Corte di
Lussemburgo in ordine alla compatibilità di una siffatta normativa con l’art.
4, paragrafo 3, del Trattato sull’unione europea, firmato a Maastricht il 7
febbraio 1992, entrato in vigore il 1° novembre 1993 (da ora in poi: TUE),
nonché gli artt. 2, 250, paragrafo 1, e 273 della direttiva IVA, dai quali
emerge che gli Stati membri hanno l’obbligo di adottare tutte le misure
legislative e amministrative atte a garantire il prelievo integrale dell’IVA
nel loro territorio.
La CGUE, dopo aver
ricordato che, nell’ambito del sistema comune dell’IVA, gli Stati membri
beneficiano di una certa autonomia di intervento, ha altresì ribadito che «[t]ale libertà è tuttavia limitata dall’obbligo di garantire
una riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione e da quello di non
creare differenze significative nel modo di trattare i contribuenti, e questo
sia all’interno di uno degli Stati membri che nell’insieme dei medesimi».
Muovendo da tale
indicazione di principio, la Corte di Lussemburgo ha quindi ritenuto che
«l’ammissione di un pagamento parziale di un credito IVA, da parte di un
imprenditore in stato di insolvenza, nell’ambito di una procedura di concordato
preventivo come prevista dalla normativa nazionale di cui al procedimento
principale, non debba ritenersi contraria all’obbligo degli Stati membri di
garantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio nonché la
riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione».
Con la decisione in
oggetto, la CGUE, in particolare, ha attribuito rilievo alle connotazioni della
procedura nel corso della quale viene vagliata tale proposta di parziale soddisfazione
del credito IVA, rimarcando che il concordato preventivo è soggetto «a
presupposti di applicazione rigorosi, allo scopo di offrire garanzie per quanto
concerne, in particolare, il recupero dei crediti privilegiati e pertanto dei
crediti IVA. In tal senso, anzitutto, la procedura di concordato preventivo
comporta che l’imprenditore in stato di insolvenza liquidi il suo intero
patrimonio per saldare i propri debiti. Se tale patrimonio non è sufficiente a
rimborsare tutti i crediti, il pagamento parziale di un credito privilegiato
può essere ammesso solo se un esperto indipendente attesta che tale credito non
riceverebbe un trattamento migliore nel caso di fallimento del debitore. La
procedura di concordato preventivo appare quindi tale da consentire di
accertare che, a causa dello stato di insolvenza dell’imprenditore, lo Stato
membro interessato non possa recuperare il proprio credito IVA in misura
maggiore» (paragrafi 23 e 24). Per altro verso, la decisione in questione mette
in evidenza che la proposta di concordato preventivo è soggetta al voto di
tutti i creditori ai quali il debitore non proponga un pagamento integrale del
loro credito e «che deve essere approvata da tanti creditori che rappresentino
la maggioranza del totale dei crediti dei creditori ammessi al voto» (paragrafo
8): nell’assunto argomentativo seguito dalla Corte di Lussemburgo, la relativa
procedura offre, dunque, allo Stato membro interessato «la possibilità di
votare contro una proposta di pagamento parziale di un credito IVA qualora, in
particolare, non concordi con le conclusioni dell’esperto indipendente»
(paragrafo 26); laddove, poi, la proposta venga omologata con il voto contrario
dell’amministrazione, consente comunque allo Stato membro interessato di
contestare ulteriormente, mediante opposizione, un concordato che preveda un
pagamento parziale di un credito IVA, favorendo il controllo giudiziale sul
punto.
La CGUE ha quindi
concluso ritenendo che «l’ammissione di un pagamento parziale di un credito
IVA, da parte di un imprenditore in stato di insolvenza, nell’ambito di una
procedura di concordato preventivo […] non costituisce una rinuncia generale e
indiscriminata alla riscossione dell’IVA, non è contraria all’obbligo degli
Stati membri di garantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio,
nonché la riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione» (paragrafo
28).
8.6.1.– Conclusione,
questa, ribadita anche nelle relative argomentazioni della successiva
decisione, Corte
di Giustizia dell’Unione europea, 17 marzo 2017, in causa C-493/15, Agenzia
delle entrate contro Marco Identi, resa in esito
alla questione pregiudiziale sollevata dalla Corte di cassazione, sezione
quarta, con ordinanza del 1° luglio 2015, n. 13542, relativa alla compatibilità
con il diritto dell’Unione europea delle norme dettate dalla legge fallimentare
(artt. 142 e seguenti) in tema di esdebitazione, nella parte in cui consentono
la liberazione del fallito anche con riferimento alla parziale soddisfazione
del debito IVA.
8.7.– Tali decisioni
della Corte di Lussemburgo hanno determinato un radicale cambio di tendenza
quanto al quadro normativo e interpretativo di riferimento sul tema della
falcidia del credito IVA all’interno della procedura di concordato preventivo.
In particolare, hanno
costituito la ragione fondante dell’attuale tenore dell’art. 182-ter della
legge fallimentare, così come modificato dall’art. 1, comma 81, della legge n.
232 del 2016, in forza del quale, con riguardo alle procedure promosse dal 1°
gennaio 2017 (data di vigenza della novella apportata dalla legge n. 232 del
2016), le domande di concordato preventivo non trovano più limiti quanto al
tipo di tributi possibile oggetto di falcidia: l’odierna previsione legislativa
di riferimento (l’art. 182-ter della legge fallimentare, per l’appunto),
l’unica che attualmente risulta chiamata a regolare proposte di concordato
destinate ad incidere sulle prospettive di soddisfazione del credito
tributario, non riproduce più le originarie deroghe.
8.8.– Giova infine
segnalare che, con il decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 (Codice della
crisi di impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017,
n. 155; da ora in avanti: CCII), il legislatore ha da ultimo operato una
revisione complessiva della disciplina relativa alle procedure concorsuali,
all’interno della quale risulta anche ridisegnata la normativa relativa alle
crisi da sovraindebitamento, attualmente disciplinata dalla legge n. 3 del
2012.
Sono diverse le novità
offerte dal CCII, comunque estranee al giudizio principale (e dunque anche
all’odierno incidente di illegittimità costituzionale), perché operative solo
per le procedure instaurate dopo il 15 agosto 2020 (artt. 389, comma 1, e 390,
commi 1 e 2, del citato d.lgs. n. 14 del 2019).
Tra queste, per quel
che qui direttamente interessa, va rimarcato che le nuove disposizioni sul
sovraindebitamento contenute nel CCII, sia con riferimento al concordato minore
(ovverosia il vecchio accordo di composizione, ora disciplinato dagli artt. 74
e seguenti del citato decreto), sia in relazione alla procedura di
"ristrutturazione dei debiti del consumatore” (l’originario piano del
consumatore, oggi regolato dagli artt. da 67 a 73), prevedono, una volta
entrata in vigore, il possibile pagamento parziale dei crediti privilegiati e
tra questi anche di quelli tributari, senza più riprodurre il divieto di
falcidia, attualmente previsto dalla norma censurata. Ciò sempre che la
proposta sia maggiormente favorevole rispetto alla prospettiva liquidatoria, in
termini non diversi da quanto previsto dall’attuale disciplina del concordato
preventivo relativamente alla falcidia dei crediti privilegiati (attualmente ai
sensi degli artt. 160 e 182-ter della legge fallimentare, destinati ad essere
sostituiti dagli artt. 85 e 88 del CCII).
9.– Venendo allo
scrutinio delle censure prospettate dal rimettente, giova in primo luogo
evidenziare che tale disamina non risulta nel caso impedita da pregiudiziali
profili di inammissibilità.
9.1.– Le argomentazioni
spese dal rimettente sulle connotazioni del giudizio principale, destinate ad
incidere sulla rilevanza della questione, sono da ritenersi compiute e
plausibili.
In particolare, il
rimettente si è soffermato adeguatamente sulle condizioni di ammissibilità del
ricorso, ricavabili dal complessivo tenore degli artt. 7, 8 e 9 della legge n.
3 del 2012, approfondendo in particolare i termini afferenti le precondizioni
previste dal comma 2 dell’art. 7, negandone la ricorrenza. In questa ottica, il
giudice a quo rimarca con puntualità il rilievo ostativo che deriva
dall’applicabilità della disposizione censurata rispetto all’ulteriore corso
della procedura posta al suo giudizio.
9.2.– Sempre
preliminarmente, va altresì rimarcato che il rimettente ha provveduto ad un
pregiudiziale scrutinio di compatibilità della disposizione censurata con il
diritto dell’Unione europea e, in particolare, con l’art. 273 della direttiva
IVA; ciò in adesione alla giurisprudenza di questa Corte, in forza della quale
il giudizio sulla compatibilità della norma censurata con il diritto
dell’Unione europea costituisce un prius logico e
giuridico rispetto al sindacato di legittimità costituzionale in via incidentale,
poiché ne mette in discussione la stessa applicabilità nel giudizio principale,
così da incidere sulla rilevanza della questione (ex multis,
da ultimo, ordinanza
n. 47 del 2017).
9.2.1.– Nell’ordinanza,
dopo un puntuale confronto con gli orientamenti maturati nella giurisprudenza
interna successivamente alle sentenze
Degano Trasporti sas e Agenzia
delle entrate contro Marco Identi della Corte di
Lussemburgo, si esclude che dall’art. 273 della direttiva IVA, così come
interpretata dalla CGUE, possa emergere un principio chiaro e incondizionato,
suscettibile di applicazione diretta, che si ponga in immediata antinomia con
la norma censurata tale da portare alla non applicazione della stessa.
9.2.2.– Le motivazioni
spese dal rimettente in parte qua non solo non possono ritenersi implausibili,
ma rivelano anche una condivisibile ricostruzione del dato normativo di
riferimento.
Con la sentenza
Degano Trasporti sas, la Corte di Lussemburgo non ha affermato
l’incompatibilità con il diritto dell’Unione in ambito IVA dell’allora vigente
art. 182-ter della legge fallimentare, nella parte in cui imponeva il divieto
di falcidia dell’IVA; piuttosto, ha ritenuto la compatibililità
con tale diritto di una disposizione interna (l’art. 160, comma 2, della legge
fallimentare), che tale falcidia finiva per consentire (nella lettura che ebbe
a darne il giudice che sollevò la questione pregiudiziale).
Il quadro normativo
offerto dalla disciplina dell’Unione europea in tema di IVA conseguente alle
letture che ne hanno dato le sentenze soprarichiamate non mette, peraltro, in
discussione il principio fondamentale che si ricava in parte qua dalla direttiva
IVA, ovverosia l’esigenza di perseguire l’obiettivo di una riscossione
effettiva e integrale dell’IVA; né, ancora, intacca la discrezionalità lasciata
agli stati membri nell’individuare gli strumenti più funzionali al fine in
oggetto.
Da tali decisioni, piuttosto,
emerge che non sono incompatibili con l’esigenza di garantire una riscossione
effettiva dell’IVA norme interne che, al verificarsi di determinati presupposti
procedurali, consentano una parziale riscossione del dovuto, così da garantire
una maggiore soddisfazione degli interessi dell’Unione europea rispetto alla
alternativa liquidatoria.
Tanto porta a ritenere
compatibile con il diritto dell’Unione l’attuale disposizione dettata in
materia di concordato preventivo, come ora formulata in esito alla novella
apportata nel 2016, senza che ciò determini, al contempo, l’incompatibilità
della scelta, di segno opposto, assunta dal legislatore nazionale nella
procedura di sovraindebitamento: quest’ultima, infatti, ben potrebbe costituire
una delle vie attraverso il quale lo Stato membro intende perseguire
l’obiettivo della piena riscossione del tributo imposto dal diritto dell’Unione
europea.
9.3.– Il giudice a quo
ha anche escluso di poter accedere ad una interpretazione orientata del dato
censurato conforme al diritto dell’Unione, in ragione della chiara ed univoca
lettera dell’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge n. 3 del 2012, che non
permetterebbe una simile lettura.
9.3.1.– Anche questa
valutazione deve ritenersi condivisibile nel merito.
Sul piano letterale,
l’uso della locuzione «in ogni caso» non consente all’interprete alcun margine
di manovra, precludendo la via dell’interpretazione conforme della disposizione
interna ai principi e agli obiettivi espressi nella direttiva di riferimento,
non praticabile senza stravolgerne il significato letterale. Ciò in linea, del
resto, con la giurisprudenza della CGUE, in forza della quale «l’obbligo per il
giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una direttiva
nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme pertinenti del diritto
nazionale trova un limite nei principi generali del diritto e non può servire a
fondare un’interpretazione contra legem del diritto
nazionale» (Corte di Giustizia dell’Unione europea, 24 gennaio 2012, Grande
Sezione, in causa C-282/10, Maribel Dominguez).
9.4.– Non diversamente,
il tenore letterale della norma censurata, nel suo radicale rigore, preclude a
monte, la possibilità sia di accedere a soluzioni interpretative
costituzionalmente orientate; sia a letture alternative del complessivo quadro
normativo di riferimento che, in una ottica di sistema, consentano di
estendere, alle procedure di definizione preventiva del sovraindebitamento del
debitore non fallibile, la specifica disciplina attualmente prevista per il
concordato preventivo.
10.– Nel merito, le
questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Udine devono ritenersi fondate
in riferimento all’art. 3 Cost.
10.1.– Si è più volte
ribadito il parallelismo che corre tra l’accordo di composizione della crisi da
indebitamento, previsto dalla normativa censurata e il concordato preventivo
disciplinato dalla legge fallimentare.
Il primo riproduce i
tratti sostanziali della seconda procedura, ma soprattutto ne ribadisce la
filosofia di fondo. Pur a fronte di una chiara disomogeneità di interessi,
quanto ai soggetti che possono accedervi, in entrambe le procedure viene
consentita l’esdebitazione di chi è gravemente indebitato, evitando l’azione
liquidatoria, frazionata o complessiva, del relativo patrimonio e favorendo, al
contempo, una immediata ricollocazione del debitore all’interno del circuito
economico e sociale, senza il peso delle esposizioni pregresse.
11.– In questo quadro
di chiara assonanza, assumono importanza primaria le previsioni che attengono
al regime previsto per i crediti privilegiati e tra questi, per quelli di
matrice tributaria.
La regola che domina le
due procedure è quella della falcidiabilità di tali
poste creditorie: la pretesa alla soddisfazione integrale del credito munito di
prelazione, anche di natura tributaria, può recedere sull’altare della minor
convenienza della alternativa liquidatoria del relativo patrimonio di
riferimento.
Infatti, gli artt. 160,
comma 2, e 182-ter, comma 1, della legge fallimentare, per un verso, e l’art.
7, comma 1, della legge n. 3 del 2012, per altro verso, riproducono
pedissequamente lo stesso schema: si deroga al principio di cui all’art. 2741
cod. civ. e si determina il conseguenziale sacrificio della posizione del
creditore solo perché, nel realizzare la finalità esdebitatoria,
viene dato comunque rilievo imprescindibile alle prospettive di effettiva
soddisfazione del credito munito di prelazione, che devono essere maggiori
rispetto a quella potenzialmente derivante dalla liquidazione dei beni coperti
dalla prelazione.
Il tutto all’interno di
percorsi procedurali comunque rimessi alla scelta deliberativa e decisiva dei
creditori, subordinati a valutazioni estimative di assoluta serietà quanto alla
incapienza dei beni da liquidare a garanzia del dovuto; soggetti al controllo
giurisdizionale, utile a verificare la fattibilità della proposta e a definire
anche i possibili conflitti concernenti la convenienza della stessa.
11.1.– La falcidia
delle posizioni garantite da prelazione, del resto, costituisce un passaggio
essenziale sul versante della funzionalità delle procedure preventive che
mirano alla esdebitazione: il pagamento integrale dei crediti privilegiati,
compresi quelli tributari, finirebbe infatti per vanificare il vantaggio legato
alla definizione preventiva della crisi per quelle situazioni che, come
ordinariamente accade, non risultano garantite da una capienza patrimoniale che
consenta un integrale ripianamento delle esposizioni favorite dalla prelazione.
Di qui il rilievo che
occorre ascrivere, in tali ambiti procedurali, alla regola afferente alla
falcidia dei crediti privilegiati.
11.2.– Trasferendo le
precedenti argomentazioni allo specifico settore delle pretese tributarie, non
può non rimarcarsi, inoltre, che, in questo ambito, la possibilità di operare
la falcidia, compensata dalla maggiore soddisfazione garantita rispetto alla
alternativa liquidatoria, costituisce diretta espressione dei canoni di
economicità ed efficienza ai quali deve conformarsi, ai sensi dell’art. 97
Cost., l’azione di esazione della PA.
La possibilità di
prospettare un pagamento anche parziale dell’obbligazione tributaria, pur se
assistita da prelazione, a fronte della grave situazione debitoria del
proponente, non adeguatamente supportata da un patrimonio tale da assicurare l’effettività
della riscossione anche coattiva della relativa pretesa, garantisce il male
minore, sia per il privato debitore, sia per l’amministrazione finanziaria: il
primo, attraverso tale decurtazione, può evitare azioni liquidatorie
complessive, se del caso anche protraendo l’attività economica sino a quel
momento svolta, acquisendo anche il diritto alla esdebitazione; la seconda
realizza il miglior risultato possibile alla luce della condizioni patrimoniali
e finanziarie del contribuente, evitando di far ricadere sulla comunità l’onere
delle conseguenze finanziarie correlate ad una escussione fortemente posta in
dubbio quanto alle effettive possibilità di recuperare il credito in termini
più favorevoli rispetto al quantum proposto dal debitore.
12.– Rispetto alla
generale falcidiabilità dei crediti privilegiati e
tra questi anche dei crediti di natura tributaria, il trattamento dell’IVA, per
quel che qui direttamente interessa, crea un immediato ed ingiustificato
disallineamento tra le procedure in discorso, come rimarcato dal giudice
rimettente.
12.1.– Vale ribadire,
peraltro, che in origine le disposizioni di riferimento coincidevano. Anzi,
proprio il parallelismo tra le due procedure era stata la ragione fondante
della disposizione censurata: ricostruite in chiave concordataria, le procedure
preventive di definizione della crisi e dell’insolvenza del debitore civile non
potevano che riprodurre il divieto di falcidia dell’IVA, alla stessa stregua
dell’allora vigente ed identica norma dettata dall’art. 182-ter, comma 1, della
legge fallimentare, per il concordato preventivo.
Diversamente si sarebbe
creata una irrazionale distonia comportante una illegittimità costituzionale
opposta a quella qui denunciata.
12.2.– La ratio della
deroga, rispetto alla regola generale della falcidiabilità
delle poste di credito privilegiate, contenuta nella disposizione censurata,
può dunque essere ricostruita solo guardando alla norma che ne ha ispirato il
contenuto: anche per la norma censurata, dunque, assumono valenza dirimente gli
effetti attribuiti alla qualificazione dell’IVA come risorsa propria
dell’Unione europea.
Secondo una prima
impostazione, asseverata anche da questa Corte (con la citata sentenza n. 225 del
2014) in relazione al tenore originario dell’art. 182-ter della legge
fallimentare, il legislatore interno, tenuto al prelievo integrale di detta
risorsa tributaria, non avrebbe potuto introdurre disposizioni destinate ad
incidere su tale obiettivo.
La falcidiabilità,
dunque, doveva ritenersi consentita, nelle procedure concorsuali con finalità esdebitatorie, in via generale per tutti i tributi di
esclusiva rilevanza interna; ciò non valeva, invece, per i tributi costituenti
risorse dell’Unione (come previsto nell’originaria formulazione dell’art.
182-ter della legge fallimentare), e tra questi, per l’IVA (come precisato
successivamente con la novella apportata dal d.l. n.
185 del 2008), rispetto alla quale era consentita la sola dilazione del relativo
adempimento, per scelta imposta da obblighi sovrannazionali, non derogabili dal
legislatore italiano.
Il tutto alla luce di
una interpretazione del diritto dell’Unione europea in forza della quale anche
la falcidia concorsuale del credito IVA altro non avrebbe rappresentato se non
una indebita rinuncia integrale al prelievo di una risorsa propria dell’Unione
europea, così da replicare i vizi che, sotto tale profilo, avevano portato
l’Italia a patire il giudizio di incompatibilità rispetto alle indicazioni
derivanti dal diritto dell’Unione europea, con riferimento ad altre
disposizioni di legge sempre incidenti sull’IVA (valga, a tal fine, il
riferimento a Corte di Giustizia dell’Unione europea, 17 luglio 2008, in causa
C-132/06, Commissione della comunità europea contro Repubblica italiana,
relativa al condono "tombale” previsto dalla legge 27 dicembre 2002, n. 289
recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato», resa a ridosso della modifica normativa apportata nel 2008
all’art. 182-ter della legge fallimentare)
12.3.– Con la citata sentenza
Degano Trasporti sas, la Corte di Lussemburgo ha mutato, però, tale
presupposto interpretativo di riferimento, ritenendo compatibile una norma
interna (l’art. 160, comma 2, della legge fallimentare) che, inserita in un
percorso sottoposto al sindacato giurisdizionale, consenta un pagamento
parziale del credito IVA qualora sia accertato giudizialmente che tale
soddisfazione garantisca comunque una acquisizione di risorse maggiore rispetto
alla alternativa liquidatoria e venga consentito all’amministrazione
interessata di esprimere parere contrario alla proposta del debitore oltre che
di opporsi giudizialmente alla stessa, contestandone la convenienza.
12.4.– Tale decisione,
come già evidenziato, ha costituito la ratio ispiratrice della novella
apportata dalla legge n. 232 del 2016 alla disciplina del trattamento dell’IVA
nel concordato preventivo, in forza della quale oggi la falcidiabilità
delle pretese tributarie, anche garantite da prelazione, non vede più deroghe
espresse.
Per altro verso, assume
rilievo anche in relazione all’odierno scrutinio di legittimità costituzionale,
perché, a posteriori, ha tolto ragionevolezza alla scelta adottata dal
legislatore con la norma censurata nel definire l’IVA intangibile all’interno
delle procedure alternative alla liquidazione prevista dalla legge n. 3 del
2012.
13.– La differenza di
disciplina che oggi caratterizza il concordato preventivo e l’accordo di
composizione dei crediti del debitore civile non fallibile dà luogo ad una
ingiustificata e irragionevole disparità di trattamento tale da concretare
l’addotta violazione dell’art. 3 Cost.
In particolare, le
modifiche da ultimo citate, innovando solo in relazione alla disciplina del
concordato preventivo, hanno determinato quella discrasia di sistema che in
origine il legislatore aveva inteso evitare ricostruendo il contenuto della
norma dettata per il sovraindebitamento del debitore non fallibile in termini
sostanzialmente riproduttivi della disciplina all’epoca vigente dettata
dall’art. 182-ter della legge fallimentare.
13.1.– Disparità,
questa, che tocca in primo luogo i debitori interessati dalle procedure in
questione, giacché non v’è motivo per trattare diversamente, sotto questo
profilo, i debitori legittimati ad avvalersi della procedura di concordato
preventivo in quanto assoggettabili a fallimento: la ragione di fondo che
giustifica la falcidia dell’IVA, al pari di quella di tutte le altre poste di
credito privilegiate e tributarie, non può porsi in termini differenziati per
tutte le categorie di debitori legittimati ad avvalersi di una procedura
concorsuale esdebitatoria. E ciò a prescindere dal
tipo di attività esercitata, imprenditoriale o no, nonché dalle dimensioni di
tale attività ed all’incidenza economica che ad esse si correla, trattandosi di
elementi indifferenti rispetto all’obiettivo perseguito dalle relative
procedure di definizione della crisi.
Semmai, sotto
quest’ultimo versante, l’ordinamento dovrebbe dare il giusto rilievo al fatto
che l’intera normativa dettata in tema di sovraindebitamento è stata costruita
in termini di beneficio riconosciuto a tale vasta categoria di debitori, che
non raramente maturano la relativa esposizione in una posizione di debolezza o
comunque di asimmetria negoziale con i titolari delle relative poste
creditorie.
13.2.– Del resto, la
differenza di trattamento sottolineata dal rimettente, trova conferma
inequivoca nella normativa prevista per gli imprenditori agricoli gravemente
indebitati.
Questi ultimi, in
ragione di quanto previsto dall’art. 23, comma 43, del decreto legge 6 luglio
2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria),
convertito con modificazioni nella legge 15 luglio 2011, n. 111, sono
legittimati ad avvalersi degli accordi di ristrutturazione dei debiti previsti
dall’art. 182-bis della legge fallimentare, ai quali risulta estesa l’applicabilità
del successivo art. 182-ter della legge fallimentare, con conseguente possibile
falcidiabilità dei debiti tributari, compresa l’IVA.
Al contempo gli stessi
soggetti possono attivare anche l’accordo di composizione della crisi oggetto
della odierna censura (art. 7, comma 2-bis, della legge n. 3 del 2012),
rispetto al quale, tuttavia, la norma censurata impone il divieto di falcidia
dell’IVA.
A fronte dunque di una
situazione oggettiva sostanzialmente simile (perché il sovraindebitamento non si
distanzia in termini decisivi dai concetti di crisi e insolvenza che
legittimano lo strumento di cui all’art. 182-bis della legge fallimentare), gli
stessi soggetti possono o no avvalersi della falcidia IVA a seconda della
procedura che scelgono di attivare.
13.3.– Piuttosto, la
ragionevole sostenibilità della differenza di trattamento in questione va
misurata guardando alla ratio sottesa al divieto di falcidia dell’IVA; ratio,
come più volte ribadito, ascritta alla ritenuta indisponibilità del relativo gettito
da parte del legislatore interno, siccome assertivamente imposta dal diritto
dell’Unione europea.
Siffatto assunto di
partenza, tuttavia, è stato decisamente posto in discussione dalla più volte
richiamata sentenza
Degano Trasporti sas con considerazioni che, seppur rivolte alla disciplina
del concordato preventivo (nel suo assetto antecedente alla riforma apportata
dalla legge n. 232 del 2016), possono trasporsi in direzione della norma
censurata, considerate le più volte rimarcate affinità che connotano le due
procedure di riferimento: una volta chiarito che la normativa euro unitaria non
impone sempre e comunque l’integrale riscossione della risorsa, anche
nell’accordo di composizione della crisi previsto dalla legge n. 3 del 2012
perde coerenza quel giudizio di intangibilità del credito IVA che, in origine,
ha rappresentato la ratio del divieto di falcidia della relativa pretesa
tributaria.
Di qui l’attuale
ingiustificata dissonanza di disciplina che sussiste, in parte qua, tra le due
procedure, non essendovi motivi che, secondo il canore della ragionevolezza,
legittimino il trattamento differenziato cui risultano assoggettati i debitori
non fallibili rispetto a quelli che possono accedere al concordato preventivo.
13.4.– L’attuale
assetto normativo, inoltre, crea diseguaglianze ingiustificate a caduta anche
con riferimento agli stessi creditori che partecipano all’accordo di
composizione della crisi del debitore non fallibile.
Se per un verso – come
evidenziato anche da questa Corte con la sentenza n. 225 del
2014 – prima di tale assetto, era l’indisponibilità dell’IVA, determinata
dalla riconducibilità del tributo alle risorse proprie dell’Unione europea, che
finiva per porre questa imposta in una posizione di assoluta intangibilità
rispetto a tutte le altre voci di credito privilegiate (le quali, anche se di
rango poziore, finivano per risultare posposte a siffatta pretesa tributaria);
per altro verso, oggi, a seguito del richiamato orientamento della CGUE, tale
situazione di preferenza non ha più ragion d’essere.
13.5.– Né pare che la
violazione dell’art. 3 Cost. possa ritenersi esclusa muovendo dall’assunto in
forza del quale la regola della falcidiabilità
dell’IVA, ora ricavabile dall’art. 182-ter della legge fallimentare,
costituirebbe un beneficio accordato ai debitori fallibili in deroga al
principio generale dell’indisponibilità della obbligazione tributaria. Ciò al
fine di richiamare, in ragione di tale condizione presupposta, la
giurisprudenza di questa Corte in forza della quale un trattamento diverso di
situazioni analoghe non è di per sé illegittimo allorquando quello più
favorevole, evocato quale momento di comparazione nell’ottica della denunziata
disparita di trattamento, assuma i caratteri della eccezionalità (ex plurimis, da ultimo, sentenze n. 177
e n. 153 del
2017 e n.
111 del 2016).
13.5.1.– Tale assunto
non è condivisibile.
Non convince l’affermazione
di principio che assegna natura eccezionale alla regola della falcidiabilità dell’IVA, attualmente prevista dall’art.
182-ter della legge fallimentare, anche in sede di concordato preventivo (sul
punto, le sentenze della Corte di cassazione, sezioni unite, n. 760 del 2017 e
n. 26988 del 2016).
A ben vedere tale
ultima disposizione non prevede letteralmente la possibilità di procedere ad
una soddisfazione parziale dell’IVA; piuttosto, non replica più l’originale
divieto di falcidia previsto, tra gli altri, per tale tributo, in un quadro di
generale falcidiabilità dei crediti tributari,
chirografari e privilegiati.
L’art. 182-ter della
legge fallimentare non detta, dunque, una specifica regola che possa, in via di
eccezione, derogare ad un principio generale. Costituisce, per contro, diretta
espressione di una indicazione generale, altro non rappresentando che una
diretta declinazione, in relazione alle pretese tributarie, della regola della falcidiabilità dei crediti privilegiati, prevista dall’art.
160, comma 2, della stessa legge in tema di concordato preventivo. Principio,
quest’ultimo, che, come già rimarcato, deve ritenersi espressione tipica delle
procedure concorsuali, maggiori o minori, con finalità esdebitatoria,
tanto da risultare replicato anche per gli strumenti di definizione anticipata
delle situazioni di sovraindebitamento prevista dalla legge n. 3 del 2012.
14.– Di qui la
fondatezza della questione posta in riferimento all’art. 3 Cost. Resta
assorbita la censura riferita all’art. 97 Cost.
15.– L’accoglimento
della questione porta, in coerenza, all’ablazione delle parole «all’imposta sul
valore aggiunto» dal terzo periodo del comma 1 dell’art. 7 della legge n. 3 del
2012.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge 27 gennaio
2012, n. 3 (Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di
composizione delle crisi da sovraindebitamento), limitatamente alle parole:
«all’imposta sul valore aggiunto».
Così deciso in Roma,
nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre
2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI,
Presidente
Augusto Antonio
BARBERA, Redattore
Roberto MILANA,
Cancelliere
Depositata in
Cancelleria il 29 novembre 2019.