SENTENZA N. 9
ANNO 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Alessandro CRISCUOLO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 10 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso dal Tribunale ordinario di Verona, sezione fallimentare, sul ricorso proposto da V.R. ed altri nella qualità di soci della Termosanitaria Righetti sas, con ordinanza del 5 novembre 2015, iscritta al n. 83 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2016.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 novembre 2016 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli.
Ritenuto in fatto
1.− Nel corso di due riunite procedure, rispettivamente, prefallimentare e concordataria, relative ad una società in accomandita semplice, i soci della quale avevano presentato istanza di ammissione a concordato preventivo, successiva a quella di fallimento proposta da due suoi creditori, l’adito Tribunale ordinario di Verona, sezione fallimentare, ha dichiarato, con decreto, l’inammissibilità dell’istanza di concordato (per inosservanza dei correlativi prescritti obblighi informativi) e con la contestuale ordinanza indicata in epigrafe – premesso che, nella specie, ancorché risultassero acclarati i presupposti della insolvenza, «la dichiarazione di fallimento è[ra] preclusa dal decorso del termine annuale previsto dall’art. 10 L.F.» − ha ritenuto, di conseguenza, rilevante, ed ha per ciò sollevato questione di legittimità costituzionale del predetto art. 10 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, «nella parte in cui non consente la dichiarazione di fallimento anche oltre il termine di un anno dalla cancellazione del registro delle imprese, qualora il rispetto di tale termine sia impedito dalla proposizione di una domanda di concordato preventivo ed il conseguente procedimento si sia concluso dopo la scadenza del termine annuale, con la dichiarazione di inammissibilità della domanda (come nel caso di specie) o comunque con la dichiarazione di revoca dell’ammissione o la mancata approvazione della proposta o la reiezione all’esito del giudizio di omologa».
Secondo il rimettente, sarebbe, in particolare, infatti, violato l’art. 3 Cost., per essere «intrinsecamente irragionevole la scelta normativa di riconoscere al debitore, durante la pendenza del termine previsto dall’art. 10, la possibilità di presentare un’istanza di concordato preventivo, e di frapporre quindi un ostacolo giuridico alla dichiarazione di fallimento, senza prevedere la possibilità della dichiarazione di fallimento nell’ipotesi in cui quell’istanza si riveli inammissibile o comunque infruttuosa, ma solo dopo la scadenza del suddetto termine».
Sarebbe altresì violato l’art. 24 Cost., in quanto la disposizione denunciata finirebbe per «frustrare, senza adeguata giustificazione, il diritto di azione del creditore istante, che si vede preclusa la possibilità di ottenere la dichiarazione di fallimento, pur in presenza di un’iniziativa tempestiva, per un ostacolo giuridico rimesso all’iniziativa della controparte».
2.− È intervenuto, in questo giudizio, il Presidente del Consiglio dei ministri, per il tramite dell’Avvocatura generale dello Stato, che ha eccepito l’inammissibilità o, in subordine, la non fondatezza della questione.
Considerato in diritto
1.– Nel contesto di una vicenda processuale caratterizzata dalla intervenuta riunione di una procedura di ammissione a concordato preventivo ed altra già instaurata procedura prefallimentare relativa alla medesima società, il Tribunale ordinario di Verona, sezione fallimentare – rilevata, e dichiarata, l’inammissibilità della istanza previamente esaminata di ammissione al concordato, in data, peraltro, di oltre un anno successiva a quella di cancellazione della società dal registro delle imprese – ha ritenuto preclusa la dichiarazione di fallimento della debitrice, nonostante la pur accertata sua insolvenza, per l’ostacolo a ciò frapposto dalla norma di cui all’art. 10 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), come sostituito dall’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80). E di detta norma ha denunciato, pertanto, con l’ordinanza in epigrafe, il contrasto con gli articoli 3 e 24 della Costituzione, nella parte, appunto, in cui «non consente la dichiarazione di fallimento anche oltre il termine di un anno dalla cancellazione del registro delle imprese, qualora il rispetto di tale termine sia impedito dalla proposizione di una domanda di concordato preventivo ed il conseguente procedimento si sia concluso dopo la scadenza del termine annuale, con la dichiarazione di inammissibilità della domanda (come nel caso di specie) o comunque con la dichiarazione di revoca dell’ammissione o la mancata approvazione della proposta o la reiezione all’esito del giudizio di omologa».
2.− L’art. 10 del r.d. n. 267 del 1942 – che, nella sua formulazione originaria, stabiliva che «l’imprenditore che per qualunque causa, ha cessato l’esercizio dell’impresa, può essere dichiarato fallito entro un anno dalla cessazione dell’impresa, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo» – è stato, a suo tempo, dichiarato costituzionalmente illegittimo «nella parte in cui non prevede[va] che il termine di un anno dalla cessazione dell’esercizio dell’impresa collettiva per la dichiarazione di fallimento della società decorra dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese» (sentenza n. 319 del 2000).
Ciò sul rilievo che il «principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. […] postula che la norma con la quale viene fissato un termine non sia congegnata in modo tale da vanificare completamente la ratio che presiede alla fissazione di quel termine, rendendolo così del tutto inutile».
L’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 5 del 2006, come emerge dalla relazione governativa, ha inteso quindi novellare il predetto art. 10 della legge fallimentare al dichiarato fine di adeguarlo ai «principi contenuti nella pronuncia della Consulta» e – nell’accomunare gli imprenditori collettivi a quelli individuali nel termine annuale per la dichiarazione di fallimento – ha fatto, appunto, in entrambi i casi, decorrere detto termine «dalla cancellazione dal registro delle imprese».
3.− La norma portata al vaglio di questa Corte – sotto la rubrica «Fallimento dell’imprenditore che ha cessato l’esercizio dell’impresa» – al suo primo comma, testualmente dunque ora dispone: «Gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo».
Il legislatore del 2006 ha così legato al sistema della pubblicità i delicati rapporti tra creditori insoddisfatti, debitore insolvente e terzi venuti in contatto con il cessato imprenditore, nel quadro della crisi dell’impresa, individuando nella “condizione di fallibilità” entro l’anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, il punto di mediazione tra gli opposti interessi in gioco.
Questa soluzione normativa non è, in alcun modo messa in discussione dal tribunale a quo per quanto attiene alla tempistica della procedura prefallimentare.
Il dubbio di violazione degli evocati parametri costituzionali, per il profilo del vulnus che si sospetta arrecato al diritto di difesa del creditore, è infatti prospettato da quel giudice con specifico ed esclusivo riguardo alla ipotesi, in particolare, in cui al procedimento relativo all’istanza di fallimento, il debitore affianchi una parallela istanza di ammissione a concordato preventivo.
E ciò in ragione del principio regolatore di siffatta concorrenza di procedure – enunciato dal giudice di legittimità (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 15 maggio 2015, n. 9936) ed assunto dal rimettente come diritto vivente – a tenore del quale, in presenza di una istanza di concordato preventivo, le procedure prefallimentari, anche precedentemente instaurate, devono essere riunite alla prima e la correlativa decisione (di accoglimento) non può essere pronunciata fino a che non si verifichi uno degli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 della legge fallimentare (dichiarazione di inammissibilità, revoca dell’ammissione, mancata approvazione, negata omologazione del concordato).
4.− È appunto (e soltanto) con riferimento all’evenienza dell’“aggravio” della procedura prefallimentare – che si assume conseguente alla concomitanza di una istanza di concordato preventivo e dalla necessità di una decisione negativa sulla stessa prima di poter dichiarare il fallimento – che il giudice a quo ritiene irragionevole che continui ad operare il termine di cui alla disposizione scrutinata, in quanto suscettibile di ostacolare, in questo caso, la conclusione della procedura fallimentare entro l’anno dalla cancellazione dal registro delle imprese.
5.− La questione così prospettata assume, dunque, come sua premessa quella per cui, all’interno del periodo annuale decorrente dalla cancellazione dal registro delle imprese, l’impresa cancellata possa ancora proporre una istanza di concordato preventivo, che andrebbe in tal modo ad affiancarsi ad eventuali contrapposte istanze creditorie volte alla declaratoria del suo fallimento.
La legittimazione dell’impresa cancellata ad attivare una procedura di concordato è però controversa in dottrina, che inclina anzi ad escluderla. E, da ultimo, anche la Corte di legittimità ha affermato che «Alla società che ha cessato la propria attività di impresa, tanto da essere cancellata dal Registro, l’accesso alla procedura concorsuale minore è […] precluso ipso facto, atteso il venir meno del bene al cui risanamento il concordato tende» (Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 20 ottobre 2015, n. 21286).
Su tale decisivo aspetto problematico il Tribunale rimettente nulla, però, argomenta ed omette addirittura di prenderlo in esame.
Pertanto la questione sollevata va, conseguentemente, dichiarata inammissibile per difetto di motivazione sul presupposto logico-giuridico della sua non manifesta infondatezza.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 del regio decreto 16 marzo 1942 n. 267, (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Verona, sezione fallimentare, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 dicembre 2016.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Mario Rosario MORELLI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 gennaio 2017.